L’Italia non è un Paese per mamme lavoratrici. Le neo mamme in carriera devono far fronte ogni giorno a discriminazioni e pregiudizi. Un po’ di dati per contestualizzare: il Quarto Rapporto Censis-Tendercapital sulla sostenibilità sociale e la rinnovata sfida del welfare italiano evidenzia che il reddito lordo disponibile delle famiglie consumatrici è rimasto invariato tra I-III trimestre 2021 e gli stessi trimestri del 2022, mentre il caro vita è aumentato. Inoltre, il risparmio delle famiglie, nel confronto tra i primi nove mesi del 2022 e quelli del 2021, ha subito una contrazione drastica in termini nominali (-292 miliardi di euro) e reali (-11,3%). Cresce anche il numero delle famiglie che riesce ad arrivare a malapena a fine mese. La ricerca di un migliore equilibrio tra vita privata e lavorativa si scontra con le ristrettezze economiche. Una situazione che influisce anche sulle nascite, che scendono in picchiata.
«Il welfare in Italia per le neo mamme stenta, questo dovrebbe farci particolarmente rabbia perché in passato siamo stati tra i più progrediti in Europa negli aiuti alle neo mamme. Nelle aziende di Olivetti si viveva come in vere e proprie comunità. Nelle fabbriche c’era il nido e le donne potevano andare ad allattare i bambini. Perché tutto questo non esiste più? Non siamo un Paese che rispetta e sostiene la maternità. Siamo il Paese che punisce le mamme. Hai voluto un figlio? Ora pedala, da sola e in salita. Si potrebbe tornare a quelle esperienze positive. Ho la speranza che anche gli uomini si rendano conto delle conseguenze che questa situazione ha su di loro. Dopo aver dedicato la loro vita al lavoro, si dovrebbero chiedere cosa rimane alla famiglia, dov’è il loro diritto a fare il padre. Mi pare che questo sentimento sia più forte nelle nuove generazioni. Serve un mercato di lavoro adeguato per aiutare i giovani a trovare una stabilità nella vita e nel lavoro», dice Paola Setti, autrice del libro “L’Italia non è un Paese per mamme. Appunti per una rivoluzione possibile”, edizioni AllAround.
Quali difficoltà incontra una neo mamma sul lavoro?
«Quella maggiore dal punto di vista pratico è conciliare la vita privata e il lavoro. Problemi che nascono in fase di allattamento ma continuando anche quando i figli devono andare al nido. Qui sorge un altro problema, perché spesso i posti all’asilo nido sono pochi, in particolar modo nel Sud Italia, dove non bastano per tutti. Ma è una problematica che riguarda anche il Centro Nord. Per non parlare poi dei costi molto elevati, che vanno dai 400 agli 800 euro. A Milano si pagano in media 800 euro. Il discorso riguarda sia gli asili privati sia quelli comunali. Nel secondo caso, per poter accedere ad agevolazioni fiscali devi avere un ISEE molto basso.
La prima difficoltà sul fronte dei servizi è economica. Una problematica che spesso spinge le neo mamme a lasciare il lavoro per dedicare più tempo al figlio, piuttosto che spendere due terzi del proprio stipendio per mandarlo all’asilo. Una scelta rischiosa, poiché quando poi si decide di riprendere a lavorare non è detto che si trovi un’occupazione. Lo Stato potrebbe trovare diverse soluzioni per risolvere questa situazione, stipulando convenzioni per offrire servizi alternativi all’asilo nido. Ad esempio dare un periodo di congedo maggiore per la paternità».
Parliamo della seconda difficoltà
«L’altra difficoltà è invece di origine culturale. Se metti al mondo un figlio non sei più la risorse su cui l’azienda puntava, sei una mamma. In quanto tale sei un problema, perché vorrai uscire prima, entrare dopo, chiederai permessi quando il bambino è ammalato o per andare alle recite di Natale. Da professionista apprezzata diventi una scheggia impazzita agli occhi del tuo datore di lavoro, perché hai una creatura che dipende esclusivamente da te. Diventi un problema a prescindere, anche se non fai nulla per meritarlo. Non basta lavorare di più e a orari assurdi per cercare di conciliare tutto, sarai sempre guardata con sospetto.
Se il ruolo di cura del bambino fosse distribuito meglio anche con il papà, a pari grado, forse passerebbe finalmente il messaggio che quando nasce un figlio entrambi i genitori devono mobilitarsi. Prima la madre, poi il padre. Così facendo forse non ci sarebbe più questa colpevolizzazione della donna per aver partorito. Donna che sembra dover essere l’unica figura a occuparsi del figlio, sia madre o nonna. Anche le donne fanno la loro parte, cercando di poter stare più tempo possibile con il proprio figlio, ma non può diventare una colpa. È l’intera società a dover fare un cambio di passo».
A proposito di congedo parentale obbligatorio, l’INPS ha recentemente specificato che il periodo per i padri nel 2023 sarà di 10 giorni. Il che vuol dire che, dopo la nascita del figlio, avrà diritto per dieci giorni allo stipendio pieno
«Un periodo così breve non porta alcun beneficio alle famiglie. Il punto di riferimento del bambino rimane sempre la madre. Neanche la proposta di portare a un mese il congedo parentale obbligatorio sembra efficace. Servirebbero almeno 6 mesi».
