sabato, 8 Novembre 2025

Ai più accessibile, l’Italia si fa largo tra le big

Sommario
AI index 2025

L’intelligenza artificiale corre, cambia forma, si infiltra ovunque. E mentre Stati Uniti e Cina dominano la scena, l’Italia si fa largo tra i big. Lo dice l’AI Index 2025, il report annuale di Stanford che fotografa lo stato dell’AI nel mondo. L’analisi, divenuta riferimento globale per ricercatori, Governi e aziende, passa in rassegna centinaia di metriche: dalla qualità dei modelli al numero di brevetti, dagli investimenti privati alle applicazioni mediche.

Ma è tra le righe dei dati che si colgono i segnali più interessanti. L’intelligenza artificiale sta uscendo dal recinto delle Big Tech per diventare terreno di sfida geopolitica, economica, industriale. L’Index mostra un ecosistema sempre più vasto, alimentato da attori nuovi, da una competizione diffusa e da investimenti che non parlano più solo l’inglese californiano o il mandarino di Shanghai.

L’Italia entra nella top 15 per investimenti in AI

Tra i numeri che sorprendono, c’è proprio il dato italiano: 860 milioni di dollari investiti nel 2024, abbastanza per piazzarsi tra i primi 15 Paesi al Mondo. E non è un caso isolato. L’Italia è terza a livello globale per sperimentazioni cliniche AI-based, superata solo da Stati Uniti e Cina. Un risultato che dice molto non solo sul sistema sanitario e universitario, ma anche su una crescente apertura all’innovazione da parte delle strutture pubbliche.

Il dato più significativo riguarda gli investimenti privati in intelligenza artificiale, termometro affidabile della fiducia che aziende e Venture Capital ripongono nella tecnologia. A livello globale, il 2024 ha registrato un impegno da 252,3 miliardi di dollari, con una crescita del +25,5% rispetto all’anno precedente. Non è solo questione di volumi: aumenta anche la distribuzione geografica degli investimenti, con meno concentrazione nei soliti hub e una progressiva apertura a nuovi attori.

Tra questi spicca appunto l’Italia, con un salto di qualità che rompe anni di invisibilità statistica e testimonia un risveglio dell’ecosistema nazionale, alimentato da Startup Deeptech, progetti universitari, iniziative corporate e incentivi pubblici.

Il dato è ancora distante dai volumi delle superpotenze – gli Stati Uniti da soli concentrano oltre 100 miliardi di dollari – ma rappresenta una svolta culturale: l’AI non è più solo un tema di convegni e policy paper, ma una frontiera su cui si comincia a scommettere concretamente. La sfida, ora, è rendere questo slancio strutturale e duraturo.

Terzo Paese al Mondo per sperimentazioni cliniche AI-based

L’altra sorpresa arriva dal mondo della sanità. Secondo i dati raccolti nel report, nel solo 2023 la FDA statunitense ha approvato oltre 225 dispositivi medici che integrano tecnologie di intelligenza artificiale. L’intersezione tra AI e salute si conferma uno dei campi più fertili di sviluppo e applicazione reale.

«Qui in Silicon Valley non si parla d’altro che di intelligenza artificiale applicata alla salute. È nei laboratori, nelle Startup, nei reparti ospedalieri. E l’Italia è terza nel Mondo per numero di sperimentazioni cliniche con intelligenza artificiale, dopo Cina e Stati Uniti», dice Loredana Forettini, economista italiana, ricercatrice associata del Stanford Institute for Human-Centered Artificial Intelligence (HAI) e co-autrice dell’AI Index.

Risultati che non nascono dal nulla. Alle spalle c’è un tessuto universitario robusto, una rete di IRCCS e ospedali pubblici competitivi e una tradizione di ricerca biomedica che riesce – nonostante le carenze strutturali – a collaborare con il mondo tech.

Il dato, rilevato da ClinicalTrials.gov e incluso nel report, non solo certifica la qualità della ricerca italiana, ma indica una nuova tendenza: l’AI non è più vista come una minaccia o un feticcio, ma come uno strumento da integrare, valutare, testare. Un segnale incoraggiante, specie in un settore – quello sanitario – a volte diffidente verso l’innovazione digitale.

