domenica, 28 Aprile 2024

Open Innovation e Startup Thinking: cambiare mentalità conviene

Sommario
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Se c’è una cosa che i periodi di incertezza e transizione sembrano insegnare è che l’innovazione radicale e “disruptive” diventa il principale modo per sopravvivere. «Avere all’interno della singola impresa tutte le risorse e le competenze per gestire l’innovazione che ci serve oggi non è difficile, ma impossibile», dice Alessandra Luksch, Direttore della Digital Transformation Academy e dell’Osservatorio Startup Thinking del Politecnico di Milano, precedentemente Startup Intelligence. «Anche perché queste risorse e competenze cambiano molto rapidamente. Bisognerebbe investire ossessivamente per stare al passo. Il tessuto imprenditoriale italiano è fatto per lo più di piccole e medie imprese, spesso a gestione familiare. E per molti aprirsi a un approccio simile rappresenta un cambiamento radicale quanto spaventoso».

Si è svolto di recente il kickoff della prossima edizione dell’Osservatorio…

«Il nostro kickoff open meeting è il momento in cui aggreghiamo il consesso delle aziende interessate a conoscere il progetto e presentiamo i contenuti dell’edizione successiva, anche con un coinvolgimento dei partecipanti, cioè attraverso delle attività di votazione e di discussione. Quindi non è solo una presentazione ma anche un momento in cui le aziende che hanno partecipato al progetto nelle edizioni precedenti prendono la parola per testimoniare quanto fatto, i benefici ottenuti, gli elementi chiave che hanno apprezzato di più e contribuiscono, con le loro idee, a lanciare anche qualche richiesta».

Alessandra Luksch, direttore dell’Osservatorio Startup Thinking

Qual è l’obiettivo?

«A partire dal nome, vuole avere un’accezione di momento di confronto sul tema dell’Open Innovation e la sua diffusione nelle imprese. Open Innovation è la capacità di fare innovazione non solo attraverso le proprie risorse, ma anche sfruttando ciò che proviene da attori esterni ai confini dell’organizzazione per sviluppare spunti di innovazione che magari all’interno non riescono a trovare spazio, attraverso joint venture, spin off e quant’altro. L’Osservatorio Startup Thinking quest’anno compie dieci anni, quindi è stato anche un momento un po’ celebrativo per l’avvio della decima edizione, a conferma che in questi anni il progetto ha colto e soddisfatto con concretezza un bisogno reale delle imprese».

Quali sono i temi più urgenti ora?

«Proponiamo un programma di circa 12 giornate, in parte di scouting, in parte di ricerca sulle Startup. L’intento è cogliere gli obiettivi fondamentali per capire gli scenari dell’innovazione e far incontrare ai partecipanti possibili fornitori innovativi. Alcune giornate sono invece più di approfondimento su nuovi processi, metodologie e forme organizzative. I temi di quest’anno saranno molto legati al fenomeno dell’intelligenza artificiale, che è il catalizzatore dell’attenzione del mercato ormai da qualche anno, ma da quest’anno, con l’esplosione dell’AI generativa, è salito ancora di più alla ribalta. Approfondiremo le sue applicazioni nell’area del marketing, della cybersecurity, dell’identità digitale, dell’automazione dei processi. Parleremo anche di Digital4Sustainability, cioè di come il digitale può supportare gli obiettivi di sostenibilità».

E sul piano metodologico?

«La certificazione ISO 56000, che attesta il processo di innovazione, e come sviluppare un Proof of Concept. Parleremo probabilmente anche di Corporate Venture Building, cioè di come le imprese possano creare al loro interno vere e proprie fabbriche di Startup o spinoff innovativi. È uno spunto che nasce dal fenomeno degli Startup studio, fioriti un paio di anni fa e che anche in Italia hanno avuto alcuni protagonisti interessanti. Adesso le aziende che hanno fatto esperienza sia con le Startup sia al proprio interno si stanno chiedendo se e come trasformare queste idee in imprese. Chiaramente, cercare nuove fonti di profitto è sempre e comunque una priorità».

A dieci anni dall’inizio, cosa è cambiato e cosa rimane nel mondo italiano dell’innovazione?

«In questi anni abbiamo visto crescere la compagine dei partner dai primi 15 del 2014 agli attuali 52 della scorsa edizione, quella che noi chiamiamo S09. Ma il punto da cui siamo partiti rimane. Quando abbiamo cominciato, volevamo capire come trasformare il modello delle aziende tradizionali, in cui l’innovazione era spesso conferita esclusivamente alla Ricerca e Sviluppo. Occorre accompagnare all’innovazione tradizionale anche una modalità più sperimentale e con  logiche di maggiore rapidità, per capire cosa funziona, ma anche cosa non funziona.

L’Open Innovation introduce un modello di lavoro che consente di cogliere spunti di innovazione già sviluppati da altri, inserirli nel proprio modello e sperimentare in continuazione. L’obiettivo è arrivare ad avere un portafoglio di sperimentazioni di innovazione, che nel tempo consenta all’impresa di reagire ai cambiamenti del mercato più facilmente. Questo è stato un bisogno che le imprese ci hanno espresso ormai dieci anni fa e cui noi abbiamo cercato di rispondere ispirandoci al fenomeno Startup. Nel 2014, in Italia era un fenomeno esistente e conosciuto, ma ancora un po’ di nicchia. Noi vi abbiamo preso spunto perché le Startup hanno nel loro DNA la capacità di cogliere velocemente i cambiamenti e agire di conseguenza. La chiave è un procedimento che si chiama pivoting, un ciclo di sperimentazione veloce: si cambia il modello di business e la logica di mercato, pur mantenendo ferma la vision di partenza».

