venerdì, 26 Aprile 2024

La Russia ora è Paradiso fiscale: chance o illusione?

Sommario
Russia paradiso fiscale

Dall’inizio del conflitto, Mosca si è gradualmente trasformata in un paria per i partner d’investimento internazionali. Si registra che 1260 delle compagnie internazionali operanti nel Paese (il 43% del totale) abbia completamente cessato le operazioni nel Paese entro ottobre scorso, mentre altre 495 (un addizionale 17%) avrebbe congelato o diminuito significativamente le sue attività (fonte: Vienna Institute for International Economic Studies). Un dato che si affianca al crollo degli investimenti diretti nel Paese: i progetti di Foreign Direct Investment sono passati da 151 a 13 in un anno, il valore più basso mai registrato.

Eppure, la Russia è stata aggiunta di recente dall’Ecofin alla lista dei paradisi fiscali, in larga parte per motivi precauzionali. Ma ci si chiede se sia realistico aspettarsi nuovi flussi di capitale in quella direzione. «Non mi convince molto quest’ipotesi», dice Arturo Varvelli, capo dell’ufficio romano dell’European Council on Foreign Relations.

«Perché chi ha i capitali dovrebbe metterli in un luogo così insicuro e instabile come la Russia? Non ne vedo i presupposti e le motivazioni. Non mi sembra allettante ma, invece, molto rischioso: un conto è mettere il denaro in un’isoletta dell’atlantico, un conto è metterlo in un luogo dove le circostanze sono così aleatorie e dipendenti da un regime criminale come quello russo».

Il regime messo alle strette

Arturo Varvelli, ECFR

Secondo alcuni la Russia potrebbe riprendersi più velocemente del previsto, nonostante le sanzioni europee. Dopo un’iniziale previsione di decrescita del 2,3%, il Fondo Monetario Internazionale si corregge e prevede una crescita dello 0,3% nel 2023. A quanto pare, le sanzioni occidentali non sarebbero state sufficienti a eliminare la domanda di petrolio russo, che continua a guidare l’economia. Ciononostante, la situazione al momento è tutt’altro che rosea: per il boicottaggio dei mercati europei, il Cremlino ha dovuto tagliare nettamente il prezzo di vendita del greggio, mentre le forniture di gas naturale sono scese praticamente a zero.

Non da ultimo, la mancanza di tecnologie americane ed europee lascia il segno, specie nel medio periodo. Proprio per questo, nonostante il prudente ottimismo del FMI, Banca Mondiale e OCSE continuano a prevedere contrazioni dell’economia: rispettivamente del 3,3 e del 5,6 %. «È abbastanza chiaro che questo potrebbe portare a un indebolimento del regime di Putin. Stabilire fino a che punto è molto difficile. L’elemento economico è estremamente preoccupante. La Russia è un Paese che produce molto poco ed è fortemente dipendente dalla vendita degli idrocarburi. Per questo le sanzioni stanno colpendo duro. Bisognerebbe capire che capacità di resilienza ha la popolazione. Secondo me è molto alta. Dopodiché, bisogna capire la capacità del regime di assorbire questa recessione. E su questo c’è una grossa incognita».

Qual è lo stato delle operazioni sul campo?

«La situazione è abbastanza chiara: i russi negli ultimi tre mesi hanno cercato di compiere delle specie di controffensiva, tentando di prendere delle città come Bakhmut, che non sono particolarmente strategiche ma, in linea teorica, sarebbero dovute essere facili vittorie da sventolare. Ma così non è stato. Continuano a incontrare grandi difficoltà sul terreno, perdono numerosi mezzi militari, soprattutto carri armati: secondo certi dati ne avrebbero persi attorno ai 2500 e i 3000. Sono numeri veramente incredibili, che spingono a chiedersi quanto i russi potranno ancora andare avanti su questa linea. Ma in questo momento si tratta di una sfida esistenziale per entrambi i contendenti.

Perfino sulla cittadina di Bakhmut anche alcune intelligence occidentali avevano consigliato agli ucraini di desistere e concederla al nemico, ma Zelensky non ha voluto. L’ha trasformata in una sorta di simbolo. E finora ha avuto ragione, perché non sono ancora riusciti a prenderla. Tuttavia continua a esserci una sproporzione di forze militari in campo tra i russi, molto più numerosi e gli ucraini, che compensano con una tecnologia più avanzata, che proviene dalla collaborazione con l’Europa e gli Stati Uniti. È una sfida tra quantità e qualità. E per adesso sembra che la qualità stia prevalendo. Intanto, gli ucraini si stanno attrezzando per una controffensiva. Vedremo che cosa accadrà».

La stessa strada della diplomazia resta sbarrata?

«Noi dello European Council for Foreign Relations, e siamo in buona compagnia, siamo convinti che sarà una long war, ovvero un conflitto molto lungo. Questo perché il regime di Putin ne ha fatto una questione esistenziale: non possono far finta di aver sbagliato e retrocedere da questa linea. Questo non lascia alternative nemmeno a Zelensky. Quindi che cosa può fare la comunità internazionale: imporre agli ucraini di cedere territori che sono assegnati loro da trattati internazionali e che sono stati presi con la violenza dai russi? È un’ipotesi al momento impossibile. Zelensky non può dare segnali di debolezza, deve tenere unito il fronte ucraino e continuare ad assicurarsi gli aiuti che riceve dal fronte occidentale. Non è ancora maturata una situazione per la quale entrambi i contendenti non ne possano più di combattere e siano disposti a fare concessioni da ambo le parti».

La posta in gioco è molto alta anche per chi gioca fuori dal campo di battaglia…

«La guerra non è un problema solo per l’Europa, che si trova un conflitto alle porte di casa. Lo sarà anche per gli Stati Uniti, alla lunga, perché il loro rivale non è la Russia, ma è la Cina, con cui è in competizione economica globale. Questa guerra rappresenta un diversivo di risorse e di impegno che l’amministrazione Biden non aveva previsto…».

