sabato, 7 Dicembre 2024

Trasporti e logistica valgono il 3% del PIL, ma le sfide sono tante

Sommario
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Trasporti e logistica rappresentano il 3% del PIL. L’80% delle merci in Italia viaggia su gomma, mentre il 60% delle nostre importazioni e il 50% delle esportazioni (per quantità) transita attraverso il trasporto marittimo. I valichi alpini rappresentano da soli una quota di oltre il 50% delle vie per le importazioni e del 60% delle esportazioni. E c’è di più. Nel 2021 il trasporto merci ferroviario ha superato i livelli del 2019, con una movimentazione di 52 milioni di treni per chilometro e un traffico complessivo di 24 miliardi di tonnellate a chilometro, con i traffici nazionali a +17,6% sul 2019 e quelli in esportazione a +23,7%.

Pasquale Russo

«Le imprese di trasporto merci su strada in Italia sono circa 80mila e impiegano circa mezzo milione di persone», dice Pasquale Russo, Segretario Generale Conftrasporto. «D’altra parte, nel mondo marittimo abbiamo delle vere e proprie eccellenze: siamo il Paese con la flotta di traghetti più grande a livello mondiale. Tuttavia, abbiamo ancora da recuperare posizioni sulle imprese ferroviarie private, ma ci sono dei margini di crescita importanti. Si è sviluppato molto il settore della distribuzione, con tante imprese che si occupano della logistica dell’ultimo miglio. E abbiamo una significativa presenza di gruppi stranieri che hanno scelto l’Italia e stanno contribuendo al potenziamento e allo sviluppo del terminalismo portuale».

Quindi il potenziale e le risorse ci sono: quali sono le sfide più importanti?

«Per quanto riguarda la stretta attualità, la transizione ambientale, con tutte le iniziative che si stanno prendendo ai diversi livelli di decisione, sia nazionale sia comunitario sia internazionale. Sta prendendo piede una politica che, in qualche modo, tenta di ottenere la sostenibilità ambientale attraverso l’imposizione di tasse, non in senso stretto, ma sotto forma di penalizzazioni di tipo fiscale, che incidono sulle imprese che rilasciano emissioni nocive. Un esempio è l’Eurovignette, una tassa che dovrà essere pagata dalle imprese di trasport che attraverseranno alcuni corridoi e infrastrutture individuate dall’Unione Europea. Dal 2025 si pagherà un costo aggiuntivo al pedaggio per chi attraversa queste infrastrutture.
C’è poi l’approvazione, da parte della Commissione Europea, dell’ETS (Emission Trading Scheme), un’altra penalizzazione. Consiste in  dei certificati che dovranno essere acquistati per poter continuare a trasportare (per quanto ci riguarda) in base alle emissioni che si producono. Bisogna tenere presente che questo sistema ETS non varrà solo sul trasporto e sulle navi, ma per tutte le forme di inquinamento. Ci sono poi le iniziative internazionali, come quella che impatta direttamente sul trasporto marittimo e che vorrebbe le emissioni da gas di scarico delle navi ridotte del 70% nel giro di qualche anno. Una cosa giusta in senso assoluto, ma impraticabile: non esistono in ambito marittimo carburanti alternativi o tecnologie che siano in grado di abbattere le emissioni in una proporzione così ampia».

In apparenza, quella del trasporto e quella della sostenibilità sembrano strade destinate a non unirsi mai…

«Bisogna evitare di pensare per ideologie e iniziare a fare i conti con la realtà. Che si debba rispettare maggiormente l’ambiente non lo nega nessuno. Però le misure che ho citato io sono quasi tutte di competenza dell’Europa, che da sola non salva certo il Pianeta. Se si fanno delle politiche di sostenibilità a livello ambientale, sarebbe auspicabile che fossero mondiali. E non legate a una regione tutto sommato piccola come l’Europa, che – per capirci – contribuisce al 7% delle emissioni di gas nocivi complessive.  Bisogna iniziare a raccontare le cose come stanno, se no si rischia di fare dell’ideologia e lavorare su slogan facendosi del male. Se si vuole avviare un percorso, bisogna partire dalle possibilità tecnologiche di cui si dispone: ma oggi non esistono ancora dei carburanti alternativi. Si è parlato inizialmente dell’idrogeno, ma si sa che questa tecnologia è estremamente complessa e inquinante».

