Vola la second hand economy. Il fascino dell’usato vale 24 miliardi di euro e rappresenta l’1,3% del Pil nazionale. Le generazioni più giovani e la ricerca sempre maggiore di una vita sostenibile, trainano il mercato che, negli ultimi cinque anni, è cresciuto del 33%. «Quello attuale è uno scenario molto effervescente. E tutte queste informazioni lanciano un messaggio molto chiaro, ossia che le persone si stanno appassionando sempre di più all’acquisto di beni di seconda mano», dice Alessandro Giuliani direttore generale di Leotron, l’azienda numero uno in Italia che opera nel mondo della second hand economy, attraverso i marchi Mercatopoli e Baby Bazar.
«La pandemia ha permesso di cogliere ancora di più le potenzialità di questo mercato. Tanto che, se attualmente il modello di business che funziona in Italia e che permette di ottenere un reddito è quello del negozio tradizionale che utilizza l’online a completamento dei servizi che offre, adesso, molte aziende hanno compreso la necessità di investire molto di più nel digitale. E lo stanno facendo con svariati milioni di euro».
Se il comparto dell’usato ha portato per molto tempo con sé lo stigma che lo penalizzava come ambito riservato alle classi meno abbienti, oggi stiamo assistendo a un totale capovolgimento di questa tendenza. E il second hand viene percepito, invece, come una soluzione ai problemi ambientali e come una scelta “alla moda”.
Molto ha influito la spinta eco-consapevole dei Millenials e della Gen Z, che stando a una ricerca di Boston Consulting Group, per l’80% prova sensi di colpa nell’acquistare fast fashion e quindi punta senza riserve su tutto ciò che è usato…
«La valorizzazione della second hand economy sarà sostenuta soprattutto dalle fasce più giovani che, ricordiamoci, sono anche coloro che disporranno di meno risorse rispetto alla generazione precedente. Tutto ciò che sarà sostenibile a livello ambientale, economico e sociale rappresenterà il loro credo e di conseguenza la rivoluzione che ne deriverà».
Lo sa bene l’industria della moda che ha iniziato a concepire la produzione non più come un processo lineare, ma bensì come circolare, che non considera solo il momento in cui un capo viene venduto, ma anche i materiali utilizzati e l’intero processo produttivo che lo coinvolge, smaltimento incluso.
La grande attenzione che il comparto oggi mette nei confronti della sostenibilità, sarà un motore importante per la Second hand economy?
«È inevitabile. La moda rappresenta il settore più inquinante dopo le aziende del petrolio e del gas ed è responsabile del 20% dello spreco globale di acqua, considerando che solo l’1% dei capi si ricicla o riutilizza. Questa consapevolezza sarà sicuramente un motore importante, nel momento in cui le aziende dovranno reinventare la loro produzione e la loro modalità di approccio al mercato, spinte dalle scelte dei consumatori».
Le stesse grandi griffe, come Gucci, Levi’s, Twinset, si sono lanciate nella second hand economy, proponendo capi usati per sperimentare e conquistare nuove fette di mercato
«Esatto. Molti player che si stanno affacciando a questo mondo stanno proprio sperimentando. Il mercato e le scelte dei consumatori stanno spingendo le grandi griffe verso il second hand, anche se quello che noto è sempre una grande paura del cambiamento, un’estrema difficoltà nel reinventarsi e nell’abbracciare un mercato che è sempre stato considerato “pericoloso”.
In fin dei conti ogni oggetto usato venduto in più corrisponde spesso a un oggetto nuovo venduto in meno». Insomma siamo all’inizio di una svolta epocale…
«Penso proprio che si tratti di un fenomeno che sicuramente rivoluzionerà ciò che si acquista, portando il nostro Paese allo stesso livello di quelli nord europei, dove l’usato è un’alternativa al nuovo e dove spesso prima si valuta l’acquisto di un prodotto usato e solo in un secondo momento quello di un prodotto nuovo».
E se la pandemia ha colpito tutti più o meno forte, il mercato dell’usato sembra, invece, essere cresciuto
«Secondo un’indagine Doxa, in Italia il mercato dell’usato vale 24 miliardi di euro, la maggior parte dei quali peer to peer (da privato a privato) o che si basano su proposte informali. Il vero nocciolo da affrontare è la strategia di business. Normalmente, infatti, il second hand funziona moltissimo in negozio dove le persone hanno la possibilità di “toccare con mano” e valutare lo stato di ciò che intendono acquistare. Con questo non voglio dire che l’usato online non funzioni, anzi, ma per conquistare sempre più un mercato, si dovrà trovare un modello di business adeguato. È una scommessa che le piattaforme digitali stanno facendo e per la quale sono disposte a scommettere milioni di euro».
Tornando invece ai negozi classici dell’usato, come dovranno essere quelli “di nuova concezione”?
«L’era dei mercatini, pieni di cianfrusaglie, bui, polverosi e maleodoranti è sicuramente finita. Oggi bisogna ispirarsi alle dinamiche del mondo del retail: negozi puliti, ordinati e profumati, con oggetti selezionati e personale formato. Serve una grande visibilità in rete e uno shop, semplice da utilizzare, per acquistare online».
Quali saranno gli strumenti per far crescere ed evolvere il comparto?
«La mia convinzione è che saranno sempre più determinanti i franchising e i network dell’usato, che potranno implementare strumenti efficaci e renderli scalabili. Così come è avvenuto e sta ancora avvenendo nel mondo del retail, anche nel second hand verrà premiata l’aggregazione di più negozi o di più imprenditori che, insieme, potranno fare massa critica per essere maggiormente competitivi in un mercato che sta diventando sempre più impegnativo».
Si possono fare previsioni?
«Alcune stime vedono questo mercato, per il 2021, in crescita di oltre il 10%».