Il futuro del nostro mix energetico continua a essere al centro del dibattito. Nel quadro si reinserisce prepotentemente il nucleare, fonte bandita dal dibattito pubblico fino a pochi anni fa, ma che presto potrebbe ricevere un posto importante nelle scelte del Paese. Tuttavia, le energie rinnovabili restano la chiave per ridurre la dipendenza dalle importazioni estere di fonti fossili, che hanno un peso dell’80% nel sistema energetico italiano, contro una media UE del 69%. In particolare, i punti di forza delle infrastrutture Green sono la maturità tecnologica e l’esperienza degli anni passati.
E su questo fronte si fa strada una nuova soluzione. «La Sardegna e la Sicilia potrebbero diventare un hub da cui esportare energia per le altre Regioni» dice Alessandro Migliorini, Director e Country Manager di European Energy Italy. «Infatti, potrebbero produrla in loco, sfruttando l’alto potenziale di eolico e solare, per poi esportarla nel resto delle Regioni. Tuttavia, serviranno investimenti e una burocrazia più rapida per ottenere le autorizzazioni per costruire gli impianti e renderli interconnessi in un’unica rete. Terna ha un piano di investimenti molto ambizioso, il problema è capire le tempistiche e la fattibilità. Bisogna verificare lo stato dell’arte e capire quanti progetti attualmente sulla carta raggiungeranno la cantierabilità, trovando accorgimenti che permettano a chi fa investimenti di ottenere una soluzione di connessione in modo non troppo oneroso».
È vero che il nucleare è più economico delle rinnovabili o si tratta solo di un mito da sfatare?
«Il fatto che la Francia venda energia a un prezzo competitivo è frutto di un accordo tra EDF (colosso energetico con partecipazione statale dell’8%) e lo Stato francese. Tuttavia, nel 2025 questo accordo scadrà. Il nucleare è un tema molto serio e va gestito di conseguenza. Servono soluzioni tecniche, che vanno valutate e accettate. Personalmente, sono un sostenitore di questa opzione, penso sia un elemento essenziale del mix energetico del futuro. Tuttavia, oggi sempre più spesso una parte politica si fa portatrice degli interessi di una certa tecnologia».
Secondo lo State of the Energy Union Report 2024 nel mix le fossili in Italia sono a quota 80% contro una media europea del 69%. La situazione peggiora se guardiamo alla sola energia elettrica. Infatti, le fonti fossili rappresentano il 68%, contro il 38% della media in Europa. Come invertire questo trend e accelerare nella transizione?

«La soluzione è sotto gli occhi di tutti: aumentare le installazioni di rinnovabili non è l’unica via. Ci sono una serie di elementi che vanno gestiti in contemporanea con gli investimenti rinnovabili, come l’implementazione della rete, che oggi rappresenta uno dei problemi più complessi. Infatti, una grande quantità di energia prodotta ha bisogno di una rete per essere sfruttata. Serve anche un maggiore sviluppo delle batterie per gestire la super produzione. Parte tutto dall’incremento delle rinnovabili: soprattutto solare ed eolico, onshore e offshore. Quest’ultimo presenta tematiche un po’ più complesse. L’Italia ha iniziato la transizione più tardi rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale, ad esempio la Germania».
Negli ultimi anni la dipendenza dalle importazioni di fonti fossili è aumentata. Dopo l’invasione dell’Ucraina sono cambiati i fornitori dell’energia, ma il risultato non sembra variare di conseguenza. I fornitori di gas, in particolare, sono aumentati dai 14 del 2021 ai 19 del 2023, tre dei quali hanno provveduto al 63% degli approvvigionamenti totali. Se, da un parte, il riempimento degli stoccaggi aumenta la flessibilità e la sicurezza del sistema, dall’altra aumenta la dipendenza dalle importazioni. Come interrompere questo circolo vizioso?
