sabato, 7 Dicembre 2024

Lavoro: il 23,7% dei nostri ragazzi non ne trova, perché?

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Il 29,4% dei giovani tra i 20 e i 34 anni in Italia non ha un lavoro, non studia, e non è coinvolto in altri tipi di percorsi formativi: è la percentuale più elevata dell’Unione Europea. Gran parte di quelli occupati, invece, lamenta di lavorare in un posto che non soddisfa a pieno le aspettative economiche.

E c’è di più, perché anche il titolo di studio sembra non aiutare a trovare una collocazione soddisfacente nel mercato professionale. Un giovane su tre, infatti, svolge un’attività per la quale basterebbe un titolo di studio inferiore a quello posseduto. Di conseguenza, è sempre più difficile staccarsi dal nucleo familiare d’origine, che spesso aiuta a sostenere i ragazzi finanziariamente.

«L’utilizzo dei fondi del PNRR non può essere la panacea per tutto», dice Benedetto Di Iacovo, Segretario Generale del sindacato CONF.I.A.L. «Ma va mirato a interventi strutturali e duraturi per modernizzare il Paese. In Italia, secondo i dati Istat, il tasso di disoccupazione totale giovanile è del 23,7%. Il nostro Paese registra il terzo dato più alto sulla disoccupazione giovanile in Europa (dati Eurostat)».

«I giovani italiani che percepiscono un salario povero (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio nazionale) sono il 15,94% del totale. Tra le iniziative si deve segnalare “Garanzia Giovani”, in verità poco utilizzata anche a causa della scarsa conoscenza che le istituzioni hanno dato a questo programma dell’Unione europea; che si focalizza su quella parte di popolazione fra i 15 ed i 29 anni che non studia né lavora. Questo programma include una serie di azioni che riguardano orientamento, formazione, accompagnamento al lavoro, tirocini, servizio civile, sostegno all’autoimprenditorialità e incentivi per le aziende che assumono».

Qual è il livello di mobilità del lavoro in Italia ed in Europa e come influisce sulla situazione del mercato?

«L’evoluzione del mercato verso una crescente flessibilità dei rapporti di lavoro e continue transizioni da uno stato all’altro nel mercato in questione, rende particolarmente urgente la necessità di politiche che agevolino le transizioni e riducano i rischi sociali ad esse connessi. Attraverso la razionalizzazione della struttura della spesa, con il sostegno del reddito durante la ricerca di lavoro; l’adozione di un approccio basato sul concetto di universalismo selettivo».

«Anche attraverso l’integrazione delle politiche di sostegno del reddito, con l’offerta di servizi pubblici e/o privati per l’impiego; e di politiche attive del lavoro (in particolare politiche di formazione e di incentivo all’occupazione) volte ad agevolare le transizioni e l’acquisizione delle competenze trasversali».

«L’analisi dei flussi nel mercato del lavoro, ha rafforzato l’idea che i rischi sociali si aggravano nelle fasi di passaggio dei percorsi lavorativi individuali. Cioè transizione dalla scuola/inattività al lavoro, dall’occupazione alla disoccupazione, da un’occupazione all’altra, dall’occupazione al pensionamento; e che la vulnerabilità risulta elevata soprattutto per alcuni gruppi di popolazione, tra cui in particolare i meno istruiti, i giovani, la popolazione femminile e quella meridionale».

Come è cambiato il mercato del lavoro italiano ed europeo dopo il Covid-19 e quali prospettive ci sono?

«La pandemia ha colto alla sprovvista l’Unione Europea, che proveniva da sei anni di crescita economica positiva e contraddistinta da un generale aumento dell’occupazione. Alla fine del 2019 l’UE a 27 Paesi aveva infatti raggiunto il livello più alto di sempre in termini di numero di occupati: nel quarto trimestre del 2019 si era arrivati a 209,5 milioni di persone, con il tasso di occupazione complessivo delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni pari al 73% (78,9% per gli uomini e 67,4% per le donne), e un tasso di disoccupazione al 6,5%, minimo storico. La pandemia di Covid-19 da febbraio 2020 ha invertito questa tendenza, cambiando i nostri modi di lavorare e vivere».

Nello specifico, nel nostro Paese?

«In Italia, nel 2022 sono state create complessivamente circa 380.000 nuove posizioni lavorative, al netto delle cessazioni, un valore superiore a quello registrato nel 2019, prima dell’emergenza sanitaria, secondo l’analisi congiunta di Banca d’Italia e Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro (ANPAL)».

«L’incremento della domanda di lavoro è rimasta sostenuta fino all’inizio dell’estate, riportando l’occupazione sul sentiero di crescita precedente al lockdown e restrizioni alle attività imposte a motivo del Covid-19. Ma nei mesi successivi la dinamica, seppure positiva, si è indebolita: nel bimestre novembre-dicembre le attivazioni nette si sono mantenute su livelli simili a quelli del 2019».

«Cioè 37.000 posti di lavoro in più a fronte dei circa 33.000 di tre anni prima, al netto degli effetti stagionali. La crescita occupazionale del 2022, secondo lo studio, è riconducibile esclusivamente alla componente a tempo indeterminato. Sono stati creati oltre 400.000 posti di lavoro stabili, a fronte di una sostanziale stazionarietà degli impieghi a tempo determinato e di un calo di circa 50.000 unità dei contratti di apprendistato».

L’automazione dell’intelligenza artificiale sta cambiando il mercato del lavoro?

«Saranno circa 97 milioni – secondo una ricerca del World Economic Forum – i nuovi posti di lavoro creati entro il 2025 grazie all’intelligenza artificiale (AI), che però al contempo ne causerà la fine di circa 85 milioni. In particolare i più ripetitivi e legati al settore manifatturiero, destinati a venir sostituiti dai robot».