Quindi il rivale strategico e sistemico continua a essere la Cina?

«Sì, ma ci siamo tutti trovati in una situazione nella quale non si può fare altro che dare supporto agli ucraini e sperare che loro vincano il conflitto».

A proposito del ruolo della Cina, protagonista di una recente doppia visita di Stato del presidente Xi a Mosca e Kiev: è verosimile pensare che possa fare da mediatore nella ricerca di una soluzione diplomatica?

«Credo che non vogliano ottenere nulla in particolare. Sanno benissimo che conseguire risultati concreti è difficilissimo. Il loro intento è dimostrare di essere diventati un player globale capace di dare le carte e instaurare un tavolo di trattativa che ancora non esiste, imponendosi come decisore politico a livello globale. Dopodiché, certo, la Cina si interpone tra i contendenti per cercare di evitare che la crisi degeneri. Infatti, anche loro rischiano molto: c’è un rapporto di interdipendenza sia con l’Europa sia con gli Stati Uniti e non vogliono generare ulteriori tensioni».

Nel frattempo, le tensioni intorno al controllo di Taiwan non si allentano, con sgarbi istituzionali che hanno il sapore di escalation. Dopo la visita di Nancy Pelosi, anche l’incontro della presidente taiwanese Tsai Ing-wen col nuovo speaker Kevin McCarthy ha scatenato la reazione di Pechino, che ha condannato la missione e minacciato rappresaglie militari…

«Questa guerra sta dimostrando come il mondo occidentale sia disposto a spendersi, anche militarmente, per difendere l’indipendenza di una nazione. È dunque probabile che accadrebbe lo stesso per Taiwan, se i cinesi dessero seguito alle loro mire. D’altra parte, traggono anche alcuni importanti benefici dalla situazione, specie dal disaccoppiamento di Russia ed Europa. Nel lungo termine la Russia potrebbe diventare una sorta di protettorato cinese. Infatti, i russi potranno vendere sempre meno gas alla Cina, mentre rimarrà una loro dipendenza tecnologica non più dagli occidentali, ma dai cinesi».

A conti fatti, neanche Pechino ha tanto da guadagnare da questa crisi, dunque…

«Al momento no, perché il conflitto ha portato grande instabilità internazionale. I cinesi volevano erodere il potere dall’interno, ma gli USA sono in allerta da diversi anni su questo, specie dall’amministrazione Trump. Ed è ormai così anche per l’Europa, basti guardare agli atteggiamenti dei governi di Meloni e Macron. Un po’ tutti stanno capendo progressivamente che un decoupling dalla Cina sarà inevitabile, così come lo è stato quello dal gas russo».

Man mano che le sanzioni aggravano la situazione economica per il Cremlino, il regime si volge a cercare nuovi mercati su cui vendere i propri prodotti. Tra i Paesi neutrali al conflitto, si è osservato come quelli africani siano stati destinatari di una crescente attenzione. A marzo, si è tenuta a Mosca la seconda Conferenza parlamentare Russia-Africa e in generale le operazioni del gruppo Wagner nel continente si stanno intensificando. I principali prodotti esportati sono armi, di cui la Russia è il  principale fornitore africano da anni, e più di recente il petrolio: nel 2022 il numero di barili di olio raffinato forniti si è attestato su una media di 214.000 al giorno, quasi tre volte i numeri di prima della guerra (Kpler).

È stato evidenziato che le influenze di Mosca sull’Africa sono in crescita: Putin sta cercando di aprire un secondo fronte?

«Sì, ma questa non è una particolare novità. Già negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo visto crescere progressivamente la presenza russa in Africa, in simbiosi con l’operato del Wagner Group, un braccio armato la cui relazione con il Cremlino resta sempre un po’ ambigua. È difficile stabilire quanta autonomia esso abbia rispetto al regime di Putin e quanto i suoi interventi in Africa siano concordati. Io credo che lo fossero, per lo meno all’inizio: hanno permesso ai russi di riempire tutti i vuoti strategici e di sicurezza che erano stati lasciati da americani e francesi. Questo naturalmente rimette in allerta gli americani, che tornano a monitorare le attività russe in Medio Oriente e Nord Africa. Ora bisogna capire se il conflitto russo in Ucraina, che drenerà risorse militari ed economiche, porterà anche i russi a un disimpegno oppure continueranno a investire».

La Russia è investitore o beneficiario netto degli scambi con l’Africa?

«La Russia non è un finanziatore, ma solamente un fornitore di servizi nel campo della difesa e della sicurezza. Il ruolo di supporto dell’economia, invece, è stato assunto da Pechino. Lavorano quasi in tandem: uno si è specializzato nelle questioni di difesa e sicurezza, l’altro nella collaborazione economica e commerciale. Da questo punto di vista ci vorrebbe un’Europa molto più proattiva. C’è bisogno di finanziare progetti, programmi e di avere un piano di investimenti molto diverso rispetto al passato. La politica di vicinato, l’Euromediterraneo, il processo di Barcellona sono tutte cose superate che non hanno conseguito i risultati sperati. Ci vuole una volontà di investimento forte e un piano d’azione strategico per instaurare un rapporto paritario con questi Stati della sponda sud, in modo che non percepiscano un tentativo di influenza europeo e occidentale, ma una vera e propria collaborazione bilaterale. Alla lunga, questo può anche rilanciare le economie locali, stabilizzando i regimi politici di questi Paesi e creando un’area fertile per il near-shoring di cui si parla tanto».             ©

Articolo tratto dal numero del 15 aprile 2023. Abbonati!

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".