AI ACT A restringere le maglie della rete arriva una mano tessitrice europea. La Commissione vuole (e deve) regolare il traffico digitale, AI e IoT su tutto: vuoi per le crescenti minacce di attacchi Cyber, vuoi per la fragilità – alla voce “sicurezza” – di tutto ciò che circola sul web. «L’accordo politico annunciato dalla presidenza spagnola del Consiglio e dalla delegazione del Parlamento europeo rappresenta un passo importantissimo per la regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale in Europa e nel mondo», dice Roberto Viola, Direttore Generale per le politiche digitali della Commissione europea.
«Si tratta di un momento storico. L’AI Act dell’UE è il primo quadro giuridico completo sull’Intelligenza Artificiale a livello mondiale. Con l’obiettivo di assicurare che l’AI disponibile nel mercato interno sia pienamente allineata ai valori europei. Con un chiaro approccio basato sul rischio, l’accordo mira a favorire l’innovazione responsabile in Europa. E a sostenere lo sviluppo, la diffusione e l’adozione di un’AI affidabile nell’UE».
Sembra però che tre stati membri, Italia, Francia e Germania abbiano espresso forti dubbi…
«Il Parlamento europeo, che ha seguito ampiamente la proposta della Commissione incentrata su un approccio basato sul rischio, ha anche proposto alcuni obblighi nuovi con riguardo ai modelli di fondazione, di machine learning. Che tipicamente richiedono un allenamento specifico su una grandissima quantità di dati, come per esempio quello che è alla base dell’applicazione di OpenAI ChatGPT. I tre Paesi si sono inizialmente schierati contro questa nuova proposta. Loro vorrebbero che questo tipo di regolamentazione fosse molto leggera, basata principalmente su codici volontari che potrebbero poi aprire la strada per una regolamentazione vincolante».
In soldoni?
«La discussione è essenzialmente legata al punto della catena di valore dove debba intervenire la regolamentazione. Quanta regolamentazione ci deve essere sui prodotti finali che sono immessi sul mercato e sono accessibili al pubblico e quanta invece a monte, sulle componenti, che possono essere utilizzate e integrate in vari tipi di prodotti finali. Con un profilo di rischio che può variare. In pratica su che cosa porre l’accento fra i blocchi di base o i prodotti finiti. L’Italia, la Francia e la Germania hanno sostenuto che il focus dell’attività regolamentare debba rimanere quello dei prodotti finiti. Specialmente in un momento in cui questa tecnologia dei modelli è ancora nelle sue fasi iniziali di adozione. In questa maniera però, la regolamentazione si estenderebbe a moltissimi sistemi di AI».
Cina e America investono più dell’Europa in tecnologie, l’Italia è in affanno: possiamo essere comunque competitivi grazie alle conoscenze che abbiamo nel settore?
«Se prendiamo in esame gli investimenti pubblici nella ricerca di base o nelle infrastrutture pubbliche, l’Europa in molti casi investe più degli Stati Uniti e della Cina. Si prenda per esempio la fisica quantistica, il supercalcolo, dove decisamente lo sforzo è importante. Il problema dell’Europa è il rapporto fra investimenti di base e ricadute positive sul sistema produttivo. Per esempio, noi abbiamo il programma Horizon Europe, per la ricerca e l’innovazione per il periodo 2021-2027, con 100 miliardi di euro. È quasi il più grande del mondo per gli investimenti di ricerca, però poi la catena di trasmissione fra ricerca e industria non funziona.
La produttività continua a calare con conseguente impatto sulla competitività. Dobbiamo lavorare di più nel far funzionare questo circolo virtuoso e fare sì che la nostra industria possa beneficiare degli investimenti e dei risultati della ricerca. L’Europa riusciva a eccellere nei macchinari industriali, nel settore dell’automotive, in quello del tessile etc, ma con l’avvento della digitalizzazione ha cominciato ad affannare. Il nostro Paese è quello che soffre di più perché ha una struttura del sistema produttivo molto sbilanciata verso la piccola e media impresa. Che spesso è più lenta nell’adozione di nuove tecnologie e nella rinnovazione dei processi produttivi. I numeri sono impietosi per quanto riguarda la perdita di competitività e di produttività».