«L’AI ha infatti migliorato l’efficienza del lavoro; per questo, la maggioranza dei settori industriali sta capendo come sfruttarla, mentre altri l’hanno già implementata nel proprio business. Il quesito, dunque, non è più se l’AI impatterà tanto o poco sul mondo del lavoro ma su come le aziende riusciranno a utilizzare questa tecnologia per migliorare, e non sostituire, la forza lavoro umana».

«Prepararsi, studiare e avere confidenza con materie come Data Science, Machine Learning, e Artificial Intelligence non sono più azioni procrastinabili e riservate agli “esperti” ma tematiche che interesseranno tutti».

Come possono le persone mantenere le loro competenze al passo con i cambiamenti del mercato del lavoro?

«Con sistematici percorsi di formazione-riqualificazione, che deve diventare, durante il lavoro, un obbligo primario per gli imprenditori verso i propri dipendenti, reso esigibile attraverso la contrattazione collettiva».

«Inoltre, i Centri per l’impiego e le Regioni dovrebbero provvedere a far acquisire anche a studenti universitari, inclusi gli stranieri, come noi abbiamo fatto con il Progetto “Empocle” di Unipromos, le cosiddette competenze trasversali. Le quali risultano indispensabili per un effettivo ingresso nel mercato del lavoro».

«Capacità di giudizio, curiosità, sapere come muoversi in situazioni complesse e contribuire creativamente sono solo alcune delle cose che, anche in presenza di poderosi sistemi di innovazione e intelligenza artificiale, nessuna macchina potrà mai replicare».

Nel dettaglio…

«Queste competenze trasversali stanno rapidamente diventando vantaggi chiave per le aziende e sono fortemente richieste nella ricerca di personale. Recentemente, in un convegno sulla robotica applicata, è stato chiesto a un gruppo di dieci accademici quali capacità speravano che i loro studenti avrebbero acquisito con la laurea».

«Questi hanno parlato di desiderio di aumentare le proprie conoscenze, creatività, valori umani, praticità, proattività, autoconsapevolezza e passione per la vita. Si tratta di un nuovo paradigma, di un elenco ambizioso, ma che sembrerebbe corrispondere a quello che molti datori di lavoro cercano attualmente, e continueranno a cercare in futuro. Il problema resta quello della politica e dei governi che non riescono a comprendere queste nuove dinamiche».

L’Italia è il Paese europeo più colpito dalla diminuzione del potere d’acquisto e abbiamo registrato il calo salariale più consistente di tutti i Paesi del G20. Come porvi rimedio?

«Purtroppo, l’Italia è fanalino di coda nell’Unione europea per retribuzioni nette, mentre è in testa per costo del lavoro. La CONF.I.A.L. propone da tempo di eliminare o di ridurre almeno di cinque punti il cosiddetto “cuneo fiscale”. I sindacati devono rilanciare la contrattazione collettiva di secondo livello e anche aziendale come strumento di redistribuzione della ricchezza nella società in ragione dei livelli di produttività delle imprese, generalizzando anche lo strumento del welfare aziendale».

I tassi di occupazione di uomini e donne continuano a restare distanti, con un gap di genere del 18%. A cosa è dovuta questa differenza?

«Il tema della parità nel mondo del lavoro tra uomo e donna è dotato di tale carica attrattiva da essere stato più volte al centro dell’attenzione generale, situato com’è nel crocevia tra così tante discipline: statistica, sociologia, diritto, welfare, organizzazione del lavoro».

Come livellare queste differenze?

«Le principali misure da intraprendere sono: l’applicazione del principio della parità retributiva, attraverso il sistema della job evaluation; combattere la segregazione occupazionale e settoriale; valorizzare maggiormente le competenze, l’impegno e le responsabilità delle professioniste. Oltre a rendere noto che l’inclusione delle donne reca benefici economici alle famiglie, alle aziende e alla società intera».

Quali sono le principali sfide che un dipendente incontra quando cerca di farsi assumere da un’impresa, e come può superarle?

«Le difficoltà a entrare nel mondo del lavoro sono diverse e riguardano i territori, con gli atavici problemi del Mezzogiorno, i settori produttivi ormai maturi, le differenze di genere e l’inadeguatezza formativa. Servono massicci investimenti nei settori della scuola, dell’Università, della ricerca e della formazione per superare il divario tra Nord e Sud del Paese; quest’ultimo da modernizzare sul terreno delle infrastrutture materiali e immateriali, per contrastare il drammatico fenomeno dell’emigrazione dei “cervelli”, nonché il lavoro nero ed irregolare».

In che modo impatta l’innovazione tecnologica?

«Ci saranno ancora molti modi in cui la nuova tecnologia cambierà la forza lavoro e alcuni di questi investiranno proprio l’evoluzione del set di competenze richieste. L’evoluzione esponenziale della tecnologia, il prolungamento delle nostre attese di vita, la crescente necessità di assicurare la nostra sostenibilità finanziaria sono tutti elementi sui quali si basa la prospettiva di passare a un mondo nel quale le persone avranno molteplici carriere, dove “l’apprendimento per tutta la vita” o le cosiddette “competenze liquide” saranno cruciali per aumentare le possibilità di trovare un impiego. I datori di lavoro, ma soprattutto le Regioni che erogano formazione e gli stessi governi nazionali, in questi contesti, dovranno sapere fornire metodi innovativi per l’apprendimento, e facilitare lo sviluppo di nuove competenze».    ©

Articolo tratto dal numero del 15 febbraio 2023 de Il Bollettino. Abbonati!