venerdì, 26 Aprile 2024

Perché il Giappone ha così poche startup?

Sommario
La Skyline di Tokyo e delle sue startup in Giappone.

Il Giappone continua a essere nelle retrovie in fatto di startup, nonostante un comparto industriale tra i più grandi al mondo e un avanzamento tecnologico notevole. Ma perché la terza economia al mondo non riesce a generare imprese innovative di successo?

I dati

Per cominciare, guardiamo ai numeri: il Giappone può vantare solamente una manciata di unicorns (le startup che raggiungono il miliardo di dollari di valutazione). Per la precisione sono 6, un numero che è appena sufficiente a portare il Paese al sedicesimo posto al mondo in questa categoria, a parimerito con Svizzera, Olanda, Irlanda e Indonesia. Una cifra minuscola, se paragonata alle 615 compagnie di questo tipo negli USA. Ma sorprende ancora di più guardare ad altri Paesi collocati ai piani alti di questa classifica. Brasile, Corea del Sud e Svezia, tutti con economie e popolazioni nettamente più piccole di quelle giapponesi, hanno più unicorni dell’Impero del Sol Levante.

Le motivazioni

Dietro una performance tanto debole ci sono alcuni fattori strutturali del tessuto produttivo e sociale giapponese. Innanzitutto, la rigidità del mercato del lavoro, in cui in passato era molto frequente cominciare e finire la propria carriera nella stessa compagnia. Anche se oggi questa concezione è sempre meno diffusa, la mobilità del mercato è ancora poca e molte carriere vanno avanti più per anzianità che per esperienza. Questo rende più spaventosa per gli aspiranti imprenditori giapponesi l’idea di lasciare il posto fisso per cercare di fondare una propria azienda. Il gioco, spesso, può non valere la candela.

Tanto più che, una volta intrapresa l’attività, la ricompensa è tutt’altro che garantita. In Giappone è infatti molto complesso effettuare quella che in gergo si chiama exit, cioè il processo con cui gli investitori sono retribuiti cedendo tutta o una parte dell’azienda. Questo accade perché le tradizionaliste aziende giapponesi tendono a preferire lo sviluppo di tecnologie interne all’acquisizione dall’esterno, nell’innovare i loro processi. Di conseguenza, sono decisamente meno interessate a rilevare startup innovative dei loro colleghi d’oltreoceano. D’altronde, l’altra via di uscita tradizionale per gli investitori, la quotazione sul mercato, non sembra particolarmente appetibile. Negli ultimi 5 anni, la capitalizzazione del Nikkei è salita appena del 28%, contro una crescita del 46% sull’S&P 500 nello stesso periodo.

Una questione culturale

Ma la ragione più profonda dietro le difficoltà delle startup in Giappone è in una cultura tradizionalmente avversa al cambiamento. Fin dall’età scolastica, gli studenti sono sottoposti a un apprendimento meccanico e mnemonico, che non incoraggia al pensiero out of the box tipico dell’imprenditore. Questo si traduce in molti degli aspetti che influenzano il successo di una startup. Ad esempio, i consumatori sono piuttosto riluttanti a sostituire i prodotti che usano, anche se sul mercato spuntano opzioni apparentemente più economiche o vantaggiose. Su un piano sociale più ampio, questa mentalità comporta il rifiuto del fallimento e dell’insuccesso e la difficoltà a lanciarsi in qualcosa di nuovo per paura del giudizio degli altri.

L’Italia come il Giappone

Proprio sotto questo aspetto, la situazione italiana non appare poi così diversa. Al momento il nostro Paese si colloca al trentottesimo posto tra quelli con più unicorni, potendone vantare solamente uno. E le ragioni di fondo sono più simili di quel che pensiamo. Il 45% degli italiani ritiene che gli imprenditori “pensino solo a loro stessi” mentre il 36% riconosce che “senza impresa non ci sarebbe lavoro”, secondo lo studio ELI-Essere l’Impresa. Ma superare lo stigma, in Italia come in Giappone, è tutt’altro che impossibile. Anzi, alcuni passi sono già stati fatti, come l’eliminazione della parola “fallito” dal nuovo Codice della crisi. Per ottenere un vero risultato è però richiesto un passaggio strutturale e profondo, che parta dalle basi dell’apprendimento scolastico per arrivare alla cultura aziendale. Solo così, abbracciando il cambiamento, e non temendolo, si può aspirare a diventare un vero e proprio incubatore di innovazione.

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Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".