sabato, 7 Dicembre 2024

Moda sostenibile: disegnare vestiti partendo dal marmo

Sommario
moda sostenibile

Innovazione e sostenibilità possono essere un binomio vincente, se si è capaci di far rete e integrarsi con le realtà locali. Nel 2022, le imprese green oriented hanno migliorato la performance di chi non investe in sostenibilità per fatturato, occupazione ed export (Unioncamere, Fondazione Symbola – GreenItaly 2022). In particolare, si conferma tra i trend in crescita maggiore quello dell’economia circolare, basata sul riutilizzo degli scarti di produzione. Non per niente, l’Italia detiene il primato europeo per tasso di riciclo sulla totalità dei rifiuti, con un 83,4% che supera di gran lunga la media europea del 53,4%. Ma «quando tu vuoi seguire un percorso di sostenibilità deve essere un percorso sistemico: non puoi essere solo tu a cercare la sostenibilità. Devi creare una rete, con delle tecnologie che supportino il tuo percorso» precisa Francesca Pievani, co-founder, assieme alla collega designer Alice Zantedeschi, di Fili Pari, un’impresa innovativa nel settore fashion. Della collaborazione con il territorio la loro startup ha fatto una marca distintiva, assieme all’alto coefficiente tecnologico. Dagli scarti di un materiale “di casa” come il marmo alla realizzazione di un nuovo filato, prodotto grazie alla collaborazione delle imprese locali. Un’innovazione radicale che collabora con saperi e mani antiche per creare nuovi percorsi di sostenibilità. «All’inizio adoperavamo meno del 10% di polvere di marmo, mentre adesso ne adoperiamo fino al 50%. Prima utilizzavamo solo un tipo di marmo di scarto, adesso invece stiamo a poco aggiungendo marmi diversi: è un processo», ci tiene a ricordare.

Da cosa è partito il vostro progetto?

«Il desiderio di fare qualcosa in questo campo è nato dalle nostre tesi di laurea, che presentavano già una volontà di connettere il territorio e il mondo tessile a quello dell’innovazione. Analizzando il settore tessile italiano, il marmo non è mai stato utilizzato se non come ispirazione estetica. Ma, nella sua formulazione scientifica, cioè carbonato di calcio, esso è utilizzato in molti campi diversi da quello edilizio: nel chimico, nel farmaceutico, perfino nell’agroalimentare come integratore. Da lì è nato un primo brevetto che in un primo tempo non è stato utilizzato, perché sia io sia Alice volevamo fare dei percorsi lavorativi diversi. Dopo qualche anno di gavetta nel mondo del lavoro, visto che c’era interesse per il materiale, abbiamo deciso di riprendere in mano il progetto, nel 2017. Da lì in avanti abbiamo proseguito con le nostre sole partite IVA per cercare di industrializzare il materiale. Poi, dal 2020 abbiamo fondato la startup vera e propria».

Alice Zantedeschi e Francesca Pievani (destra), co-founder di Fili Pari

Ci può raccontare qualcosa di più sui brevetti che avete prodotto?

«Noi tendenzialmente ci occupiamo di creare materiali innovativi, tecnologie innovative in campo tessile. Sono tutte tecnologie che partono dalla polvere di marmo. Siamo partite da un primo materiale, che si chiama MARM \ MORE ®, che in realtà è una spalmatura su tessuto. Funziona come le finte pelli, ma utilizzando fino al 50% di polvere di all’interno, sostituendo così gran parte della componente sintetica. In più, le colorazioni sono completamente naturali e vengono proprio dalla polvere di marmo. L’effetto al tatto è molto morbido, più naturale, che non dà il classico effetto “gommato” dei tessuti sintetici. La versatilità del materiale è un punto di forza: andando ad agire sulla composizione e sulla struttura di questa tecnologia, riusciamo ad adattarci al settore abbigliamento ma anche ad altri, come quello dell’auto, sul quale stiamo per affacciarci dopo aver chiuso una sperimentazione di successo. Abbiamo già concluso un accordo per avviare una partnership con un operatore del settore: lavoreremo nel campo degli interni, nei rivestimenti delle balconate frontali e laterali».

Vi rivolgete direttamente al consumatore o alle imprese?

