lunedì, 7 Ottobre 2024

Il caso Futurely: investire in orientamento crea un mercato più solido

Sommario

I giovani hanno bisogno di punti d’orientamento per poter costruire il loro futuro, in Italia o altrove. Eppure «le scuole non sempre hanno tempo per fornire servizi adeguati a supportare gli studenti nell’orientamento», dice Elisa Piscitelli, co-founder e CEO di Futurely. E non è un capriccio astratto, ma un problema con ripercussioni importanti su tutto il sistema scolastico e la sua efficacia. Se in Italia a lasciare l’università prima del tempo è il 13,5% degli studenti, contro il 10,6% europeo (Eurostat, 2019), è anche a causa dell’enorme disinformazione in materia. Ma se le scuole non risolvono la questione, chi può farlo? Proprio per rispondere a questo bisogno nasce Futurely, una piattaforma digitale per l’orientamento scolastico che offre i suoi servizi a scuole e imprese: una startup innovativa con obiettivi ambiziosi. «Nell’immediato, vogliamo arrivare ad almeno cinquantamila studenti accompagnati nell’orientamento ogni anno, entrando nelle aziende italiane tramite welfare aziendale. L’obiettivo è ridurre la dispersione scolastica e la disoccupazione».

Qual è il vostro approccio all’orientamento scolastico e universitario?

«La nostra offerta si articola in un percorso, in cui a partire dalla conoscenza di sé si arriva a quella del mondo universitario o delle superiori. I ragazzi hanno accesso, tramite app o computer, a corsi online organizzati in livelli e moduli. All’interno di ogni modulo ci sono video tutorial di psicologi dell’orientamento, esercizi interattivi, riflessivi, un diario di bordo in cui il ragazzo alla fine di ogni step scrive cosa porta a casa e cosa ha scoperto. Poi importanti sono anche le centinaia di video di giovani lavoratori tra 25 e 35 anni, che lungo tutto il percorso condividono le proprie esperienze in modo da far sì che i più piccoli non siano influenzati da stereotipi, ma da esperienze reali. In più, alla fine dei percorsi presentiamo ai nostri studenti una lista di mentori con cui possono programmare dei meeting individuali. Sono ragazzi più grandi che svolgono professioni svariate, dall’ingegnere aerospaziale all’attore, dal filosofo allo psicologo».

Come è nata l’idea?

«È cominciato tutto a ottobre del 2019, dall’incontro con la mia amica Mariapaola Testa. Allora ci trovavamo entrambe negli Stati Uniti per motivi professionali. È lì che abbiamo deciso che avremmo voluto iniziare qualcosa di importante e a impatto sociale nell’educazione. A partire da quel nostro incontro abbiamo contattato insegnanti, presidi, genitori e studenti per capire quali fossero i loro bisogni. Quello che è emerso come il più evidente è l’orientamento. I ragazzi hanno paura di fallire e sbagliare nella scelta universitaria, di pentirsi delle scelte fatte. Partendo dalla consapevolezza di questo bisogno, abbiamo pensato a come soddisfarlo».

Per quale ragione avete scelto di tornare in Italia?

«L’azienda è stata incubata a Harvard e lanciata in parallelo in Italia e Stati Uniti. Sopravvive tuttora in questa forma duplice, ma durante il periodo pandemico io sono dovuta tornare in Italia per ragioni personali. Una volta qui, da un lato, mi era più semplice capire i bisogni italiani. Dall’altro avevo in testa l’idea di voler dare indietro qualcosa al mio Paese. Sono affezionata all’Italia e mi interessava aiutare le ragazze e i ragazzi italiani a scommettere sul proprio potenziale. Avevo l’impressione che fossero inconsapevoli delle opportunità che potevano cogliere, anche più dei loro coetanei americani».

A chi vi rivolgete?

«Innanzitutto, alle aziende. Offriamo Futurely come servizio di accompagnamento dei figli dei dipendenti nell’orientamento scolastico. Un benefit aziendale che ha poi un effetto positivo anche sul benessere del genitore, ovvero del dipendente. In secondo luogo alle scuole. Contattando i presidi e i responsabili orientamento, li informiamo che possono acquistare licenze per i ragazzi. Questo perché le scuole pubbliche hanno a disposizione fondi da destinare in orientamento, anche grazie alle risorse destinate dalla missione 4 del PNRR, ma non sempre i singoli istituti non hanno gli strumenti e il tempo per creare progettualità autonome in materia. Per questo ci chiamano come fornitori ».