Su che cosa si può andare ad agire per migliorare?
«Il primo passo sono le infrastrutture per le piccole e medie imprese. Il PNRR prevede per la digitalizzazione investimenti per circa 50 miliardi di euro, destinati tra l’altro alla larga banda, l’iCloud, ai centri di trasferimento tecnologico per le nuove tecnologie, alle strutture di supercalcolo eccetera. I fondi europei ci sono ed è essenziale che siano spesi bene. Poi il secondo passo riguarda la dimensione delle competenze digitali, dove l’Italia mostra ancora le sue maggiori criticità. Se leggiamo le tabelle del nostro indice DESI che misura la trasformazione digitale, l’Italia è in fondo alla classifica delle competenze digitali di base e specialistiche.
E se si considerano poi le competenze tecniche, le cosiddette STEM, l’Italia è in una situazione molto critica in particolare per quanto riguarda il gender gap. Anche in quest’ambito permangono poi grandi differenze tra le diverse aree geografiche del Paese, nonché problemi di accesso alle scuole professionali e alle Università. Eppure, l’esperienza della Germania ci insegna che far funzionare il meccanismo “avviamento professionale-industria” crea occupazione. E consente di rendere disponibili per il mercato del lavoro quei profili specializzati tanto carenti quanto richiesti. Molti interventi in precedenza hanno mancato l’obiettivo, adesso il PNRR prevede una serie di azioni e investimenti dedicati alle competenze digitali.
Bisogna davvero prendere questi interventi molto seriamente giacché le competenze digitali sono veramente il nodo cruciale della nostra trasformazione digitale sia per i cittadini che per le imprese. Il terzo aspetto riguarda l’eccellenza nelle università. In Italia non mancano sicuramente le eccellenze anzi, mancano però le risorse sufficienti a rendere le nostre università competitive. Ma in uno Stato con limiti di spesa bisogna aprire ancora di più alla collaborazione con i privati. Non solo, ma anche rendere almeno alcune strutture universitarie più autonome e dargli quella flessibilità che gli consenta di competere su scala globale».
Un intervento privato potrebbe essere la chiave?
«Se non si migliora la collaborazione tra i privati e il pubblico non si va molto lontano anche in questo campo. Invece di continuare a fare leva unicamente sulla spesa pubblica per gli atenei. Si dovrebbe dare maggiore spazio alle iniziative tra gli atenei e il privato. Ma non solo, il modello potrebbe essere esteso anche alle scuole professionali. Promuovendo le sponsorizzazioni e facilitando l’avviamento professionale in azienda. Noi abbiamo il 24% di disoccupazione giovanile, un numero che non può essere associato a un Paese del G7 che ha ambizioni di crescere e di trasformarsi».
La storia di Sam Altman, papà di ChatGPT, che è passato da OpenAI e Microsoft – e ritorno – ci ha messo di fronte a un grosso limite in ambito di intelligenza artificiale: sono sempre gli umani al centro (ne parliamo anche a pag. 24)
«Ma certo, anzi è proprio esemplificativo del fatto che la competizione nelle nuove tecnologie sarà proprio sui cervelli. Per questo un ragazzo con competenze in materia di intelligenza artificiale in questo momento negli Stati Uniti è coperto d’oro».
Altro discorso in Italia…
«Già, qui un laureato specializzato prende il 20% in meno rispetto alla media Ocse. Poi se in aggiunta si considerano, per esempio, in una città come Milano gli aumenti dei prezzi del 10%, la perdita di competitività degli stipendi diventa insormontabile. E si forma una spirale perversa, nella quale l’unica prospettiva per un giovane brillante è dire “me ne vado”. Questa diventa una tipica situazione in cui perdono tutti. Perde lo Stato che ha investito su uno studente, perde una risorsa essenziale il settore industriale e perde la società nel suo complesso per l’impoverimento del capitale umano. Il tema di sviluppare politiche e strumenti per attrarre le migliori competenze è centrale per le imprese, per le università, sia in Italia sia in Europa».
