L’Islam è la nuova frontiera in Borsa. Negli ultimi anni, anche in Occidente si sente parlare sempre più frequentemente di finanza islamica, in genere accostandola a quella sostenibile. Tanto che, nella descrizione dei fondi di investimento, per esempio, viene indicato che sono ottimizzati sia per la legge religiosa, la Sharia, sia per i criteri Environmental, Social and Governance (ESG).
«In questi anni, con l’avvento delle norme ESG e la rivoluzione portata dalla finanza sostenibile, molte aziende hanno sviluppato una grande sensibilità per le tematiche sociali e ambientali e, allo stesso modo, si sono adeguate alle regole della Sharia per essere attrattive anche nei confronti dei Paesi musulmani», afferma Walter Marzini, manager e fondatore della società di consulenza e pianificazione finanziaria WM Advisor Services che da circa un anno, attraverso un percorso di Financial Coaching, pubblica studi che raccolgono le informazioni basilari per potersi muovere nel mondo delle banche, delle assicurazioni e degli enti previdenziali con l’obiettivo di sopperire alla mancanza di formazione e informazione semplificata a più livelli. «Anche qui in Europa, per poter operare in questo comparto, è necessario sapere quali sono le “regole di ingaggio” nella finanza islamica».
Le leggi della Sharia in materia di investimenti si armonizzano bene con il nostro contesto finanziario? Che peso hanno nel nostro Paese?
«Oggigiorno esistono tantissimi ETF – fondi di investimento indicizzati o “a tema” – che rispettano le norme della Sharia e che sono negoziabili anche su banche e presso controparti italiane. Quindi c’è la possibilità di operare con questi strumenti conformi alla legge sacra. E poi c’è molta più sensibilità: negli ultimi due anni soprattutto, con l’importanza acquisita dai fattori ESG e con l’avvento degli investimenti responsabili, la Sharia è emersa perché anch’essa implica una certa disciplina – religiosa, piuttosto che di gestione delle risorse naturali. Sono due concetti che si sposano bene e spesso accostati poiché hanno molti aspetti similari: le aziende che vogliono essere acquistate come equity, cercano di operare seguendo questi principi ormai largamente diffusi. In più, teniamo presente che c’è un interesse sempre maggiore, che ha origine nel mondo arabo, per i prodotti finanziari».
Come il rispetto di queste regole influenza l’operato degli investitori di fede islamica in Italia?
«Innanzitutto, bisogna considerare fino a che punto sono legati alle tradizioni della Sharia, perché capita che alcuni, in certi casi, ci vengano a patti. In linea di principio, comunque, un musulmano che voglia acquistare strumenti finanziari lo può fare. È importante allora che l’operatore italiano sia in grado di consigliarlo, creando una “finestra” per la finanza islamica all’interno delle liste di investimenti proposti entro la politica dell’azienda, come già avviene per i fondi e le soluzioni sostenibili.
Tuttavia, la gamma di prodotti disponibili è molto limitata, ne esiste una decina oggi, di cui solo due o tre potrebbero avere successo per semplicità nella forma e nella vendita. In più, essendo fondi per la maggior parte azionari, quindi esposti a un determinato rischio, probabilmente non sono adatti per chi è abituato ad avere una rendita garantita. In caso di fluttuazioni o correzioni brusche sui mercati mondiali, infatti, può darsi che il cliente non abbia il profilo di rischio idoneo.
Questo ci fa capire l’importanza di puntare sulla preparazione dei consulenti e degli operatori incaricati di vendere tali prodotti. E grandi istituti italiani potrebbero dedicare tempo e denaro alla creazione di qualche soluzione dedicata, sempre utilizzando strumenti prettamente azionari o ETF azionari – un profilo di rischio sull’investitore orientato verso l’equity».
E quello dei nostri imprenditori e investitori nei Paesi musulmani?
«Gli Emirati Arabi, in particolare, e tutta quell’area che deve la sua ricchezza al petrolio, in generale, attrae grandi aziende, perché lì si concentrano molti capitali. Quindi gli imprenditori italiani o internazionali che vanno in quelle regioni sono prevalentemente industriali. Se poi si verifichino casi di investimenti diretti per una crescita interna è tutto da valutare: tra le esperienze da ricordare, quella del Real Estate, che per dieci, quindici anni ha portato molto denaro in questi Paesi in forte espansione. Inoltre, la mentalità araba non è facile da comprendere, come non lo è investire in queste realtà. È un mondo abbastanza chiuso: gli stranieri non sono visti come assimilati e, per essere considerati affidabili, ci vogliono anni. Siamo di fronte a due realtà, due modi di pensare differenti, perciò bisogna usare cautela ed essere disposti a imparare, entrambi».
Com’è vista qui da noi l’opportunità di investire nei Paesi islamici?
«È considerata un’opportunità di crescita industriale e commerciale, ma non tanto finanziaria, perché lì si va più che altro per sviluppare, per costruire, quindi parliamo di infrastrutture. Mettere capitali, reddito non è possibile, perché la legge islamica non lo permette. È evidente che la Sharia pone delle limitazioni a cui va prestata molta attenzione. Entrare nelle aziende arabe è possibile solo tramite partenariato, in minoranza, non sarai mai il maggioritario: entri con l’aiuto di un locale, hai una percentuale nettamente inferiore e ti devi affidare a loro. Queste sono le regole del gioco, che inibiscono la nostra filosofia imprenditoriale. Qualcosa è cambiato negli ultimi anni: un po’ di apertura c’è stata, ma siamo ancora lontani dall’idea di poter fare investimenti “tranquilli” in quelle regioni. È più facile per loro venire a investire da noi».
Questo scoraggia i nostri investitori?
«Sì, soprattutto perché noi siamo abituati a determinati ritorni, interessi. Nel mondo arabo è differente, perché se hai a che fare con persone del luogo, c’è una serie di regole da rispettare, non sai come ti ritornerà il tuo utile, ecc.: è un punto di domanda. A meno che non opti per partner internazionali e zone di libero scambio, dove valgono anche le leggi straniere. Altrimenti il contesto è abbastanza limitativo. I principali investimenti che vengono fatti nelle regioni musulmane riguardano la produzione di beni e l’import di prodotti dal nostro Paese da vendere direttamente sul posto – il settore di punta è quello automobilistico. Molto spesso sono dei broker abilitati che acquistano dall’azienda italiana e si occupano in prima persona della rivendita sul territorio: ci sono sempre degli intermediari». ©
Sara Teruzzi
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Foto: Towfiqu Barbhuiya da unsplash