Il tema del congedo parentale interessa anche le mamme
«Non è giusto che una mamma percepisca uno stipendio parziale durante il primo anno di vita del bambino. All’inizio riceve il 100%, poi l’80 e negli ultimi mesi solo il 30%. Lo stipendio dovrebbe essere pieno nel primo anno. Poi la madre deve avere la libertà di tornare al lavoro e lasciare al padre il diritto di godersi suo figlio. Purtroppo questo diritto viene spesso visto solo come un obbligo. Se un padre va a prendere tutti i giorni il bambino a scuola è considerato un lavativo, un mammo da capi e colleghi. Da sole non potremo fare niente, con l’aiuto degli uomini possiamo cambiare la realtà».
Potremmo dire che i nonni sono il welfare del nostro Paese
«Quando non hanno la fortuna di avere dei nonni che possano badare ai bambini, molte neo mamme si trovano a dover affrontare ancora più difficoltà. Ho dedicato un capitolo del mio libro al tema, intitolato Quando si dice godersi la pensione. I nonni sono l’unico argine a difesa della maternità di fronte ai costi molto alti del nido».
Come attuare la rivoluzione di cui parla nel suo libro?
«Ho scritto questo libro perché credo che sia possibile mettere in campo azioni per cambiare le cose. La cronaca racconta di aziende che hanno pensato a modelli per supportare le neo mamme. Lo smart working, il co working e altre soluzioni di lavoro alternativo sono state inventate dalle donne, che si organizzavano da sole già prima della pandemia. Libere professioniste che non potevano pagare la baby sitter hanno affittato una stanza, a turno lavoravano da quella postazione e badavano alle figlie. Esistono azioni che possiamo attuare, se ci rombocchiamo le maniche insieme remando nella stessa direzione possiamo riuscire a cambiare finalmente le cose. Il libro presenta appunto storie che sono anche appunti per compiere realmente questa rivoluzione possibile.
Come si può fare? Oltre a mettere le mamme in condizione di avere servizi che possano aiutarle veramente, dobbiamo anche smettere di pensare che la maternità riguardi solamente le donne. I padri devono tornare a poter assumere un ruolo genitoriale. Si può ottenere attraverso un’azione positiva da parte dello Stato. Così facendo liberi le mamme da una cultura che le danneggia e restituisci un diritto al padre. Allo stesso tempo, diventare genitore non è più un problema ma diventa la normalità».
I pregiudizi legati alla maternità sono solo l’ultimo dei diversi scogli che una lavoratrice incontra nella sua vita lavorativa. Parliamo del gender gap sul lavoro, come sconfiggerlo?
«Già a partire dagli studi le ragazze vengono instradate verso campi che garantiscono stipendi generalmente bassi, ad esempio le materie umanistiche. La ragione è che si presuppone che una donna non dovrebbe studiare le materie STEM e altre più remunerative. Questo fa sì che, guadagnando meno, siano il genitore più incline a lasciare il lavoro quando nasce un figlio, perché influisce meno sul bilancio familiare. Esiste poi un grande problema di remunerazione perché l’uomo è visto come una risorsa motivata che vuole far carriera. Una donna invece potrebbe fare appunto un figlio, comunque in quanto femmina vale meno. Alcuni manager illuminati propongono di eliminare il pay gap imponendo un codice etico alle aziende. Estendendo questa misura a tutte le partecipate e imprese collegate può iniziare a cambiare qualcosa. Bisogna costringere le aziende a rinnovarsi».
L’Italia non è un Paese per mamme, ma non è neanche un Paese per giovani e donne in carriera. Quanto costa la discriminazione nei confronti delle donne al sistema Paese?
«Per una donna fare carriera in molti casi significa acquisire un modello femminile. Riassumendo vuol dire che la famiglia viene dopo la carriera, il resto è sempre secondario. Così facendo si rischia di diventare una mamma bancomat, che eroga solamente soldi. Sono pochissime le donne che riescono ad essere mamme, mogli e lavoratrici allo stesso tempo».
Terminata la pandemia diverse aziende hanno abolito lo smart working, come e quanto influisce sulla qualità della vita delle mamme lavoratrici?
«Dopo il Covid-19 sembra che ci sia un po’ più di speranza, grazie allo smart working. Alcuni si sono resi conto che non è necessario incollare le persone sulla sedia. Poi però ci stupiamo del calo demografico del nostro Paese. Il messaggio che bisogna aiutare le mamme a rimanere a casa con i figli in generale è sbagliato. Se non possono lavorare, spesso non hanno neanche soldi per crescere un bambino. Bisogna metterle in condizione di badare al bambino senza rinunciare al posto di lavoro. Alcuni datori di lavoro fanno di tutto per costringerle a lasciarlo. Ci sono anche esempi positivi però di manager che premiano l’impegno e l’onestà delle neo mamme offrendo avanzamenti di carriera e contratti a tempo indeterminato». ©
Articolo tratto dal numero del 1 marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!