In un’innovazione così legata al mondo Startup e alle grandi imprese c’è spazio anche per le piccole e medie imprese?

«A noi farebbe molto piacere avere PMI nel nostro progetto. Un paio ne abbiamo già, non le respingiamo. Nel complesso, la visione che si ha in questo comparto è quella di un ritardo generale sull’innovazione digitale, in primis. Le motivazioni dipendono da una mancanza di risorse, economiche e umane, perché le PMI sono molto legate al breve termine. Spesso il personale è già dedicato alle attività quotidiane e diventa più difficile incaricare qualcuno dell’innovazione. C’è poi un problema di competenze e formazione, strettamente legato a questa mancanza di mezzi».

È un cane che si morde la coda…

«Per questo, spesso nelle PMI si registra un’incapacità ad affrontare i temi dell’innovazione digitale. In più, anche il mercato, Startup comprese, magari si interessa meno alle piccole imprese, che sono un cliente meno goloso rispetto ad altri. È però un mondo che viaggia a due velocità: sappiamo benissimo che ci sono anche eccellenze e casi virtuosi, dove l’imprenditore ha capito l’importanza dell’innovazione e delle tecnologie digitali e ha deciso di investire risorse, uscendo sul mercato con prodotti che competono anche all’estero ed esportano tanto».

C’è un’apertura di questa fetta di mercato all’innovazione?

«Lo dicono i dati. Noi ogni anno facciamo un’indagine su quanto si spende e quanto si spenderà nell’anno successivo in innovazione digitale e le previsioni per il 2023 ci parlano di una crescita dei budget anche in piccole e medie imprese. Sono aumenti significativi, del 2,4% nelle piccole e del 2,3% nelle medie imprese. Numeri che non avevamo mai visto in questi anni. Tenendo conto che la media di quest’anno è del 2%, sono perfino sopra quella nazionale.

Questo ci dice che probabilmente siamo a un momento di svolta anche per le PMI, che da un lato acquisiscono consapevolezza del bisogno di recuperare questo gap e questo ritardo, e dall’altro cominciano a percepire i benefici ottenibili da un investimento nel digitale. Perché evidentemente le aziende che hanno cominciato a investire e a capire gli importanti vantaggi che possono ottenere non intendono fermare questo processo, che è molto fruttuoso e li presenta come interlocutori più credibili e affidabili sul mercato, per altre imprese e pubbliche amministrazioni. Pensiamo al tema della cybersecurity: è chiaro che una PMI che investe in sicurezza è un interlocutore più affidabile per una grande impresa di una PMI che da quel lato è un colabrodo. Anche, per esempio, rispetto all’accesso al credito: chi investe in innovazione digitale e può quindi dimostrare di avere sistemi di fatturazione elettronica o di gestione del ciclo attivo dell’ordine, con mezzi informativi solidi, è un soggetto più serio e affidabile anche per le banche».

Guardare all’esterno per introdurre questo tipo di innovazione può essere la risposta per chi non può permettersi di aggiungere un’apposita funzione in azienda?

«Assolutamente sì e infatti nella maggior parte dei casi non troviamo un innovation manager nelle PMI, ma un consulente esterno. Da questo punto di vista, mi preme di segnalare che un altro elemento di ritardo è forse la necessità di un supporto da parte delle istituzioni, attraverso forme di finanziamento agevolate o fondi governativi. Questo può essere una chiave di volta per il comparto. Nel 2018, con la creazione dell’albo degli innovation manager, era stato varato un finanziamento a fondo perduto per impiegare consulenti di questo tipo nelle aziende. È stata un’opportunità ampiamente sfruttata dalle PMI e di cui forse oggi vediamo i risultati: non escludo che la crescita degli investimenti che vediamo nel 2023 sia frutto del lavoro fatto 5 anni fa».

Ma lasciare questo tipo di ruolo a una sola figura, in outsourcing, non rischia di ghettizzare l’innovazione, relegarla in un angolo?

«L’ideale non è l’esternalizzazione, cioè il lasciare fare ad altri, ma la collaborazione, cioè il fare con altri. In questo, la pandemia ci ha aiutato moltissimo a capire cosa significa fare Open Innovation: tutti i modi di sopravvivere che abbiamo adottato in quel periodo rispondono a questo tipo di processo. A partire dai vaccini, che sono stati frutto di cooperazione tra piccoli laboratori, come Biontech, e grandi imprese, come Pfizer. Ma esistono molti altri esempi: nessuno innova da solo. Ormai l’innovazione è troppo complicata, multidisciplinare e veloce e gli operatori non riescono ad avere tutte le competenze necessarie per viaggiare autonomamente, ma devono per forza collaborare in ottica Open Innovation.

Oggi non solo le tecnologie evolvono molto velocemente, ma anche il consumatore è cambiato. Da un lato, è infedele, perché ha la possibilità di informarsi molto bene. E poi ha uno sguardo globale. Al tempo stesso, abbiamo un mondo che cambia radicalmente. Siamo di fronte a un contesto veramente molto difficile per le imprese, che non ce la possono fare da sole».

Quali sono le ricchezze in più che il modello delle Startup offre, in un contesto economico incerto come quello odierno?

«Le imprese devono imparare a vivere nell’incertezza. E per gestirla non c’è che provare e, soprattutto, capire velocemente ciò che non funziona. Spesso si fa fatica a dichiarare i fallimenti. La lezione che dobbiamo portarci a casa è che quando sbagli l’errore deve servire a imparare tante cose. E questa cultura dalle Startup si sta diffondendoi anche alle imprese tradizionali. Per anni si è perseverato in progetti che erano chiaramente fallimentari solo per giustificare investimenti fatti prima. Invece bisogna accettare costi affondati e andare avanti».                                   ©

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".