A questo rapporto privilegiato con le aziende corrisponde un tentativo di collegare scuola e lavoro?

«Sì, svolgiamo progetti di territorialità per employer branding. Le aziende possono “adottare” dei licei offrendo loro Futurely e poi entrando nelle classi assieme a noi nell’ambito dei progetti. Noi diventiamo così ponte tra scuola e lavoro, in modo che da un lato i ragazzi scoprano di cosa si occupa una determinata azienda e dall’altro l’azienda possa farsi conoscere».

Venendo da un background nel mondo tech, come vi siete integrati in un settore così diverso come l’educazione?

«Abbiamo cercato di appoggiarci a chi già operava nel settore: la prima dipendente che abbiamo assunto è stata mia sorella, insegnante da tutta la vita. Lei ci ha dato tanti spunti legati all’ambito scolastico e su come adattarsi alle scuole. In più, come dicevo, venendo una famiglia di insegnanti io stessa ho sempre respirato questo contesto. Ma ci siamo anche appoggiati a un network importante di docenti e presidi, cui abbiamo sempre chiesto riscontri su tutto. In più, io e Mariapaola siamo tornate nei nostri licei e abbiamo chiesto ai ragazzi stessi, grazie all’alternanza scuola-lavoro, di aiutarci a costruire la piattaforma, soprattutto nei suoi contenuti. Noi li mettevamo davanti a delle proposte e gli studenti ci davano i loro feedback. Insomma, è un prodotto progettato dagli studenti stessi, fin dal giorno zero».

Quali sono state le difficoltà più grandi incontrate nel vostro percorso da startup?

«Il problema maggiore è trovare e attrarre risorse qualificate. Abbiamo bisogno di giovani che abbiano voglia di mettersi in gioco in un contesto che non può chiaramente dare le stesse certezze e la stessa stabilità di una grande azienda. E nella ricerca del personale, ci piace cercare risorse altamente qualificate, spesso contendendocele con grandi aziende del settore tech. Per entrare in una startup ci vuole ambizione e coraggio. L’altro tema è il fatto di essere su due mercati, quello americano e quello italiano. È una conformazione che rende particolarmente importante comprendere le priorità e focalizzarsi su poche cose, per non disperdersi e sbagliare, facendo le cose male. Quello che è difficile è dire di no a determinate opportunità per potersi focalizzare su altre».

Siete una startup innovativa che si fa strada in un settore piuttosto refrattario al cambiamento. Vi capita di incontrare ostruzionismo?

«Eccome. Pur essendo l’istruzione e l’orientamento competenze core delle scuole, paradossalmente abbiamo trovato più facilità di ingresso nelle aziende. Al punto che è molto più difficile chiudere accordi con le scuole che con le imprese, nonostante si tratti di tagli tipicamente più piccoli. Ci ha colpito molto la lungimiranza delle aziende con cui parliamo e il loro focus sul voler avere impatto sociale, sono tutte molto orientate verso gli SDG (sustainable development goal), e noi siamo percepiti come uno strumento per fare la differenza».

Incontrate pregiudizi per il fatto di essere donne e giovani in un settore?

«Sì, ricordo che alcuni dei primi investitori ci dicevano che avremmo dovuto assumere un amministratore da fuori per andare avanti. Come se solo un uomo, con un certo background e almeno quarant’anni, potesse portare l’azienda al successo. D’altronde, il bias legato all’età in Italia è forse ancora più forte di quello di genere. Da noi ci sono ragazzi di venti/venticinque anni che sono dei geni e professionalmente eccezionali, anche se giovani, ma a volte percepiamo del pregiudizio da stakeholders esterni».

Secondo l’OCSE (2018), in Italia il gap tra ragazzi e ragazze in campo matematico e scientifico è particolarmente acuto. Quale suggerimento darebbe a una ragazza per intraprendere un percorso in questi campi?

«A volte le ragazze tendono a inibirsi e a essere meno spudorate dei loro colleghi. Questo anche nelle discipline STEM, quando fin da piccoli si inizia a sentire la mancanza di role model in posizioni manageriali. Un suggerimento che ho è di acquisire consapevolezza dei propri punti di forza e di essere altrettanto sfacciati nello scommetterci. La ricetta per crescere professionalmente sono quelle che noi chiamiamo le 3 C: Consapevolezza, Curiosità, Coraggio». ©

Articolo tratto dal numero dell’1 marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".