La lotta per il clima non è un gioco. È una cosa seria. Il cambiamento climatico, infatti, potrebbe costare all’economia globale 178mila miliardi di dollari nei prossimi 50 anni. Ma una speranza c’è. Perché invece, accelerando il processo di decarbonizzazione, nei prossimi cinque decenni si potrebbero guadagnare 43mila miliardi di dollari.
Malgrado le informazioni a disposizione, però, quel che manca sembra essere la consapevolezza. E pur avendo solidi indizi che il Pianeta si sta riscaldando e continuerà a farlo nei prossimi decenni e che la combustione di carbone, gas e petrolio, ne sono la causa principale; che alluvioni, siccità, ondate di calore – i cosiddetti eventi estremi – si stanno intensificando in molte regioni mettendo a repentaglio l’idea di stabilità cui siamo abituati, le istituzioni procedono molto lentamente.
«L’organismo internazionale di valutazione scientifica delle Nazioni Unite IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) nell’Assessment Report 6, per la prima volta ha utilizzato il termine “inequivocabile” per esprimere la stretta correlazione tra attività umane (emissioni di gas serra) e riscaldamento globale», spiega Serena Giacomin, climatologa e meteorologa, presidente di Italian Climate Network, l’organizzazione observer presso l’UNFCCC, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. «La scienza, oggettiva e rigorosa, ha dunque riconosciuto l’urgenza dell’azione e con i suoi risultati ha dimostrato che il cambiamento climatico è già oggi un pericolo per la vita umana e per la salute del pianeta così come lo conosciamo».
Che cosa non stiamo capendo della gravità della situazione?
«Che qualsiasi ulteriore ritardo sulle azioni da compiere finirà per chiudere la finestra di opportunità che abbiamo per assicurarci un futuro vivibile. Purtroppo il problema è che stiamo spostando sempre in avanti la messa in atto delle possibili soluzioni. Un ritardo ingiustificato considerando che l’aumento di temperatura rispetto al periodo pre-industriale ha già raggiunto +1,1°C provocando, nonostante i tentativi di adattamento, ingenti danni su ambienti naturali e società umane».
Il recente “Stato del Clima” con cui l’Organizzazione Metereologica Mondiale (WMO) fotografa ogni anno lo stato del clima terrestre, ha registrato nel 2021 un ulteriore deterioramento di tutti gli indicatori. Quali sono le azioni immediate da portare avanti senza attendere un attimo di più?
«Le azioni applicabili si dividono in due grandi gruppi, quelle di adattamento e quelle di mitigazione e sono ugualmente importanti. Le prime hanno come obiettivo la riduzione dell’impatto del cambiamento climatico: un esempio può essere quello del dissesto idrogeologico, per cui adattarsi significa mettere in sicurezza un territorio a rischio di frane, alluvioni e smottamenti; un problema crescente di fronte a eventi meteo sempre più frequentemente estremi. Le seconde sono, invece, quelle che hanno come obiettivo la riduzione delle emissioni di gas climalteranti in atmosfera (gas serra) in modo da decelerare il più e il prima possibile il riscaldamento globale: un esempio è la decarbonizzazione del nostro sistema energetico».
Quali sono le evidenze del riscaldamento globale?
«Innanzitutto confermo, si tratta di evidenze. Nel senso che troppo spesso si è parlato di cambiamento climatico come un rischio possibile, probabile in futuro. Ma in realtà gli effetti sono manifesti già oggi. Il sistema climatico si sta disequilibrando nel giro di pochi decenni: se è vero che il clima sulla Terra è sempre cambiato, è altrettanto vero che non è mai cambiato a una tale velocità. Un ritmo che non è riconosciuto dal sistema Terra, che reagisce in modo repentino. Fusione dei ghiacci, innalzamento e acidificazione dei mari, perdita di biodiversità, estremizzazione dei fenomeni meteorologici, sono alcuni degli effetti del riscaldamento globale capaci di generare impatti a catena anche sugli equilibri sociali ed economici. Si è ormai riconosciuto quanto il cambiamento climatico sia un amplificatore di tensioni e disparità: anche i diritti umani sono a rischio».
Quali sono le conseguenze della crisi climatica in atto oggi e qual è il principale pericolo a cui andiamo incontro?