La rivoluzione AI è anche una questione di accesso

Uno dei trend più rilevanti messi in evidenza dall’AI Index 2025 riguarda la democratizzazione dell’intelligenza artificiale. Dopo anni in cui lo sviluppo di modelli avanzati è stato appannaggio di pochi colossi tecnologici, qualcosa sta cambiando. I nuovi dati mostrano che l’ecosistema AI si sta aprendo e che la distanza tra modelli open source e soluzioni proprietarie si riduce. Modelli come LLaMA di Meta o Mistral, prodotto da un’azienda francese, offrono performance che, in molti task, riducono l’egemonia di GPT-4 o Gemini, aprendo scenari più accessibili a chi ha meno risorse.

Non è solo una questione tecnica, ma soprattutto economica e geopolitica. La barriera d’ingresso si abbassa: framework condivisi, sistemi pre-addestrati, piattaforme collaborative riducono il costo della sperimentazione. L’AI, pur restando una tecnologia costosa, comincia a funzionare come una commodity: standardizzata, riutilizzabile e adattabile a diversi contesti. Il risultato è un Mercato più fluido, con più attori e una maggiore diversità geografica.

L’Europa, da tempo impegnata sul piano regolatorio, inizia ora a farsi spazio anche su quello tecnico. Crescono i modelli nativi europei, i dataset multilingua, le piattaforme open sviluppate da università e consorzi pubblici. Nascono strumenti low-code, interfacce semplificate, perfino ambienti che permettono anche a piccole realtà di sviluppare applicazioni AI senza infrastrutture da miliardi.

Anche per l’Italia si apre una finestra: non serve costruire tutto da zero per contribuire. Si può integrare, personalizzare, mettere in rete. L’AI diventa più modulare e meno verticale, più distribuita e meno esclusiva. È uno snodo cruciale: più accesso non significa solo più competizione, ma anche più responsabilità. Perché democratizzare una tecnologia così potente espone anche a nuovi rischi — etici, sociali, ambientali — che richiedono visione e governance. Ma, nel frattempo, rende l’innovazione più inclusiva, redistribuendo il potere computazionale e decisionale su scala globale.

Ricerca, governance e sicurezza: cosa ci dice l’Index

L’intelligenza artificiale punta ancora su nuovi modelli ad alte prestazioni, ma  pone sempre più attenzione a controllo, trasparenza e rischio sistemico. L’AI Index 2025 dedica un’intera sezione all’analisi della governance globale dell’AI. Emergono forti asimmetrie: mentre alcuni Paesi avanzano nello sviluppo di normative, framework di valutazione e test di robustezza, molti altri restano in una posizione marginale.

Il report evidenzia l’aumento di iniziative per la valutazione dei modelli di AI generativa da parte di enti indipendenti. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i test sono svolti ancora da chi quegli stessi modelli li produce. Il tema della safety resta centrale ma irrisolto, mentre si moltiplicano le pubblicazioni accademiche su alignment, interpretabilità, watermarking, bias e disinformazione.

L’Unione Europea si muove con l’AI Act, ma – sottolinea l’Index – non esiste ancora un consenso globale su cosa significhi rendere “sicura” una tecnologia come questa. Il paradosso è che proprio nel momento in cui l’AI diventa più potente, la capacità delle istituzioni pubbliche di comprenderla e regolarla non tiene il passo.

L’Italia, pur avendo un ruolo attivo nel dibattito europeo, non viene citata tra i Paesi che guidano il fronte normativo o etico. L’impressione è che l’interesse sia più rivolto agli aspetti industriali e applicativi dell’AI, piuttosto che alla costruzione di un’infrastruttura regolatoria capace di garantire trasparenza, accountability e rispetto dei diritti fondamentali.

Se l’intelligenza artificiale è destinata a diventare una tecnologia infrastrutturale, allora la mancanza di una visione strategica sulla governance può trasformarsi in un problema politico, prima ancora che tecnologico.