Ci spieghi meglio…

«Far camminare camion o navi a idrogeno comporta due problemi enormi: il primo, di capacità di stoccaggio, perché è un elemento che non si comprime; il secondo, di sicurezza, perché avremmo delle potenziali bombe a idrogeno che vanno per i mari e per le strade. Tutti l’avevamo accolta come possibile fonte di energia pulita, ma stiamo scoprendo che comporta questi problemi significativi. C’è poi il GNL (Gas Naturale Liquefatto), che può essere un carburante di transizione, inquina meno ed è già utilizzato. Però anche qui dobbiamo fare i conti, almeno in questo periodo storico, con il fatto che il gas costa troppo. Se continuassimo a comprarlo come negli anni passati, le imprese e l’economia non starebbero in piedi.
Non è un caso che negli ultimi due anni, con la crisi del costo del gas (anche prima della guerra in Ucraina), l’Italia ha importato il 40% di più di carbone. L’aumento di importazione del carbone parte con l’aumento del prezzo dell’energia dovuto alla fine della pandemia da Covid-19. La Cina che ha acquistato gas in maniera massiccia, e la cosa ha portato i prezzi a crescere a cifre insostenibili già almeno 6 mesi prima dell’inizio della guerra. Possiamo anche dire di voler utilizzare il gas perché inquina meno del carbone, ma poi ci si scontra con un’economia che non regge e con l’intervento di fattori esterni».

Allora cosa si può fare in concreto per coniugare queste diverse necessità con la questione ambientale?

«Fatte queste premesse, si può avviare un dialogo e prendere delle iniziative per limitare l’inquinamento, ma questo si fa senza ideologismi, tenendo conto della tecnologia disponibile ed evitando penalizzazioni che non servono. Non aiuta far pagare di più per spingere a inquinare di meno. Il concetto deve essere l’opposto: incentivare gli investimenti e la creazione delle condizioni economiche necessarie perché si adottino tecnologie, già disponibili, che inquinino meno. Un paio di esempi? Il governo ha finanziato negli ultimi anni l’utilizzo di veicoli pesanti a GNL: se ne sono comprati tanti perché con l’incentivo e con il prezzo del gas allora sostenibile gli imprenditori compravano i camion a GNL.
Il PNRR finanzia l’elettrificazione delle banchine? Bene, è un investimento che fa lo Stato e che è combinato con il fondo complementare del Covid-19 da 500 milioni per un adeguamento delle navi. Tra gli interventi possibili c’è anche quello dell’elettrificazione. L’incentivo aiuta a sostenere i costi in più oggi presenti nell’utilizzo di modalità meno inquinanti».

Altra sfida è quella delle infrastrutture…

«Quando si parla di infrastrutture non si può non farlo  anche dell’attraversamento dei valichi. Non c’è dubbio che il Tunnel del Brennero, la Gronda di Genova, il raddoppio del Tunnel del Monte Bianco o più in generale gli interventi che vanno assicurati in termini di capacità di infrastrutture siano un’altra grande sfida. E non parliamo di soldi, non è questo il problema in questo caso. La vera questione sta nel comprendere che costruire infrastrutture per il Paese non significa inquinare di più.
Nel PNRR, per decisione del governo italiano, non è stato previsto un euro per le infrastrutture stradali, perché si riteneva che fossero investimenti in cemento e dunque inquinanti. Anche qui, la sfida da vincere è dotare il Paese di infrastrutture dove serve e fare in modo che, attraverso una revisione e una robusta semplificazione delle normative (mi riferisco al codice degli appalti), si possa rendere possibile l’utilizzo delle risorse, che ci sono e sono anche abbondanti».

