venerdì, 8 Novembre 2024

Il Green dà segnali di rallentamento: i motivi

Sommario

La transizione Green verso il Net Zero porterà più qualità della vita. Almeno in teoria, perché la pratica rischia di essere turbolenta. Il cambiamento dei modelli di consumo energetico e il rimescolamento dei flussi commerciali, infatti, potrebbero incoronare nuovi vincitori e creare nuovi perdenti. «In questo momento di policrisi la transizione energetica è difficile da capire: i risultati non sono immediati, ma saranno visibili in futuro», dice Isabel Reuss, Senior Climate and Social Advisor, Forum per la Finanza Sostenibile.

Nel frattempo le compagnie petrolifere si espandono per far fronte all’incremento che si attendono nella domanda globale di petrolio: Chevron ha acquisito Hess per 53 miliardi di dollari ed ExxonMobil ha comprato Pioneer Resources per 60 miliardi di dollari. Perché è diffuso, soprattutto negli USA, un movimento che non crede nella transizione Green?

«La diffusione di questa tendenza è stata fortemente influenzata da fattori di carattere ideologico. Per questo, quando abbiamo scritto il paper La finanza sostenibile oltre i pregiudizi, abbiamo deciso che era importante basarci su prove tecniche e scientifiche e fare ricorso a fonti affidabili e imparziali, lasciando parlare i dati. Nel documento abbiamo approfondito proprio il caso di uno Stato americano (il Texas, ndr) che, nel 2021, con una legge ha vietato ai Comuni di stipulare contratti con banche che adottano determinate politiche ESG».

Che cosa ha causato questa imposizione?

«Ha portato all’uscita dallo Stato di cinque dei maggiori sottoscrittori di obbligazioni municipali. Abbiamo citato lo studio dei ricercatori Daniel Garrett e Ivan Ivanov, che ha dimostrato come la regolamentazione governativa che limita l’adozione di politiche ESG distorca il Mercato finanziario e ottenga risultati contrari alle promesse, poiché il costo delle obbligazioni di questo Stato ha subito un incremento notevole. Questo tipo di leggi, contrarie all’incorporazione delle valutazioni ESG, ha agito infatti contro la premessa alla base del libero Mercato, ovvero che i partecipanti possono scegliere liberamente dove investire le proprie risorse, e ha invece diminuito i profitti, ridotto la concorrenza e la diversificazione, soffocando l’innovazione».

Quali sono le principali difficoltà della transizione energetica?

«Sono in parte collegate alla mancanza di know-how, cioè della comprensione di che cos’è esattamente la transizione e del fatto che, anche da un punto di vista finanziario, è economicamente vantaggioso attuarla. Il punto è che non possiamo ragionare con un orizzonte di mesi, ma dobbiamo pensare in anni, cosa che per molti risulta difficile fare. Crediamo che dobbiamo tutti noi impegnarci per l’educazione, per far capire che una giusta transizione energetica non solo è desiderabile, ma è qualcosa che dobbiamo attuare per le generazioni future. C’è sicuramente anche una componente di resistenza al cambiamento, unita alla paura di veder diminuire i profitti certi adesso per scommettere su quelli futuri. Altri timori riguardano la perdita di posti di lavoro e la crescita delle disuguaglianze sociali. I dati però mostrano che una transizione energetica equa potrà generare nuovi posti di lavoro nell’economia verde e garantire costi più bassi dell’energia».

Come mai non tutti i consigli di amministrazione adottano strategie ESG chiare?

«Non tutte le aziende viaggiano alla stessa velocità. Naturalmente incide anche il fatto che non tutte le imprese hanno al loro interno competenze specifiche sulla sostenibilità. Inoltre, la situazione di policrisi degli ultimi anni ha fatto arretrare alcune aziende su questo tema, nonostante rappresenti un fattore competitivo fondamentale. Confidiamo però che la spinta dei diversi stakeholder, a partire proprio dagli investitori responsabili, porterà un numero crescente di realtà su questa strada. Basta ricordare che molte di loro, comprese le PMI, fanno parte di catene di fornitura internazionali in cui queste informazioni vengono richieste».

L’impegno nella lotta al cambiamento climatico richiede che un Governo non sia soltanto un regolatore, ma che sia attivamente partecipe delle questioni finanziarie…

«Sì. Il motivo è che uno Stato non si limita a emanare le leggi. Nel momento in cui si impegna ad allineare le proprie politiche pubbliche a determinati obiettivi di sostenibilità, per esempio aderendo all’Accordo di Parigi o facendo parte dell’Unione Europea e adottando i suoi obiettivi climatici, il Governo si posiziona esplicitamente come un attore chiave nell’ambito finanziario. Il suo agire ha un impatto che orienta non solo gli investitori, ma anche il Mercato in generale. Un Esecutivo prende continuamente decisioni che hanno effetti diretti o indiretti. Per esempio, approvando sussidi o incentivi che danno forma al futuro di tutti noi. Un Governo è anche un emittente di titoli, che gli investitori comprano: per capire che uno Stato è un partecipante attivo nella transizione climatica, basta pensare a come il Mercato ha recepito i Green bond sovrani».