Un ruolo da costruire, dentro l’Europa

Mentre la governance dell’intelligenza artificiale si gioca sempre più su scala sovranazionale, l’Europa prova a ritagliarsi uno spazio distinto. L’approvazione dell’AI Act nel 2024 ha segnato un passaggio storico: è la prima normativa al mondo che tenta di regolare l’AI con un approccio sistemico, basato sul rischio e sulla trasparenza. Ma le regole, da sole, non bastano a garantire influenza. Servono centri di ricerca pubblici, dataset aperti e partecipazione attiva ai consorzi strategici. E su questo fronte, l’Italia non ha ancora fatto il salto.

Sebbene abbia partecipato alla definizione del quadro europeo, il nostro Paese non è tra quelli che guidano il processo, né sul piano tecnico né su quello politico. Le iniziative restano sparse, non coordinate. Il capitale umano, però, c’è. Basti pensare a figure come Loredana Fattorini, tra le principali autrici dell’AI Index. Ma non esiste una cabina di regia nazionale che colleghi le università con l’industria, la formazione con le imprese, i laboratori con le istituzioni. I singoli centri eccellono, ma il sistema nel suo complesso fatica a generare massa critica.

In assenza di una strategia unitaria, il rischio è doppio. Da un lato, non attrarre abbastanza fondi e competenze internazionali. Dall’altro, trovarsi a dover implementare, senza possibilità di incidere, regole scritte altrove. Con un’AI sempre più pervasiva, questa subordinazione non è solo tecnica ma geopolitica: significa accettare che i principi, le soglie di rischio, perfino le definizioni chiave dell’innovazione, vengano decisi da altri.

Eppure, le basi per un ruolo più attivo ci sarebbero. Centri universitari di eccellenza, un sistema sanitario avanzato, una crescente vitalità imprenditoriale nel Deeptech. Tutti elementi che, se messi a sistema, potrebbero fare dell’Italia non un follower, ma un contributore credibile nella costruzione dell’AI europea. Ma serve volontà politica, visione industriale e la capacità di scommettere su ciò che oggi è ancora fragile, ma strategico.

Un’opportunità da cogliere (finché è aperta)

Il posizionamento dell’Italia all’interno dell’AI Index 2025 rappresenta un punto di svolta potenziale. Per la prima volta, il Paese entra nel radar delle potenze tecnologiche non come osservatore, ma come partecipante attivo. Gli investimenti crescono, la ricerca produce risultati visibili, la sperimentazione clinica si muove in direzione dell’eccellenza. Ma i numeri, da soli, non bastano a raccontare una strategia.

L’Italia si trova in un momento in cui competenze scientifiche, know-how universitario e capacità applicative – dal biomedicale all’automotive, passando per l’aerospazio e l’Agritech – possono fungere da leve strategiche. Esistono le condizioni di base: ricercatori competitivi, PMI innovative, grandi gruppi industriali con vocazione tecnologica, centri di eccellenza nella sanità pubblica. Tuttavia, il sistema resta frammentato. E la mancanza di una visione industriale coerente rischia di trasformare questi segnali positivi in episodi isolati, invece che in una traiettoria strutturale.

La sfida è tutta qui: trasformare il dato in direzione, la tendenza in ecosistema. Senza un’infrastruttura di sostegno alle Startup Deeptech, politiche pubbliche orientate alla scalabilità, incentivi fiscali mirati e una strategia chiara sull’uso dell’AI nella Pubblica Amministrazione, il rischio è che i buoni risultati del 2024 si esauriscano in una fotografia temporanea. Una parentesi, più che un nuovo capitolo.

Il report di Stanford non celebra, ma misura. Non garantisce il futuro, lo anticipa. E in quella fotografia globale, l’Italia oggi appare – piccola, ma nitida – tra i Paesi che possono giocarsi un ruolo. Tocca alla politica, all’impresa e alla ricerca, scegliere se trasformare quella comparsa in una presenza stabile. Perché la finestra è aperta, ma non lo resterà per sempre.

Il rischio più grande, come sempre, non è restare indietro. È non decidere. E perdere l’occasione di partecipare davvero. ©

📸 Credits: Canva  

Articolo tratto dal numero del 15 luglio de il Bollettino. Abbonati!

Imparare cose nuove e poi diffondere: è questo il mio obiettivo. Proprio questo mi ha portato ad approfondire il mondo del web3, della finanza digitalizzata e delle crypto. Per il Bollettino mi occupo di raccontare una realtà ancora poco conosciuta in Italia, ma con un grande potenziale.