giovedì, 25 Aprile 2024

FASHION E GAMING: UN AFFARE DI LUSSO

Capsule collection rilasciate in formato sia fisico sia digitale, sponsorizzazione di squadre di Pro gamer, creazione di skins firmate per i propri avatar, sviluppo di videogiochi brandizzati: queste sono soltanto alcune delle strategie con cui la moda si avvicina sempre di più al mondo del gaming. «La spinta che muove il fashion verso questo settore è quantitativa e qualitativa. L’industria dei videogiochi è estremamente capiente; il valore di mercato stimato al 2021 è di 175 miliardi di dollari e si tratta di un settore grande e in forte crescita», spiega Giusy Cannone, CEO di Fashion Technology Accelerator. «Quando si pensa al mondo del gaming si presume che a rappresentare i giocatori sia la classica figura dei “nerd”, ma è un’immagine fuorviante: in realtà ci sono 2,7 miliardi di giocatori nel mondo, e circa il 40% di questi sono donne. A questo si aggiunge il fatto che quella dei videogiochi è un’industria che coinvolge principalmente persone giovani, la fascia di consumatori che i brand mirano a conquistare».

E dal punto di vista qualitativo?

«Negli ultimi anni è stato scardinato il modello rimasto in vigore fino agli anni ‘90 in cui il brand era al centro del mondo ed era il consumatore a doversi adattare. La prospettiva oggi si è rovesciata, è il marchio che va a seguire il consumatore dove questo passa la maggior parte del suo tempo. Si tratta dello stesso processo che negli scorsi anni ha portato alle interazioni con il settore della musica e del rap e che ha generato l’enorme successo dello streetwear. L’intuizione è stata capire che c’era una fascia di popolazione giovane, molto abbiente, che non si rivedeva in un’esperienza di lusso formale e che cercava uno stile più confortevole, vicino alle proprie abitudini. Allo stesso modo per seguire i consumatori, soprattutto quelli più giovani, il mondo della moda si è attrezzato per essere presente prima nel mondo social e ora in quello del gaming».

La pandemia ha influito sulla nascita di queste collaborazioni?

«La pandemia ha accelerato alcuni trend che erano già in corso. Alcune collaborazioni importanti sono avvenute prima, ad esempio quella di Louis Vuitton con Leaugue of Legends del 2019. Poi sicuramente è stato determinante l’aumento del tempo speso sui social e sulle piattaforme di entertainment come Youtube e Twitch, dove i gamer commentano o trasmettono in streaming le sessioni di gioco».

Questo trend è destinato a diminuire con le progressive riaperture?

«Non credo, perché è un fenomeno che continua a rispondere alle esigenze di questa generazione. Lo dimostra la recente collaborazione sviluppata tra Fortnite e Balenciaga, un brand che sta molto puntando sulla sua anima giovanile. Poi in realtà la GenZ non è l’unica fascia d’età interessata da questo fenomeno, basti pensare alle collaborazioni che brand come Valentino, Marc Jacobs e Anna Sui hanno sviluppato con Animal Crossing, un videogame che ha una platea di giocatori molto più varia».

Le modalità con cui si sviluppano queste collaborazioni sono tante e diverse tra loro. Quali hanno ottenuto maggiore successo?

«Quelle che hanno previsto la possibilità di creare capi all’interno del videogioco o di vestire i propri avatar con modelli creati dai brand. Nel caso in cui le collaborazioni coinvolgano una piattaforma di gaming che conta moltissimi giocatori, infatti, c’è un minor bisogno di motivare i clienti a entrarci e a iniziare un nuovo tipo di attività. In alcuni casi poi, come quello di Louis Vuitton, la capsule collection è stata rilasciata anche fisicamente negli store, quindi non si è trattato solo di una strategia di brand awareness. Non possiamo sapere che impatto abbia avuto sul fatturato, però per i brand queste collaborazioni rappresentano comunque una modalità per capire come muoversi nelle vendite di capi non “fisici”, come nel caso degli NFT».

Qual è il rapporto tra fashion e capi virtuali indossabili dal cliente?