«Focalizziamoci un attimo sull’estremizzazione climatica, quella che ci fa passare – per esempio – da un lungo periodo di siccità (come quella che ha colpito l’Europa in questi mesi del 2022) alle piogge alluvionali (come quelle che hanno devastato le Marche in poche ore tra il 15 e il 16 settembre). Questo è uno degli aspetti più pericolosi del riscaldamento eccessivo dell’atmosfera e dei mari. Del resto, non finisce qui: le conseguenze della crisi climatica sono molteplici in tutto il nostro Pianeta, ma proprio la zona del Mediterraneo si sta scaldando più della media globale e ha sperimentato una maggiore frequenza e intensità dei fenomeni calamitosi. Si definisce in termini tecnici, hotspot climatico e proprio qui, secondo gli ultimi dati IPCC*, la siccità andrà a colpire tra il 18% e il 54% della popolazione nei prossimi anni nella forbice di crescita della temperatura media globale tra +1,5°C e +2°C. I 4 rischi chiave per la nostra regione, quindi, sono: ondate di calore, diminuzione risorse idriche (soprattutto nel sud Europa), diminuzione delle precipitazioni e aumento delle inondazioni (le precipitazioni diminuiscono, ma aumentano quelle estreme: ovvero piove poco, ma dove piove lo fa più intensamente). In pratica, maggiore è l’aumento di temperatura e maggiore il rischio». (*Dati secondo capitolo, terzo report IPCC, febbraio 2022)
Le COP sul clima, l’ultima la 27 a Sharm el-Sheikh dove Giorgia Meloni ha ribadito l’impegno italiano alla decarbonizzazione, servono davvero?
«Le COP, Conferenze delle Parti, sono un momento molto importante di confronto tra i Paesi membri delle Nazioni Unite. Senza di loro non ci sarebbero stati passi avanti sulla presa di coscienza e sul contrasto al cambiamento climatico. Il meccanismo della negoziazione potrebbe sembrare imperfetto, ma è l’unico possibile in questo ambito. Oggi gli accordi UNFCCC costituiscono probabilmente uno dei processi multilaterali più complessi, anche per via della moltitudine di procedure, organi e acronimi che hanno sempre rappresentato un deterrente per chiunque si affacci a questo mondo».
Quali sono le più importanti?
«Le due Conferenze delle Parti che hanno segnato sicuramente la storia sono state: la COP3 a Kyoto nel 1997 da cui è stato adottato il Protocollo di Kyoto e la COP21 di Parigi del 2015 con lo storico Accordo di Parigi. Molto sinteticamente bisogna sottolineare una sostanziale differenza tra questi due importanti momenti negoziali. Se, infatti, il Protocollo di Kyoto aveva un approccio top-down, cioè suddivideva con una decisione “dall’alto” la responsabilità della riduzione delle emissioni complessive di gas serra con una netta differenziazione tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo, l’Accordo di Parigi ha l’approccio inverso quindi bottom-up. Alla COP21 si è infatti passati da riduzioni obbligate per alcuni Paesi a un meccanismo di partecipazione decisionale globale, con regole comuni e flessibili, in cui lo sforzo per il clima viene condiviso mantenendo un unico obiettivo comune; i contributi vengono determinati a livello nazionale (Nationally Determined Contributions – NDC) strumento principale dell’Accordo di Parigi e illustrano gli sforzi compiuti da ciascun Paese per ridurre le emissioni nazionali e adattarsi alle conseguenze dei cambiamenti climatici».
Cosa pensa della transizione ecologica, sta funzionando?
«Difficile dirlo, perché una transizione è per sua natura un processo prolungato nel tempo. Certamente potremmo andare molto più veloci di così. La transizione ecologica è fondamentale e l’Italia rispetto ad altri Paesi ha iniziato in ritardo».
Con la guerra e la conseguente crisi energetica, sembra che ci sia una battuta d’arresto sul percorso verso la sostenibilità del Pianeta. È così o è solo una percezione?
«Il tema del prezzo del gas e il caro bollette hanno sicuramente influenzato la narrazione mediatica, con parecchie distorsioni preoccupanti. Riguardo la battuta d’arresto sul percorso di sostenibilità del nostro Paese bisogna vedere che cosa farà il nuovo Governo. Certamente se una transizione energetica efficiente ed efficace fosse stata avviata anni fa, in questo momento saremmo più resilienti anche rispetto a queste gravi tensioni globali. E avremmo sicuramente maggiore indipendenza e sicurezza per la cittadinanza. Le rinnovabili, in questo, dovranno avere un ruolo chiave».
Quanto i giovani possono essere da traino in questa lotta?
«Sono importantissimi. Dagli scioperi per il clima di Greta Thunberg al movimento dei Fridays For Future, hanno dimostrato di avere la forza di far sentire la propria voce. Hanno la forza di risvegliare le coscienze e – quando fatto con consapevolezza – di dar voce alla scienza. Servono infatti anche studi e ricerche, non solo slogan».
Lei è meteorologa, climatologa ricercatrice. La ricerca però in Italia non è di certo valorizzata…
«Questo è un problema che esiste da sempre ed è un problema di fondo. Senza ricerca, senza fiducia nella scienza e nel metodo scientifico è difficile costruire un processo di reazione positiva, in qualsiasi fase emergenziale che sia climatica o – come abbiamo visto – sanitaria. C’è molto da lavorare su questo fronte, a partire dalle scuole».
Quanto ritiene importante lei la ricerca e cosa ne pensa e cosa crede che il Governo dovrebbe fare per darle la giusta importanza?
«Un Paese senza ricerca è un paese senza scheletro. Servono riconoscimenti, fondi e struttura. E servirebbe anche un legame più stretto e comunicativo con il mondo del lavoro e dell’impresa».
Vinceremo?
«Dobbiamo, per forza. Non abbiamo altra scelta». ©