giovedì, 25 Aprile 2024

Cina-Usa: la guerra economica va avanti

DiRedazione

15 Marzo 2021 , , , ,

Come fa un’industria tecnologica a produrre senza essere dipendente dalla Cina? «Se sei gli Stati Uniti questo può essere un problema», spiega Matteo Laruffa, PhD e autore del libro “L’America di Biden”. L’interrogativo arriva in seguito alla decisione del Presidente Usa di revisionare le catene di approvvigionamento di alcuni materiali, tra cui terre rare, chip semiconduttori, batterie e prodotti farmaceutici. «Il dipartimento di Stato, già negli scorsi anni, aveva iniziato a segnalare una serie di merci o materie prime che risultano essere di primaria importanza per l’interesse economico americano. Esse sono quindi soggette al divieto di esportazione. L’amministrazione americana si riserva di aggiornare periodicamente questa lista. Nell’ultimo periodo abbiamo assistito a una carenza di semiconduttori, materiali presenti nella maggior parte dei dispositivi elettronici, a partire dai cellulari fino agli elettrodomestici. Quest’assenza ha portato General Motors, uno dei più grandi player dell’economia statunitense, a limitare la produzione di automobili per esempio».

A cosa è dovuta questa carenza?

«Basti pensare che la Cina controlla l’80% dell’offerta globale di terre rare. La produzione americana di chip è invece di circa il 12%. Pechino ha praticamente il monopolio delle risorse. Il Presidente Biden è dovuto quindi intervenire con un ordine esecutivo per iniziare a controllare la circolazione di chip, semiconduttori e terre rare. Si tratta di una mossa interessante, perché va a inserirsi nella guerra commerciale iniziata dal suo predecessore».

Possiamo parlare di continuità tra l’amministrazione Trump e quella Biden?

«Donald Trump durante il suo mandato ha seriamente criticato la globalizzazione indiscriminata, ha intimato alla Cina di non abusare di un terreno neutro e arbitrario che era il mercato pre-Covid19. La pandemia ha fatto riscoprire l’essenzialità della cooperazione multilaterale ma soprattutto delle regole. Quindi la continuità in questo senso è una strada obbligata. Ma è tutto un unico panorama: abbiamo la revisione delle catene d’approvvigionamento, il rapporto con la Cina e un altro fenomeno emergente, il reshoring».

Il Covid19 ha determinato anche la fine della delocalizzazione?

«La crisi sanitaria e la chiusura delle frontiere hanno fatto nascere l’esigenza di riportare la produzione a livello di prossimità territoriale. Ma questa non è l’unica motivazione che spinto gli Stati Uniti a una soluzione del genere. Negli ultimi anni gli americani hanno subito ingenti furti industriali dalla Cina, che li hanno indeboliti molto. Ora l’America ha deciso di proteggersi sostanzialmente per tutelare la proprietà intellettuale e industriale delle innovazioni».

L’America di Biden, di Matteo Laruffa

Una sorta di autarchia, in questo si inserisce anche “Buy american”?

«Buy american è parte della comunicazione del Presidente Biden, ma non è una sua invenzione. È una legge del 1933, dell’amministrazione Roosevelt, che destina una percentuale limitata del bilancio pubblico all’acquisto di beni e servizi prodotti in America».

Rimanendo sempre in tema di economia interna, il Piano di stimoli di Biden, quantificato in 1900 miliardi di dollari, secondo alcuni potrebbe far crescere l’inflazione. È un pericolo reale?

Mi rifaccio alle parole del Segretario al Tesoro Janet Yellen, che è stata anche Presidente della Fed. Lei dice: “Act big”, quindi “agire grande”, cioè fare di più è meglio che fare troppo poco. Il Piano Biden si stima possa mobilitare circa il 9% del Pil americano e determinare un aumento dei prezzi nei tre anni a venire di massimo il 2,25%. Non è assolutamente un’inflazione spaventosa.