«Inizialmente alcune start up, e poi aziende del settore, hanno sviluppato dei marketplace in cui 3D designer creano capi indossabili dai clienti attraverso la realtà aumentata. In sostanza il cliente invia una foto o un video in cui, in seguito alla lavorazione, il cliente appare con indosso il capo acquistato. Si tratta di un meccanismo che apre paradigmi totalmente nuovi: il prodotto inventato non deve infatti rispondere alle leggi della fisica e può per esempio lanciare scintille di fuoco o non rispettare la gravità».

Come si differenziano dai capi NFT?

«La differenza tra un semplice capo virtuale e uno definito come NFT sta nel fatto che quest’ultimo ha un identificativo univoco tracciato attraverso la blockchain. Questo significa che il capo creato è del tutto unico; ne consegue che non ci troviamo più nel meccanismo dell’e-commerce ma in quello dell’asta, perché lo acquisterà la persona disposta a pagare di più. Per questa ragione gli NFT si sposano molto bene con l’arte».

Si è già affermato il mercato degli NFT nel mondo della moda?

«Ci sono già stati dei successi: per esempio FTFKT è riuscita a vendere in pochi mesi delle sneakers virtuali che costavano tra i tre e i diecimila euro, generando alcuni milioni di dollari. La ragione per cui si acquista un capo virtuale che non si potrà mai indossare, pagandolo anche alcune migliaia di euro, è quella di possedere un oggetto unico, che nel momento in cui aumentasse di valore sarebbe possibile rivendere. Gli NFT, quindi, rappresentano un modo per dare un valore più concreto e più tangibile a dei capi di moda virtuale, andando di fatto a creare un mercato legato alla brand equity dell’azienda; inoltre, si tratta di una soluzione che non comporta alcuni problemi “fisici” del lusso, come la contraffazione e l’usura».

Manca, però, la possibilità di mettere questi capi in mostra

«Al momento sì, ma è un mercato totalmente nuovo. È quindi molto probabile che nascerà una nuova pletora di servizi pensati per esporre il proprio portafoglio di NFT. Però se pensiamo al mondo fisico diamo per scontato che chi possiede un’opera d’arte dal grande valore la tenga protetta e che in casa magari ne esponga solo la copia. La stessa cosa potrebbe accadere in futuro con gli NFT».

Il mercato dei capi NFT si differenzia da quello del gaming?

«Sì. Mentre l’interesse per il gaming risponde anche all’esigenza di avvicinarsi ai consumatori più giovani, nel caso degli NFT si tratta di creare per la clientela delle possibilità di investimento. Inoltre, bisogna considerare che gli NFT si acquistano attraverso delle monete virtuali come per esempio i Bitcoin, quindi il pubblico di riferimento è uno che si muove agilmente in questi mercati, presumibilmente più appartenente ai Millennial che alla GenZ».

Si intravedono altre possibilità di sperimentazione per il fashion? «Le vendite digitali a oggi sono limitate. Si tratta spesso di collaborazioni molto brevi come le capsule collection e, per esempio, manca un sistema di e-commerce interno alle piattaforme in cui acquistare capi di più marchi. D’altra parte la moda è legata al tema dell’esclusività, quindi il fatto che le collezioni siano state esclusive e limitate in fatto di numero di capi e periodo di tempo potrebbe aver rappresentato un fattore importante per il successo. Poi sul tema degli NFT c’è ancora tanto da sperimentare, soprattutto a livello di pricing. I capi digitali non sono presenti in un’unica versione e va definita la scala di pricing rispetto a categorie come mass market, premium, lusso accessibile, lusso estremo. In questo caso, infatti, non ha senso basarsi sui costi di produzione, che sono più bassi di quelli dei capi fisici. Per questo la marginalità nel caso in cui il mercato esploda potrebbe essere impressionante».

Nadia Corvino
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Laureato in Economia, Diritto e Finanza d’impresa presso l’Insubria di Varese, dopo un'esperienza come consulente creditizio ed un anno trascorso a Londra, decido di dedicarmi totalmente alla mia passione: rendere la finanza semplice ed accessibile a tutti. Per Il Bollettino, oltre a gestire la rubrica “l’esperto risponde”, scrivo di finanza, crypto, energia e sostenibilità. [email protected]