Altro tema in evoluzione, quello sul Wallet europeo
«Io sono stato protagonista del roaming gratuito e penso che faccia piacere a tutti noi il fatto di poter utilizzare il telefonino in tutta Europa come nel proprio Paese di origine! È la vera sensazione di sentirsi cittadini europei. Il Wallet ci permetterà proprio questo. Se si considerano alcuni servizi, come il fascicolo sanitario, si fa ancora fatica anche all’interno dello stesso Paese a consultarli digitalmente. L’idea, quindi è di rendere la vita semplice a tutti, visto che il Wallet conterrà il titolo professionale necessario per lavorare, la ricetta medica, le certificazioni, la firma digitale etc. E sarà riconosciuto in tutta Europa, con l’obbligo per tutti di accettarlo».
In Italia siamo pronti?
«Spero che il Wallet sia un passo in avanti fondamentale non solo per i cittadini ma anche per le microimprese e per le imprese europee».
Però un ostacolo che tiene indietro le PMI sulla competitività digitale è la cybersecurity: alcune aziende non possono investire, altre non ne hanno le competenze. Così preferiscono non rischiare con l’e-commerce piuttosto che affrontare il problema…
«È il cane che si morde la coda: in questo modo un’impresa equivalente in un altro Paese che offre il servizio le sottrae quote di mercato. Per questo, come dicevo prima le competenze digitali e la cultura digitale in generale sono essenziali e non solo per il singolo… I fondi europei finanziano i digital innovation hubs, luoghi di coworking in cui la microimpresa e la PMI hanno l’opportunità di sperimentare come utilizzare le nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale, alla stampa 3D, all’e-commerce etc».
Abbiamo perso troppi treni, aspettando sempre quello successivo, e ora siamo soli alla stazione
«Abbiamo vissuto delle fasi di crescita dell’economia, anche dopo la crisi Lehman Brothers, che hanno creato nelle persone l’aspettativa che ci fosse sempre una soluzione a qualunque problema. La pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno creato una congiuntura mondiale senza precedenti. Con l’inflazione, gli alti costi del capitale, la contrazione della forza lavoro. Una specie di tempesta perfetta che adesso impone un salto di qualità culturale che possiamo affrontare con le nuove tecnologie. Ora in questo clima di tensioni geopolitiche mondiali, catene di valore che non funzionano più come una volta e la globalizzazione che ridisegna i suoi confini, ognuno anela alla sua autonomia. Certo, ma tutto questo ha presentato il conto».
Più che altro sull’autonomia, dove ci siamo dimostrati carenti su tanti aspetti…
«Il conto è salato ma non bisogna piangersi addosso ma piuttosto rimboccarsi le maniche. Partendo dal migliorare la qualità della forza lavoro, pensando che investire in un ragazzo è cruciale per il sistema produttivo, per il sistema Paese e per l’Europa. Bisogna modernizzare l’impresa, togliere di mezzo tutta la burocrazia, razionalizzare e semplificare i processi sia nel privato sia nel pubblico. Per fare questo non ci vogliono 14 premi Nobel per l’economia, è abbastanza evidente che questa deve essere la direzione di marcia bisogna solo perseguirla senza indugi».
La tempesta perfetta che citava ha anche cambiato il modo di investire, uno dei settori nei quali si dovrebbe stare anche più attenti per i rischi che si possono correre online
«È per questo che la Commissione Europea ha presentato una direttiva sulle informative e gli avvisi per i risparmiatori, sia allo sportello ma anche online, incentrate soprattutto sulla necessità di evitare i conflitti di interessi. E poi c’è il regolamento sulle criptomonete, che prevede soprattutto per i cosiddetti Stable Coin che ci sia un’approvazione da parte delle autorità competenti. Stiamo cercando di modernizzare tutta la struttura delle regole che proteggono il consumatore finanziario, che deve avere garanzie che comprano tutti gli aspetti.
Siamo abituati a un mondo del risparmio – fra virgolette – semplice. Adesso il digitale offre anche in questo campo delle grandissime opportunità, ma esibisce una altrettanto estesa complessità. I regolatori devono quindi trovare una linea di azione. Come, per esempio, di fronte alle sfide dell’intelligenza artificiale, o le performance degli algoritmi più complessi applicati al trading e alla finanza, che sono capaci di influenzare in maniera determinante i mercati». ©
Articolo tratto dal numero del 15 dicembre 2023 de il Bollettino. Abbonati!
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