C’è anche la questione del Brennero e dei divieti imposti dall’Austria, che  procurano un danno all’Italia di 370 milioni di euro all’anno, per ogni ora di ritardo nell’attraversamento…

«Sì, anche lì si parla in maniera fantasiosa della possibilità di migliorare gli impatti ambientali con dei divieti di circolazione. Bisogna fare le cose in modo serio, agendo dove è giusto e possibile. E quello sarebbe un discorso da fare non tanto come Italia, ma come Europa. Perché l’Austria non negozia con nessuno, fa la propria politica dei divieti ormai da almeno un quarantennio e l’Italia non è nella condizione di negoziare. Dovrebbe essere un’azione congiunta con la Germania, che su quell’asse di collegamento ha i nostri stessi interessi, per costringere la Commissione Europea a evitare che ci siano questi abusi da parte dell’Austria, che viola così il principio della libera circolazione delle merci. In più c’è un’evidente disparità di trattamento tra le imprese austriache e le imprese europee, perché i divieti non valgono per le imprese austriache».

La terza sfida, ormai non più rimandabile, è quella legata alla digitalizzazione…

«Sì, dobbiamo essere in grado di stimolarla a 360°. Mi riferisco a cose estremamente concrete che ci consentirebbero di aumentare sensibilmente la nostra competitività, come il SUDOCO (Sportello Unico Doganale e dei Controlli), che è una infrastruttura già disponibile e utilizzabile, gestita dall’Agenzia dei Monopoli, ma che non si riesce ancora a completare perché ci sono tanti enti che prendono parte al processo dei controlli doganali e non sono celeri nella parte di propria competenza. Altro esempio è quello della piattaforma nazionale di logistica digitale. Anche in questo caso bisognerebbe cominciare dal tracciamento dei veicoli che vanno sulle strade per collegarli alla piattaforma».

Una migliore digitalizzazione aiuterebbe a semplificare anche le procedure di accesso ai fondi e, in generale, ad alleggerire i processi burocratici…

«Certo, basta pensare all’accesso ai porti, alla possibilità di pianificare anche l’arrivo e la gestione dei veicoli al loro interno. O di semplificare i controlli doganali, consentendo il monitoraggio dei veicoli e anche la programmazione in base al traffico e alla saturazione delle infrastrutture. Insomma, le applicazioni sarebbero tante e tutte molto utili e a beneficio dell’efficienza e della competitività del sistema».

C’è anche la questione dei 285 milioni stanziati per mitigare l’aumento dei costi nell’autotrasporto, in primis il caro carburante, ma di fatto congelati…

«Lì bisognerebbe banalmente correggere la norma, perché è scritta male, per consentirne una effettiva spendibilità da parte delle imprese. Per come è formulata oggi, nessuno potrebbe accedere a quei fondi, perché non viene spiegato come bisogna fare».

Con la Legge di Bilancio sono spariti anche dei Bonus importanti per il settore…

«Ferrobonus e Marebonus rappresentano la possibilità di trasferire su modalità più sostenibili i camion. Non averli rifinanziati o approvati di nuovo vuol dire contraddirsi da soli, rinnegando decenni di politiche di incentivi sull’intermodalità. Sono strumenti collaudati, che aiutano le imprese di trasporto, non capisco come ci si possa rinunciare…».

Quanto ha pesato e che conseguenze ha lasciato il problema del blocco dei porti e l’aumento degli affitti dei container durante la pandemia?

«Gli strascichi ci sono stati e sono stati anche superati, nel senso che nel periodo immediatamente successivo all’emergenza Covid-19 abbiamo dovuto affrontare una situazione molto complicata per l’aumento del costo dei noli a causa di un aumento della domanda, come io non l’avevo mai vista. C’è stato un rimbalzo dell’economia molto importante, unito a una politica di stoccaggio delle merci fatta soprattutto dai grandi colossi. Il sistema economico ha immagazzinato tantissime scorte per la paura che ci si potesse trovare di nuovo in una di emergenza e di mancanza di materie prime.
Questi due elementi hanno portato a un aumento vertiginoso della domanda di trasporto. Inoltre, i problemi legati ai porti cinesi e americani hanno fortemente rallentato l’operatività. La combinazione di questi fattori ha creato dei disagi importanti. Lo abbiamo visto nell’industria dell’automotive, in cui per certi periodi non si riusciva nemmeno a produrre, con tempi di consegna estremamente lunghi. Adesso ci si trova in una situazione sostanzialmente normalizzata, anche perché l’economia ha frenato parecchio la domanda complessiva».

