Se nell’immaginario collettivo Dubai, negli Emirati Arabi, viene associata soprattutto al petrolio per la sua collocazione geografica nell’area del Golfo Persico, di fatto l’oro nero oggi rappresenta solo l’1% del Pil dell’area rispetto al 50% che ricopriva fino al 2000, quasi azzerando la dipendenza dal greggio.
Considerata un prototipo di città del futuro, Dubai si sviluppa e si espande come modello urbano di eccellenza, risultato della vision dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, che ricopre anche le cariche di vice presidente e primo ministro.
«Gli Emirati Arabi Uniti sono emersi come uno degli attori più attivi e assertivi del contesto geopolitico mediorientale dell’ultimo decennio», spiega la professoressa Valeria Talbot Senior Researcher, Head of the Mediterranean and Middle East programme at ISPI.
Il focus lì oggi sono i settori dei servizi, a partire dal turismo e dal real estate, ma anche la creazione di business parks e special economic zones che offrono incentivi per le aziende e investitori che relocalizzano a Dubai. Senza dimenticare la specializzazione nell’ambito tecnologico, in aree come biotecnologia e ricerca genetica. A eccezione del 2020, caratterizzato dalla pandemia Covid-19 che ha inciso profondamente sulla crescita economica globale, l’Emirato di Dubai genera da solo il 28% del Pil degli Emirati Arabi Uniti pari a 421 miliardi di dollari, che nel corso del ventennio 2000-2020 si è quintuplicato.
«Nel 2011 le Primavere arabe hanno innescato importanti trasformazioni e allo stesso tempo aperto una competizione, divenuta sempre più accesa, tra attori volti a estendere la propria sfera di influenza sull’area. In tandem con l’Arabia Saudita e in opposizione a Turchia e Qatar da un lato e all’Iran dall’altro, gli Emirati Arabi Uniti sono stati uno dei principali protagonisti di questa competizione, trasformatasi in aperto antagonismo con il sostegno all’una o all’altra delle parti in conflitto nei principali teatri di crisi della regione (dalla Siria alla Libia e allo Yemen). Tuttavia, nell’ultimo anno si è assistito a una inversione di tendenza e a un ritorno alla diplomazia da parte di Abu Dhabi nella cornice di una de-escalation a livello regionale. La fine del blocco nei confronti di Doha, l’apertura di canali di dialogo con Teheran e la normalizzazione dei rapporti con Ankara sono gli esempi più evidenti del nuovo corso diplomatico di Abu Dhabi».
L’Expo di Dubai 2020 (cominciato a ottobre 2021 e che sta proseguendo) secondo gli analisti è la vetrina della nuova politica estera emiratina, ovvero meno polarizzata e militarmente assertiva e più orientata alla diplomazia economica e culturale…
«L’Expo di Dubai 2020 rappresenta per gli EAU l’occasione per rilanciare l’immagine di Paese che promuove stabilità e cooperazione regionale nonché di centro economico-finanziario, commerciale e turistico volto all’innovazione e alla transizione energetica. Obiettivo è anche quello di attrarre nuovi investimenti esteri per sostenere gli ambiziosi programmi di sviluppo e diversificazione».
Gli Emirati Arabi Uniti sono uno dei maggiori esportatori di petrolio al mondo, ma al contempo stanno comprendendo l’importanza della diversificazione degli investimenti negli asset dell’innovazione, energie rinnovabili e robotica e anche con la stesura di documenti programmatici come Vision 2021
«Pur essendo importanti produttori di idrocarburi, gli Emirati Arabi Uniti hanno promosso da tempo una politica di diversificazione economica che ha permesso di ridurre il peso degli idrocarburi (intorno al 30%) sul Pil e sull’export. Il graduale affrancamento dalla dipendenza petrolifera è legato allo sviluppo di altri settori considerati strategici per il futuro del Paese: le energie alternative e rinnovabili, il turismo, la logistica, le infrastrutture e i trasporti, i servizi sanitari e finanziari e le nuove tecnologie. In questo contesto, le strategie volte ad assicurare il progresso economico sono state tratteggiate in diversi documenti programmatici tra cui Vision 2021 e National Agenda, che di fatto mirano a far diventare gli EAU un centro economico-finanziario e turistico in grado di servire un mercato di oltre 2 miliardi di persone grazie alla progressiva transizione verso un’economia basata su innovazione, ricerca e sviluppo. Occorre dire che la strada è lunga, nonostante gli innegabili successi».
Cosa orienta oggi le scelte degli Emirati Arabi?
«Ripresa economica dopo la contrazione provocata dalla pandemia, diversificazione e innovazione sono elementi fondamentali nell’orientare le scelte di Abu Dhabi tanto internamente quanto in politica estera».
Che cosa rappresentano gli accordi di Abramo sottoscritti 15 settembre 2020 a Washington tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti? E dopo un anno e mezzo che cosa hanno portato?