«Abbiamo cambiato medico ma non medicina. Di fatto, siamo rimasti legati a questa dipendenza dai fossili per generazioni. Alla fine, il cambiamento di fornitori è stato nefasto in termini di prezzi del gas, che ora paghiamo molto più rispetto a quando arrivava dalla Russia. E il prezzo dell’energia è legato a quello del gas. Se è vero che il costo di generazione dell’energia da rinnovabili è più basso rispetto alle fossili, non si capisce perché si continui comunque a puntare su una tecnologia che stanno abbandonando tutti i Paesi dell’Europa. Il problema principale riguarda le tempistiche: forse la comunicazione sulla transizione energetica non né stata fatta in maniera opportuna. Infatti, è sembrato che da oggi a domani il sistema dovesse subire una riconversione immediata. Invece, il gas è un elemento di stabilizzazione della rete che dovremo continuare ad utilizzare finché non ci sarà un aumento delle installazioni di batterie. È un processo lungo, che va velocizzato perché fino a oggi la produzione da rinnovabili non ha bilanciato quella da fossili. Un Paese dipendente dall’estero ha e avrà sempre più ricadute sulle sue capacità industriali».
L’autonomia differenziata darà una spinta alla realizzazione di nuovi impianti che producono energia rinnovabile secondo lei?
«È un tema estremamente complesso. Penso che le decisioni in materia energetica non possano essere lasciate alle Regioni. Visto che è un aspetto di interesse nazionale, non può essere relegato a un piano regionale. Con l’autonomia differenziata, già stiamo vedendo i risultati in Sardegna, temo si andrà incontro a grandissime problematiche. Ci saranno Regioni più virtuose, che comprenderanno l’impatto delle rinnovabili sul territorio, altre no. Si dimentica spesso di sottolineare la portata degli investimenti che questi obiettivi possono portare in Italia in termini di capitali esteri. Dovremmo abbandonare questo sciovinismo che ci fa sentire colonizzati dagli stranieri quando realizzano infrastrutture e stabilimenti nel nostro Paese. Infatti, le ricadute sul sistema non sono poche. Non dimentichiamo infatti gli oneri di compensazione che vanno pagati ai Comuni che permettono di realizzare opere a vantaggio per la cittadinanza, ma anche oneri di mitigazione. Oppure l’utilizzo di professionisti e aziende italiane per la realizzazione di queste infrastrutture. Sono tutti elementi che oggi vengono messi da parte per concentrare la diatriba su problemi pretestuosi come il consumo di suolo che nuocerebbe all’agricoltura, il deturpamento del paesaggio, etc.».

Quali sono i pregi e i difetti del Decreto Aree Idonee?
«C’è stato un approccio normativo sbagliato: abbiamo dato principi generali e grande autonomia alle Regioni. Sicuramente non gioverà là dove c’è un atteggiamento ostativo nei confronti delle rinnovabili. Il Dl Aree Idonee ha molti difetti secondo me. Lo stesso Consiglio di Stato si è espresso in modo negativo perché è poco specifico. In primo luogo è ancillare rispetto al Decreto Agricoltura, che di fatto bloccava i progetti in corso senza dire dove costruire. Guardando all’impostazione di questa norma, penso che abbiano influito le proteste del Ministero della Cultura e della Soprintendenza. Applicando le prescrizioni alla lettera, il 96% del territorio italiano risulterebbe non idoneo alla realizzazione di impianti».
Quanti e quali investimenti servono per raggiungere l’obiettivo di raggiungere un’interconnessione elettrica del 15% al 2030, rispetto all’attuale 5%?
«Sicuramente è un elemento essenziale per lo sviluppo delle rinnovabili, perché purtroppo oggi per le connessioni abbiamo tempistiche bibliche, che si sommano a quelle per ottenere le autorizzazioni. Una situazione che, forse anche per colpa degli operatori senza scrupoli, ha permesso che alcune connessioni raggiungessero i 2.500 euro di prezzo. Quando si hanno più di 300 gigawatt di richieste di connessione e il 70% sono progetti senza coda è evidente che in prospettiva la gestione dell’interconnessione deve contenere numeri potenziali, altrimenti rischiamo di sovrastimare gli investimenti. Il Tyrrenian Link e le altre interconnessioni con le isole rappresentano un’opportunità importante per il Paese».