La rete del valore dell’e-commerce e del digital retail in Italia vale 71 miliardi di euro e si posiziona al primo posto tra le 99 attività economiche italiane per incidenza sul fatturato complessivo del settore privato (Netcomm e The European House – Ambrosetti).
Tra i sotto-settori, la logistica esercita un ruolo di traino, con una ripresa durante la pandemia, la cui crescita (CAGR) si attesta al +13,7% medio annuo in termini di fatturato. In base a questo quadro, quanto è importante attrarre i grandi gruppi esteri?

«È fondamentale intanto non farli scappare. Bisogna creare le condizioni affinché possano operare, per esempio portando avanti lo sviluppo del digitale o creando le possibilità per chi arriva nei nostri porti e vuole investire di avere un quadro regolatorio chiaro. Agire in maniera tale che chi vuole investire non debba preoccuparsi del tempo necessario per la burocrazia. Conosco tanti investitori che hanno deciso di spostarsi in altri porti europei perché avevano la certezza di tempi di realizzazione compatibili con quelli d’impresa.
Quando arriva un grande colosso del digitale, quello che chiede alle amministrazioni dei luoghi in cui vuole impiantare il proprio stabilimento è che ci sia ad esempio la possibilità di fare lavori operativi, che non sono complicati, ma che bisogna fare sulle fibre digitali. Immagini dover parlare con comuni in cui basterebbe fare dei banali scavi, ma non si riesce. Ci sono poi anche condizioni legate alla giustizia che disincentivano, perché se un’azienda si ritrova in un contenzioso giuridico rischia di rimanere invischiata per vent’anni. Tutto questo scoraggia gli investitori».

Spesso, però, si tende a valutare negativamente l’arrivo di multinazionali estere, soprattutto per la difficoltà di ottenere un giusto ritorno fiscale…

«Anche in questo caso, in maniera un po’ ideologica, il nostro Paese ha avuto un atteggiamento negativo nei confronti dei grandi colossi stranieri, come se arrivasse qualcuno a toglierci qualcosa. Questo è sbagliato. Perché gli investimenti che vengono fatti nel nostro Paese producono uno sviluppo e un moltiplicatore di occupazione notevole. Il discorso della tassazione è complesso. Chiunque voglia operare in Italia, per qualsiasi tipo di attività, deve avere lo stabilimento, nel senso che deve essere legalmente radicato nel nostro Paese. Queste grandi compagnie hanno quindi società aperte in Italia. È vero che, alla fine, anche con entità legali in Italia, i soldi vanno alla capogruppo e da lì non sappiamo dove vengono pagate le tasse.
Ma questo è un problema più ampio, che non può essere affrontato solo dall’Italia. Se n’è parlato a livello di OCSE e di Unione Europea. Noi ovviamente siamo favorevoli a una soluzione attraverso un meccanismo che faccia pagare a chiunque generi utile in Italia le tasse dovute. È un ragionamento corretto, ma che non può essere fatto solo dal nostro Paese, perché non funzionerebbe e ci penalizzerebbe.
Poi bisogna essere molto chiari: è arrivata una normativa europea sulla tassazione dei profitti che i grandi gruppi del digitale producono, che ha imposto una tassa legata al fatturato che tutti devono pagare. Va detto però anche che questi gruppi sono alla stregua delle imprese italiane che per pagare meno tasse se ne sono andate, per esempio, in Olanda o Lussemburgo. Dal punto di vista etico e morale non mi pare sia più giusto. Lo fanno legittimamemente, perché non è vietato spostare la propria sede fiscale. Non fanno una cosa vietata dalla legge.
Quindi, tornando alle aziende estere, bisogna cercare di essere realisti. Hanno fatto centinaia di milioni di investimenti, è chiaro che vengano qui per guadagnare, fa parte del fare impresa. Ma è altrettanto vero che, soprattutto nella logistica, soltanto i grandi gruppi globali possono sostenere certi investimenti. Se li attraiamo possiamo solo guadagnarci perché producono occupazione, prodotto interno lordo e sono un vantaggio per l’economia».                  ©

Claudia Ricifari

Articolo tratto dal numero del 15 marzo 2023 de il Bollettino. Abbonati!