«Gli Accordi di Abramo, che possono essere definiti un successo dell’amministrazione Trump, rappresentano un passo importante nel processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche di Israele con i Paesi arabi. Se il comune interesse a contenere l’Iran ha favorito la convergenza sul piano geopolitico, anche la dimensione economica ha giocato un ruolo chiave. E ciò lo dimostrano i molteplici accordi che Israele ed EAU hanno firmato nel corso dell’ultimo anno e mezzo per rafforzare la cooperazione economica e commerciale. In quest’ottica è stato creato anche un comitato economico congiunto guidato dai rispettivi ministri dell’Economia. A marzo 2021, inoltre, gli EAU hanno predisposto un fondo di 10 miliardi di dollari per investire in settori strategici (tra cui energetico, aerospaziale, sanitario, idrico e delle tecnologie agricole) in Israele».
La firma, il 22 novembre scorso, dell’accordo tra Emirati, Israele e Giordania sulle energie rinnovabili, mediato da Abu Dhabi, che significato ha e che conseguenze avrà?
«Possiamo considerare l’accordo raggiunto tra Emirati, Israele e Giordania come un successo diplomatico di Abu Dhabi. Esso prevede che la Giordania fornisca energia verde a Israele in cambio di acqua desalinizzata dal Mediterraneo. L’accordo esemplifica lo stato dei rapporti tra EAU e Israele, ormai sempre più improntati alla creazione di una partnership stabile con ricadute positive anche sul piano regionale».
Quali vantaggi nel fare impresa negli Emirati Arabi Uniti e quali scenari d’investimento si stanno delineando?
«Nell’ultimo anno si sono aperte importanti opportunità per gli investitori stranieri interessati al mercato emiratino. Infatti, a giugno 2021 gli EAU hanno varato una legge sulla proprietà straniera delle imprese che prevede la possibilità per gli investitori esteri di detenere il 100% delle quote di compagnie registrate negli EAU (cosa che in precedenza si poteva fare solo nelle free trade zones). Oltre a ciò, a settembre gli EAU hanno lanciato 50 nuove iniziative in ambito economico, nel contesto di un piano più ampio con il nome di “Projects of the 50”. L’obiettivo è anche qui è di rafforzare la competitività del Paese e attrarre investimenti diretti esteri per 150 miliardi di dollari nei prossimi nove anni».
Esiste un capitolo delle relazioni tra Emirati e Italia? Quali sono stati i rapporti tra i due Paesi e quali potranno essere?
«Allo stato attuale, i rapporti tra Italia ed EAU rimangono tesi. In seguito allo stop alla vendita di armi deciso da Roma a gennaio 2021, i rapporti bilaterali hanno registrato un forte raffreddamento che ha portato anche alla chiusura della base italiana all’aeroporto di al-Minhad lo scorso luglio. Alcuni sviluppi, tra cui la visita del ministro degli Esteri Luigi Di Maio all’Expo di Dubai nel novembre 2021 potrebbero configurarsi come tentativi di Roma di ricucire lo strappo con gli EAU. Importanti legami commerciali legano infatti i due Paesi, oltre all’interesse alla stabilità dell’area del Golfo. L’Italia diventa l’ottavo partner commerciale in assoluto degli EAU e il primo tra gli stati membri dell’UE. Nel Paese sono già presenti oltre 600 imprese italiane, sia di grandi dimensioni sia piccole e medie imprese, operative soprattutto nei settori delle costruzioni, energia, beni di consumo, sicurezza/difesa, bancario e aerospaziale. Gli IDE netti italiani sono aumentati costantemente nel periodo 2017-2019, prima di subire un arresto nel 2020. Il Paese del Golfo presenta anche diversi punti di forza – ad esempio la gestione efficace della crisi pandemica che ha inciso positivamente sull’attività economica, la disponibilità di un’ampia gamma di incentivi per le imprese estere etc – che creano le condizioni per nuove opportunità per le imprese (soprattutto alimentari, farmaceutiche) e gli investimenti italiani (soprattutto nei settori del trasporto)».
Diversi attori hanno già iniziato a interessarsi al nuovo mercato dell’idrogeno e, fra tutti, spiccano appunto gli Emirati Arabi Uniti. In questo contesto, l’Italia, potrebbe sfruttare la sua posizione geografica e le e relazioni col Regno emiratino per diventare un hub dell’idrogeno – come si è candidata a fare la Sicilia in una nostra intervista a Gaetano Armao, Coordinatore della Commissione Affari europei e internazionali della Conferenza delle Regioni – e raggiungere i suoi obiettivi di lotta al cambiamento climatico?
«Gli EAU hanno lanciato una Hydrogen Leadership Roadmap a novembre 2021 contestualmente alla COP26 con l’obiettivo di supportare la de-carbonizzazione interna attraverso l’idrogeno: l’ambizione è di rendere gli EAU un hub chiave delle esportazioni di energia pulita, puntando appunto ad una quota di mercato del 25% entro il 2030. Con oltre sette progetti in corso d’opera e data l’abbondanza di fonti di energia rinnovabile per produrre idrogeno verde in grandi quantità, il paese ha le carte in regola per perseguire questa ambizione. Tuttavia, secondo l’ultimo report dell’IRENA, i Paesi produttori di combustibili fossili (inclusi gli EAU) dovrebbero continuare a sviluppare strategie di transizione economica di ampio respiro, dato che l’idrogeno non compenserà la perdita di ricavi. Ricordiamo che gli EAU ospiteranno la COP28 nel 2023». ©