A mancare in Italia è lo spazio, soprattutto quello per i giovani. E le conseguenze non tardano a farsi sentire. Secondo “Giovani e futuro” della fondazione Bruno Visentini, il 29% degli studenti delle superiori pensa al proprio futuro oltre confine. Un dato che fa riflettere, in un Paese in cui la spesa in istruzione secondo il Def sarà tagliata di 15 miliardi l’anno da qui al 2025 in base alle stime, ovvero ridotta di circa il 3,5-4%. «La questione generazionale è fondamentale, se si vogliono cambiare le cose», dice Beatrice Venezi, direttore d’orchestra, pianista e compositrice di fama internazionale e reduce dal giubileo di platino per la Regina Elisabetta, dove ha diretto l’orchestra per il tenore Andrea Bocelli davanti a Buckingham Palace. E lei, della difficoltà a farsi strada per una giovane in Italia, ne sa parecchio. «Trovo che perfino la questione femminile vada risolvendosi in modo abbastanza naturale con il passare delle generazioni. Ma il problema è proprio la nostra mancanza di avvicendamento».
Ad oggi, su circa 600 direttori d’orchestra in Italia solo una ventina sono donne. Si sta facendo abbastanza per incentivare le “nuove leve” femminili?
«Si tratta più che altro di spingere il ricambio generazionale. Negli ultimi 50-60 anni la cultura è stata percepita come un baluardo di potere, che è stato passato di padre in figlio. Dal solito maestro al solito allievo, con le stesse modalità. Quello che auspico è un cambio di paradigma proprio sotto questo aspetto. Vorrei vedere un’Italia più meritocratica, anche sulle direzioni artistiche dei teatri. A volte sembra di scommettere al gioco dell’oca, in cui gli stessi direttori sono spostati da una casella all’altra, con rari avvicendamenti. Il tutto indipendentemente dai risultati. Un cambio di paradigma che dovrebbe venire soprattutto dalla politica e, ne sono sicura, contribuirebbe molto a ridurre il divario di genere».
L’occupazione femminile in Italia è ancora bassissima, ed è perfino peggiorata con la pandemia. Come superare gli ostacoli culturali?
«Bisogna partire dall’educazione, è fuor di dubbio. Oggigiorno una bambina che cerca un role model femminile lo trova raramente. Allora come può ispirarsi, sapere a cosa può aspirare, se i personaggi che trova sui libri di storia della musica sono quasi esclusivamente maschili? E questo perché le donne sono state un po’ dimenticate dalla storia e anche i personaggi femminili che esistono non vengono raccontati. In secondo luogo, perché anche i media di oggi espongono le storie di successo delle donne come delle eccezioni, mentre invece bisogna normalizzare. Si tratta di un fatto importante di comunicazione, perché trovare una narrazione diversa delle donne è già di per sé un volano di innovazione importante. L’altro problema è una cultura del lavoro evidentemente sbagliata. Lo Stato non fa abbastanza per essere di supporto, soprattutto per chi ha una famiglia».
La finanza è un altro ambito in cui la parità non è ancora stata raggiunta. Quanto è importante che le donne siano indipendenti anche finanziariamente?
«È fondamentale. Ancora oggi nel 2022 dobbiamo parlare di differenza salariale, a parità di qualifiche. Questa è una prima cosa da risolvere. È evidente che una donna per essere indipendente lo debba essere prima di tutto finanziariamente. Purtroppo, viviamo in una società in cui parlare di denaro alle volte sembra quasi blasfemo. Ma il problema economico non è per niente secondario a quello ideale, quando si tratta di condizione femminile».
Il Teatro alla Scala e altri palchi hanno approfittato della pandemia per esplorare soluzioni innovative, come servizi streaming e una maggiore presenza social. Cosa ne pensa?
«Purtroppo, a volte è più un fatto di forma che di sostanza. Una reale apertura non c’è, spesso è più una questione estetica che di sostanza. Anche lo streaming non è una soluzione innovativa: è stato adottato durante l’emergenza Covid-19, ma non fa altro che replicare ciò che si fa a teatro in un altro contenitore. E infatti non funziona, perché alla finzione teatrale si crede proprio per il fatto che si è in teatro».
Non crede che soluzioni come queste possano avvicinare i giovani al mondo della musica classica?
«In parte sicuramente aiutano, perché qualsiasi novità, anche minima, è la benvenuta. Credo però che serva uno sforzo supplementare. Si deve partire dall’educazione, ma anche da un’idea di intrattenimento diversa, portatrice di un valore culturale e formativo. Invece siamo ancorati a schemi secondo cui tutto ciò che è cultura e divulgazione deve essere verticale e cattedratico, mentre tutto il mondo ci dimostra quanto bene funzioni il contrario».
In cosa dovrebbe investire oggi un giovane che volesse fare il direttore d’orchestra?
«Sicuramente nella formazione. La direzione d’orchestra è uno di quei mestieri in cui più si fa e più si impara: bisogna sporcarsi le mani e apprendere sul campo, come per un chirurgo. Un primo suggerimento, quindi, è di cercare quante più opportunità possibili per farlo. Il secondo è di trovarsi un maestro. Perché di insegnanti se ne trovano tanti, ma un maestro che sappia tirare fuori il meglio di un alunno fa la differenza».
Nel 2018 lei è stata inserita nella lista dei 100 leader del futuro stilata da Forbes Italia. A distanza di quattro anni, com’è cambiata la coscienza del suo ruolo?
«A livello personale, ho assunto ancora più consapevolezza sulle difficoltà della mia generazione. Soprattutto quelle relative al gender gap, ma ancora di più al gap generazionale. Credo che negli ultimi anni la società italiana si sia polarizzata sempre di più e che chi è fuori dal coro sia stato un po’ isolato. E per risposta anch’io ho rafforzato le mie posizioni, che poi sono uno statement di libertà personale, di pensiero e di indipendenza. A livello professionale ci sono state tante esperienze, con spazi nuovi che mi si sono aperti, anche durante la pandemia. È stato un confronto culturale positivo, che mi ha aiutato a mettere a fuoco molte cose».
La guerra in corso in Ucraina ha interferito in modo talvolta preoccupante sul mondo della cultura…
«L’Italia è stato uno dei Paesi europei in cui questi eventi sono accaduti con più frequenza. Mi riferisco alla ghettizzazione degli artisti e del repertorio russo, ma anche a interi programmi musicali che ho visto cancellare perché contenevano anche musica russa. C’è da fare un distinguo: da un lato ci sono la guerra in atto, le posizioni di un capo di Stato e altri uomini di potere e dall’altro un mondo culturale importante, fondamentale per la musica europea».
In un momento complesso come questo, crede che la musica possa portare ancora spunti e valori sociali?
«Assolutamente sì. Basti pensare alle opere di Giuseppe Verdi, alla loro capacità di creare e di definire sulla scena i valori della neonata società risorgimentale. Hanno un valore fondamentale e un messaggio potente ancor oggi, di una modernità sorprendente. E poi c’è una questione di identità culturale, che non può essere sottovalutata: mi piacerebbe poter dire di vivere in un Paese che riconosce le nostre radici culturali come fondanti. Eppure, sono spesso sminuite e messe in secondo piano…». ©