Parliamo dell’agrivoltaico, su cui avete messo in piedi un grande progetto a Flakkebjerg, in Danimarca. In cosa consiste e quali benefici economici e ambientali porta?
«Bisogna superare la tradizionale dicotomia tra energia e agricoltura: la prima rappresenta una grande leva di crescita per la seconda. Negli ultimi decenni sono diminuite del 30% le aziende medio-piccole, i terreni sono sempre più concentrati nelle mani dei grandi player. Parliamo di un settore che ha perso attrattiva anche nei confronti dei giovani. Il fatto di poter contare su sinergie tra agricoltura e produzione di energia consente all’agricoltura di avere i mezzi per sostenersi. Abbiamo già un progetto di agrivoltaico avanzato in Sicilia. E in Italia ci sono molte aree agricole marginali non coltivate: non si tratta di consumo di suolo, ma permetterebbe di recuperare parte dei 4 milioni di ettari non coltivati nel nostro Paese. A breve partirà la raccolta del progetto in Danimarca, quindi finalmente avremo dati. Fare un progetto di utility scale può dare risultati che si possono portare al tavolo nelle discussioni. Sicuramente è una strada molto importante da perseguire anche in Italia. È importante monitorarlo nella maniera opportuna affinché sia una sinergia reale. Non bisogna sottovalutare neanche i benefici di un’azienda guidata da un imprenditore agricolo. I vantaggi in termini di coltivazioni sono ben noti agli agricoltori, ma ce ne sono altri, come il recupero delle acque piovane e il monitoraggio dello stato del territorio».
Qual è il vero potenziale dell’energia nucleare per la transizione energetica italiana e la competitività delle imprese?

«Potenzialmente il nucleare è una tecnologia che può avere un ruolo importante nel mix energetico. Mi sorprende questo modo di comunicare molto aggressivo nei confronti delle rinnovabili, soprattutto in termini di tempistiche e tecnologie. Dobbiamo dire chiaramente che il nucleare di nuova generazione e gli Small Modular Reactor non saranno pronti e non ci sarà una risposta importante dal punto di vista del Mercato prima dei prossimi 15/20 anni. Appurato che tra 10 anni si potranno realizzare gli Small Modular Reactor (Piccoli Reattori Modulari) e ne servano 30/40 per raggiungere gli obiettivi indicati dal Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin, ho dubbi sul fatto che riescano a individuare le zone dove impiantarli. Anche escludendo il fenomeno NIMBY (associazioni e comunità locali che ostacolano la realizzazione di nuove infrastrutture), non dobbiamo dimenticare che c’è anche un problema geologico. Spesso si cerca di minimizzare il tema dei rifiuti da nucleare. Si deve portare avanti una politica seria per la realizzazione degli impianti e lo stoccaggio dei rifiuti, non correre dietro alle correnti politiche. In ogni caso, l’unica soluzione immediata che vedo è l’accelerazione sulle rinnovabili. Certo, possiamo discutere su diverse tecnologie, quali il nucleare, ma la scelta è tra strumenti che hanno alle spalle un solido track record e innovazioni che sono ancora agli albori. In altre parole, gli impianti Green hanno un bagaglio di risultati ottenuti in passato che permette di valutarne caratteristiche e implicazioni».
A proposito di inquinamento, pensa che la diffusione di automobili elettriche in Italia potrà raggiungere i livelli della Cina?
«In Cina il sistema delle auto elettriche funziona perché c’è un sistema di sostituzione delle batterie. Far andare avanti un Paese come l’Italia con le infrastrutture di ricarica è complicato. Prima di tutto, bisognerebbe cambiare il paradigma». ©
Articolo tratto dal numero del 1 novembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!