domenica, 28 Aprile 2024

Private Equity in rallentamento: calano i mega deal

Sommario
Private Equity

 Il Private Equity tira il freno, ma mostra segnali positivi. Gli aumenti dei tassi d’interesse mettono in mano al settore un’arma a doppio taglio: se il debito è meno competitivo, le operazioni a leva finanziaria si fanno più costose. Il risultato è comunque al di sopra della soglia record di 400 operazioni, pur con una lieve contrazione. «Ha lavorato maggiormente sul mid market, ma siamo di fatto in linea con l’anno precedente. Direi che questo piccolo calo non è preoccupante, anche perché il 2022 è stato un anno straordinario», dice Francesco Bollazzi, Responsabile dell’Osservatorio Private Equity Monitor attivo presso la LIUC Business School.

In effetti, l’uscita dalla pandemia ha trovato un Mercato PE definitivamente maturato e accresciuto, con un numero di operazioni – e operatori – prima impensabile. «Veniamo da 5 anni di crescita a doppia cifra percentuale. Da un punto di vista di volumi investiti, nell’ultima annata mancano i mega-deal di grandi dimensioni, con montanti investiti più contenuti. Ma nonostante un contesto socio-economico, politico e internazionale di tensioni, difficoltà e incertezza, il Mercato si conferma un player di primo piano».

Quali sono le linee di sviluppo che avete messo in luce nell’ultima edizione dell’Osservatorio Private Equity Monitor?

«Le prime evidenze mostrano un 2023 non semplice, sul fronte economico come su quello degli scenari internazionali, per tutto ciò che sappiamo, tra guerre, tematiche energetiche, di approvvigionamento delle materie prime e quant’altro, per cui sullo sfondo abbiamo un contesto economico non semplice, con un Mercato dell’M&A in generale un pochino più contratto rispetto all’anno precedente (ne avevamo parlato qui)».

In che cosa si distingue il Mercato del Private Equity italiano in questo quadro di insieme?

«Il fatto che a livello di numero di deal tutto sommato il risultato è soddisfacente. Abbiamo mappato 406 operazioni contro le 441 dell’anno precedente, quindi a un -8%, però dobbiamo inserire un paio di distinzioni. La prima: il 2022 è l’anno in assoluto dei record per il PE, dal 2018-19 al 2022 ci sono stati di fatto 4/5 anni di crescita costante a doppia cifra percentuale. Oltre 400 operazioni, se contiamo che 5 o 6 anni fa erano 100, non sono affatto male, tenendo conto anche dello scenario nel quale questo risultato è maturato.

Dopodiché, non si può crescere sempre: questo calo può essere tranquillamente considerato fisiologico. Non è allarmante. Quello che si può segnalare è una molto elevata – se non pressoché totale – assenza di operazioni di grandi dimensioni. Vale a dire che il Mercato si è focalizzato di fatto sul mid market italiano, il che da un certo punto di vista è assolutamente naturale. Non sempre si possono effettuare operazioni di grandi dimensioni, perché le big nel nostro Paese non sono tantissime. In ogni caso, la fotografia è quella di un’industria che ha raggiunto un livello di maturità assolutamente importante. Direi che in questo senso il salto di livello degli ultimi 5 anni è davvero notevole».

Al di là del dato aggregato, come si può spiegare questa tendenza maggiore verso operazioni di taglio più piccolo?

«Come accennavo prima, questo è il contesto del nostro Paese. Su 10 operazioni, è chiaro che 9 sono sul mid market, perché è così il sistema imprenditoriale italiano. Diciamo che solitamente si assiste comunque alla presenza di una decina di operazioni che vanno oltre il miliardo di enterprise value, mentre quest’anno sono state decisamente più contenute, di fatto ce n’è stata una molto importante verso la fine, che è stata quella su Eni Plenitude, però poco altro. 3-4 operazioni circa, se non erro, mentre  solitamente erano a un bel po’ di più, all’intorno del 6-7%».

Questa tendenza la legherebbe soprattutto a fattori congiunturali?

«Non è stato l’anno nel quale il focus è stato su quello, ma sul finale assistiamo a nuovi deal importanti: oltre alla già citata Plenitude, si è chiusa di recente l’acquisizione di La Piadineria da parte di Permira, ad esempio. Anche questo è un elemento che esprime determinati andamenti concettuali di Mercato. Sicuramente il contesto non aiuta nessuno. Anche l’M&A nel complesso ha evidenziato l’assenza di operazioni di grosso taglio, mentre tutto sommato il sottoinsieme Private Equity si è difeso meglio».

Qual è stato il ruolo dei player internazionali rispetto agli anni precedenti?

«Allora, questo è un dato buono e che conferma la maturità del Mercato. Il ruolo dei player internazionali non è mutato: l’arena è quasi equamente divisa tra domestici e internazionali. Prima questi ultimi svolgevano i grossi deal e poco altro, oggi, complici numerose basi in Italia e la volontà di penetrare nel tessuto imprenditoriale, concludono anche tanti dei sub market. Questo è anche un buon segno per il nostro Paese: ci sono stati anni nei quali i player internazionali ci guardavano con uno sguardo molto sospetto. Evidentemente il sistema-Paese ha recuperato un livello di appeal decisamente migliore rispetto ad alcuni anni del passato».