In Europa c’è una normativa Green molto dettagliata, mentre in altri Paesi, come Usa e Cina no. Come spiegare differenze così marcate?

«Sono legate alla diversità di sistemi politici ed economici, oltre che alla diversa sensibilità, tanto dei decisori politici, quanto dell’opinione pubblica. Allo stesso tempo, c’è spazio per il dialogo e per stimolare altri Paesi a impegnarsi in un’azione climatica più profonda. In questo senso, la conferenza sul clima è un appuntamento importante per capire come si stanno evolvendo gli orientamenti delle altre nazioni».

E per limitare il Greenwashing?

«La trasparenza è alla base di tutta la normativa europea, pensata proprio per garantire informazioni adeguate sugli aspetti di sostenibilità in termini quantitativi e qualitativi. Vanno in questa direzione numerosi provvedimenti degli ultimi anni: il cosiddetto Regolamento Tassonomia, la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD, in attesa dell’approvazione finale) e, ultimo, l’EU Green Bond Standard (EUGBS) adottato di recente. Il Regolamento Tassonomia stabilisce un sistema di classificazione che definisce quali attività economiche possono essere considerate ecosostenibili dal punto di vista ambientale. Fornisce alla finanza un linguaggio comune e sostiene l’obiettivo dell’Unione Europea di favorire la transizione climatica. La SFDR, invece, indica i requisiti di divulgazione per gli operatori dei Mercati finanziari e i gestori patrimoniali in merito all’integrazione dei fattori di sostenibilità nei loro processi di investimento. L’obiettivo è quello di migliorare la trasparenza e di fornire agli investitori informazioni sulle modalità, in cui le considerazioni sulla sostenibilità vengono integrate nelle decisioni di investimento».

Quanto agli altri provvedimenti?

«La CSRD richiede alle aziende di divulgare informazioni di sostenibilità, modificando la Non-Financial Reporting Directive (NFRD). L’obiettivo è aumentare la quantità, la qualità e la comparabilità delle informazioni di sostenibilità. La CSDDD mira a promuovere un comportamento aziendale sostenibile e responsabile lungo la “catena del valore” e fornire certezza giuridica alle aziende e maggiore trasparenza a consumatori e investitori. Le imprese saranno tenute a integrare la due diligence nelle politiche aziendali. In conclusione, la normativa si sta muovendo a ritmo serrato in Europa. Tra le novità in arrivo, sempre in tema di contrasto al Greenwashing, ci sono una possibile direttiva sui Green claim e l’aggiornamento di quella sui reati ambientali».

Solo il 14% delle famiglie italiane percepisce gli investimenti Green come meno costosi dei prodotti non sostenibili. Sono veramente più costosi e meno redditizi?

«Decisamente no! Nel nostro lavoro abbiamo confutato queste argomentazioni, mostrando che le commissioni in media sono più basse nei prodotti SRI rispetto ai loro omologhi tradizionali. Per quanto riguarda la performance, che i critici reputavano minore nei prodotti sostenibili, le cose stanno esattamente al contrario: i fondi ESG sovraperformano nel medio-lungo periodo. Naturalmente eventi inattesi possono avere un impatto sulla prestazione di breve termine, ma alla lunga è l’ESG a spuntarla. Questo, come dicevamo prima, è una caratteristica della stessa transizione: non sempre si vede nell’immediato».

Perché passare da un’attenzione esclusiva al risultato economico dell’azienda a una considerazione degli impatti più ampi sulla società è un cambiamento importante? «Se guardiamo questa evoluzione da un punto di vista puramente finanziario, non è nient’altro che l’attribuzione dei costi alle aziende che li generano. Ossia, l’internalizzazione di costi nelle imprese invece dell’esternalizzazione sulla società. Le conseguenze sono numerose e riguardano non solo le aziende e gli investitori, ma tutta la collettività, proprio perché gli effetti dell’attività di un’impresa non sono limitati al suo perimetro, ma incidono sulla comunità. La nostra analisi ha dimostrato come esternalizzare i costi voglia dire che questi saranno a carico anche degli investitori. Questi ultimi, infatti, dovranno sostenerli sia direttamente, poiché a lungo termine tali costi “nascosti” incideranno sulla redditività e i risultati finanziari dell’azienda investita, sia indirettamente, in qualità di contribuenti. La finanza sostenibile porta queste “passività” alla luce, quantificandole in modo trasparente. Evidenziandone la fonte, consente ai clienti di prendere decisioni informate sulle loro scelte di investimento». ©

📸 Credits: Canva.com

Articolo tratto dal numero del 15 gennaio 2024. Abbonati!