«Offriamo due tipologie di prodotti. Da un lato viene il materiale, che segue le logiche di B2B (Business to Business): vendiamo a brand che vogliono usare il materiale nelle loro collezioni, siano essi di abbigliamento, di arredo o case automobilistiche. Abbiamo poi una nostra collezione, che offriamo direttamente al cliente».

Che estensione della filiera coprite?

«Essendo startup facciamo molto outsurcing. Praticamente tutta la filiera, tutto il prodotto viene realizzato in esterno. Questo perché vogliamo mantenere una struttura molto snella e soprattutto non vogliamo avere macchinari. Per creare diversi materiali, bisogna adoperare macchinari anche completamente differenti tra loro. Proprio per questo non avrebbe senso per una startup come noi internalizzare processi tanto diversi, perché sarebbe troppo dispendioso. Noi generiamo tecnologie che poi vengono prodotte in esterno. Da un punto di vista di comunicazione, però, puntiamo soprattutto al prodotto finale, per far capire ai non “addetti ai lavori” che forma ha il nostro materiale. Ma in realtà la parte di ricerca che sta dietro è il cuore e l’obiettivo della startup».

Nel vostro manifesto si parla di economia circolare. In che maniera sfruttate questo concetto al vostro modo di lavorare?

«Noi cerchiamo di applicarlo sia a valle sia a monte della filiera. Per quanto riguarda il nostro materiale, utilizziamo sia marmi di produzione sia marmi che derivano dalle lavorazioni, appunto in un’ottica di economia circolare. Quando viene lavorata la pietra, tendenzialmente si crea uno scarto, cioè i derivati di lavorazione. Questi ultimi devono essere trattati come rifiuto speciale e smaltiti. Quello che noi facciamo per alcune tipologie di marmo è prendere i derivati e lavorarli per utilizzarli nel nostro processo produttivo prima che diventino scarti. Dopodiché, cerchiamo di fare economia circolare anche al fondo della nostra filiera: quando un cliente vuole sbarazzarsi di una delle nostre giacche, può riportarcela e noi con le parti ancora utilizzabili creiamo altri oggetti».

Una delle rivendicazioni più diffuse ultimamente, anche tra alcune grandi case, è quella di avere catene di valore tracciabili. È un claim di cui potete vantarvi?

«Al momento non abbiamo ancora una tracciabilità attraverso Blockchain, anche perché non abbiamo una complessità tale da renderlo necessario: noi lavoriamo in un’area molto geolocalizzata dell’Italia. A differenza delle grandi catene, che magari hanno necessità di far vedere tutti i numerosi spostamenti del capo, il viaggio dei nostri capi è al massimo di 300 km. Il punto più lontano dove prendiamo il marmo attualmente è in Toscana e la lavorazione è effettuata interamente in Lombardia. Insomma, non siamo proprio a kilometro zero, ma comunque molto circoscritti. L’importante per noi è che sia tangibile il fatto che produciamo sul territorio. Secondo noi la sostenibilità non è solo nell’utilizzo dei materiali, ma anche nella valorizzazione delle risorse. Di conseguenza, il fatto di avvalersi di artigiani e aziende sul territorio significa dare lavoro e valorizzare eccellenze italiane».

Come coniugare l’apporto fortemente innovativo e disruptive con il desiderio di collaborare con il territorio e di valorizzare le filiere già esistenti?

«Per quanto riguarda la produzione del materiale, realizziamo solo materiali riproducibili industrialmente. Non sono produzioni artigianali, una diversa dall’altra, ma una produzione industriale scalabile. E per metterla in piedi bisogna appoggiarsi a strutture che abbiano capacità di scala: qui entra in gioco il rapporto con l’impresa sul territorio. Da startup capita spesso di entrare in circuiti di open innovation: le grosse aziende hanno bisogno di innovare, le piccole startup hanno bisogno di strutture produttive solide e si crea una comunione d’intenti. Così è stato per la produzione del materiale: abbiamo sfruttato gli strumenti delle imprese esistenti cercando di fornire le giuste indicazioni per adeguare la lavorazione al nostro prodotto. Per quanto riguarda invece i capi, vengono affidati a delle aziende di produzione o a delle sarte, a seconda dei lotti. È molto bello vedere come queste professioniste con una manualità incredibile, tramandata da generazioni, sono in grado di lavorare tessuti nuovi, che magari richiedono accorgimenti diversi rispetto a quelli che sono abituate a maneggiare».