Una specie di cartina tornasole…

«Esattamente. Ci dice come siamo visti fuori, ecco, perché è chiaro che l’azienda gioiello la vai anche a comprare, ma se quell’azienda gioiello è inserita in un contesto dove le cose non funzionano del tutto, è chiaro che preferisci forse fare un passo indietro piuttosto che aprire più linee».

Le inasprite condizioni di credito aprono un doppio scenario, in un certo senso, da un lato favorendo l’opzione equity perché più economica, ma dall’altro lato aumentano i rischi per gli operatori – come spesso nel PE – che operano a leva. Quale tendenza dipinge meglio l’Italia?

«Sicuramente la stretta creditizia è stato un ulteriore impulso nel Mercato negli ultimi anni, questo è fuori discussione. Ci aggiungerei anche un altro elemento secondo me non secondario, cioè un deciso miglioramento sotto il punto di vista del grado di cultura finanziaria del nostro sistema imprenditoriale. 15 anni fa se si parlava di Private Equity, su 10 imprenditori 8 non avevano idea di cosa fosse, uno diceva che ne aveva sentito parlare e uno solo, forse, ti avrebbe detto che conosceva di cosa si parlava. Oggi non è più così, si può fare meglio certamente, ma il grado di alfabetizzazione e di cultura finanziaria è aumentato esponenzialmente. Dopodiché, per quanto riguarda la tematica del debito, le operazioni in capitale per lo sviluppo sono meno interessate dalla leva, perché finanziano programmi e progetti di sviluppo, di potenziamento e di crescita delle imprese.

Per quanto riguarda le operazioni di LBO, quindi di leveraged buyout, che fanno ricorso anche a capitale di debito, sì, c’è da dire che la maggiore difficoltà di accesso al debito può essere un limite. È pur vero che le operazioni italiane non sono tra quelle che si distinguono per eccessivi gradi di leva perché storicamente ben calibrate.

C’è poi da dire che c’è una nuova fonte di debito che alcuni anni fa non esisteva, ovvero oggi se tu vuoi fare un’operazione di LDO, quindi Private Equity, ma con l’impiego di debito, non hai più solo l’opzione banca, ma anche quella dei fondi di Private Debt. Questi enti hanno di fatto un approccio all’azienda molto simile a quello del PE, pur fornendo uno strumento di debito. A maggior ragione, le operazioni di buyout e di leveraged buyout in Italia non hanno alcun problema e sono di fatto, anche quest’anno saranno, tre quarti di quelle totali».

È corretto mettere in relazione questo minore uso della leva alla prevalenza di operazioni più piccole?

«Sì, ma dipende: il debito è sempre in qualche modo proporzionale e funzionale al tipo di operazione. Penso che il tema sia un altro. Intanto, ricordiamo la considerazione di base sulla natura del nostro sistema imprenditoriale: come dicevamo prima, l’ampia maggioranza delle operazioni è proprio sulle piccole e medie imprese. Dopodiché, è chiaro che gli operatori italiani hanno loro stessi una dimensione più contenuta, ovvero non abbiamo in Italia i BlackRock, Blackstone e così via, ma degli operatori dimensionalmente più contenuti e quindi il taglio delle operazioni ha anche funzione del tipo di operatori.

Aggiungerei un’ulteriore riflessione: in questi anni, una buona parte del Mercato, intorno al 35-40% a seconda degli anni, è rappresentato da operazioni di add-on effettuate su aziende già in portafoglio di Private Equity crescendo esternamente, tramite acquisizioni, naturalmente sotto la regia dello stesso operatore PE. Questo significa che in questi anni di grandi difficoltà il target va sul far crescere, rinforzare e rinsaldare le aziende già in portafoglio. In secondo luogo, questo porta alcune società a divenire delle vere e proprie platform companies. Per fare che cosa? Per creare dei modi di aggregazione in modo tale da costruire quelle grandi imprese che sono più deficitarie a livello di numero nel contesto italiano. Infine, è chiaro che se voglio fare processi di aggregazione vado ad acquisire aziende dimensionalmente compatibili con un’operazione di questo genere, da cui ancora i tagli non grandissimi».

Cosa si aspetta per l’andamento del PE nel 2024?

«Non mi aspetto grossi sconvolgimenti nel corso del 2024. Sul fronte della domanda, le imprese ci sono, così come le opportunità di investimento di vario tipo, quindi capitale per lo sviluppo, buyout, turnaround e ristrutturazioni non mancano. Quanto all’offerta, cresce il numero di operatori, un trend costante nel nostro Mercato, tanto per le aziende domestiche quanto per i player internazionali. Insomma, il Mercato arriva in una fase compiuta di maturità, dopo un biennio importante. Lo si vede dal grado di penetrazione a livello settoriale: ormai il Private Equity pervade tutti i settori, compresi quelli di ultima generazione, la transizione digitale ed ecologica. Ma c’è anche una forte penetrazione a livello geografico, da un iniziale nucleo esclusivamente lombardo a quasi tutte le regioni, nonostante il Nord Italia mantenga il primato».

Quali fattori tenere d’occhio per capire cosa attendersi?

«Ovviamente il Mercato del debito, l’andamento dei tassi e lo scenario internazionale. Poi, credo che gli elementi intrinseci al Mercato ci siano tutti, ma è chiaro che un po’ di stabilità, un po’ meno incertezza, giova a tutte le industrie. Proprio per questo, il 2024 ha le carte in regola per portare un ritorno alla crescita dopo un anno di stand by fisiologico, se le condizioni esterne lo favoriranno».

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".