Vi siete adattati facilmente alle strutture produttive esistenti?

«Abbiamo cercato di adeguare i processi perché fossero realizzabili utilizzando i macchinari già esistenti. È giocoforza, perché se la lavorazione del materiale fosse troppo difficile, automaticamente ci sarebbero dei limiti produttivi che renderebbero antieconomica l’impresa. C’è bisogno che l’idea sia disruptive, ma la produzione del materiale sia comunque fattibile».

Spesso il settore della moda è trattato come eccessivamente saturato. È così difficile trovare un investitore disposto a credere in una nuova impresa del settore?

«Essendo noi un’impresa fashion-tech, lontana dall’azienda di moda classica, il discorso è un po’ diverso. Gli investitori sono interessati agli asset di cui la startup dispone: nel nostro caso sono asset innovativi come brevetti e tecnologie. Non saprei dire se come azienda di moda sia facile o difficile avere investitori, perché non siamo un’azienda di moda pura. Quello che posso dire è che i nostri investitori sposano il progetto perché ne sposano entrambi gli aspetti: il capo finale, ma anche i brevetti grazie ai quali è realizzato. All’atto pratico, a un investitore interessa il valore, la traction che tu hai rispetto alle altre startup».

C’è un qualcosa che è stato più semplice di quello che vi aspettaste?

«Particolarmente facile è stata la comunicabilità del progetto. Non mi aspettavo che avesse così tanto riscontro e credo proprio che abbiamo avuto la fortuna di arrivare al momento giusto. Senza volerlo, uniamo i trend del momento: siamo una compagnia fondata da donne che si occupa di sostenibilità, innovazione ed è legata al territorio e a una materia prima “vicina”. Quest’ultimo aspetto, in particolare, in Italia assume un valore particolarmente importante, perché richiama tutta una serie di significati emotivi e affettivi nelle persone. In più ciò che facciamo non è poi così difficile da spiegare: noi non facciamo Blockchain, ma tessuti con la polvere di marmo».

Qual è stato invece l’aspetto più impegnativo nel vostro percorso fino a qui?

«La cosa più difficile invece è trasformare questa facilità di comunicazione in un business. Questo perché a volte l’innovazione viene vista con tantissima curiosità e tantissimo interesse, però anche con diffidenza. È un “bello, ma…” che colpisce soprattutto il consumatore, specie in Italia. Lato investitore, noi abbiamo di recente lanciato il nostro primo aumento di capitale e ci stiamo muovendo per fare un bridge. Siamo proprio all’inizio e forse non è ancora arrivata una parte veramente difficile».

Come è stato il cambiamento dal vostro background al mondo dell’impresa?

«Essendo due designer, per diventare imprenditrici abbiamo dovuto fare un grosso salto rispetto al nostro percorso di studi originario. Posso dire che non mi aspettavo fosse così impegnativo, perché noi abbiamo cominciato a fare startup quando ancora non sapevamo cosa fosse una startup. Per noi era semplicemente aprire un’attività un po’ innovativa, mentre conoscere il funzionamento di investimenti e aumenti di capitale è fondamentale. Ci siamo trovate a dover apprendere una serie di nozioni che nulla hanno a che fare col design. È stato lungo e non facile, con un dispendio energetico enorme, che non avevamo calcolato. Ma ci siamo avvalse lungo il percorso della collaborazione di persone valide e qualificate: al momento, ruotano attorno a noi circa 10 collaboratori esterni. Il clima è eterogeneo, c’è chi si occupa di comunicazione e chi della vendita e del posizionamento della nostra collezione di abbigliamento. C’è poi un lato molto importante legato alla tecnologia: per il momento, il nostro business si fonda proprio sui tre brevetti che abbiamo depositato, ma il nostro obiettivo è di continuare a creare innovazione tecnologica. Questo significa anche occuparsi di produzione industriale e progettazione. Non da ultimo, lavoriamo per tutelare la nostra proprietà intellettuale: il nostro rapporto con i legali specializzati in IP (Intellectual Property) è molto più stretto rispetto ad aziende di altro tipo».  ©

Articolo tratto dal numero dell’1 maggio 2023. Abbonati!

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".