L’adozione di pratiche aziendali ESG sembra essere fondamentale per una gestione di successo. «Ormai è un percorso dal quale non si può più tornare indietro, nel senso che c’è un’attenzione tale da parte sia degli investitori sia dei consumatori, per cui la strada verso la sostenibilità può essere vista come un valore aggiunto, ma man mano che si andrà avanti non sarà più un plus, ma una base da cui partire», dice Desirée Scarabelli, Sales Director and ESG Specialist presso Pictet Asset Management. Però, a differenza degli ingenti investimenti della pandemia, il 2022 ha segnato un ritiro di 13,2 miliardi di dollari dai fondi azionari, obbligazionari e misti, il primo deflusso netto in dieci anni. I fondi Green hanno subito una perdita del 18%, contro il 15,8% degli altri. Ma già dal 2024 la tendenza si potrebbe invertire. Infatti, essere virtuosi su queste tematiche, evita molto spesso l’essere coinvolto, in scandali piuttosto che in accuse o processi che possono avere un impatto negativo sull’immagine dell’azienda. Ma non solo. Come una società decide di gestire il rischio climatico è già oggi importante. E in futuro potrebbe essere un driver fondamentale.
In che modo l’esternalizzazione dei costi ESG può aumentare il costo del capitale per un’azienda?
«Le imprese vanno suddivise in due gruppi. Quelle grandi hanno la capacità di sostenere costi significativi, ma necessari, legati alla gestione della sostenibilità. Per conformarsi alle nuove normative, queste aziende hanno costituito team specializzati. Per le corporation, l’adozione di criteri ESG non è solo una questione normativa, ma anche di investibilità. Più informazioni rendono disponibili, più appetibili diventano per i fondi di investimento. Perché, a loro volta, gli asset manager devono fornire metriche e dati che, se non disponibili, possono creare difficoltà. Al contrario, la situazione è diversa per le piccole imprese, in particolare quelle a conduzione familiare. Per esse, è impensabile creare team interni specializzati in ESG. Pertanto, devono necessariamente esternalizzare questi costi, affidandosi a consulenti specializzati. Quindi ci sono società di consulenza, collaboratori esterni o anche alcune banche corporate, che stanno formando team di supporto sul lato extra finanziario per soddisfare le esigenze delle PMI».
Come vengono raccolti i dati?
«Esistono vari fornitori esterni responsabili della raccolta, mentre altri si occupano direttamente dello scoring. Una delle sfide principali che attualmente incontriamo è la comparabilità dei dati. Ad esempio, nel caso del calcolo delle emissioni, un fornitore può misurare in un modo specifico, mentre un altro potrebbe adottare un approccio diverso. Questo rende spesso difficile confrontare i numeri. Pertanto, un aspetto su cui credo sia necessario lavorare ulteriormente è la metodologia. Queste incompatibilità rendono difficile interpretare correttamente le informazioni. Attualmente, gli scoring attribuiti alle imprese o ai prodotti di investimento da fornitori esterni, come Sustainalytics o MSCI, possono variare notevolmente. Questo può accadere perché variabili specifiche possono avere un peso maggiore o minore, o possono essere calcolate in modo diverso. Di conseguenza, l’adozione di uno scoring come unico indicatore risulta spesso un approccio troppo semplificato. Per esempio, noi lo sviluppiamo internamente. Non ci affidiamo agli scoring esterni per le aziende in cui investiamo, ma prendiamo in considerazione una serie di dati provenienti da fornitori esterni e calcolati dai nostri team interni durante la fase di due diligence. Successivamente, creiamo il nostro scoring seguendo precise regole da noi stabilite. Questo ci permette di valutare accuratamente l’azienda dal punto di vista della sostenibilità».
Come vengono utilizzati questi dati per indirizzare i capitali verso un’attività ad alto impatto sostenibile?
«Per fare un esempio, noi abbiamo una gamma di opzioni, come i fondi tematici a impatto, caratterizzati da un obiettivo di sostenibilità intrinseco nella loro strategia di investimento. Queste strategie sono nate con un obiettivo legato a questioni ambientali o sociali. Ad esempio, il nostro fondo sull’acqua è stato creato con l’intento di investire in aziende che propongono soluzioni al problema della scarsità idrica. Il loro impatto tangibile si manifesta attraverso le soluzioni che offrono sul Mercato. Non è pertanto sufficiente selezionare un’azienda con un buon punteggio ESG, è fondamentale scegliere società che propongono soluzioni con un impatto misurabile. Ad esempio, un fondo sulle energie rinnovabili non si limita ad investire unicamente in energia, ma va a finanziare il settore Green a 360°. Perciò, si tratta di investire in tecnologie abilitanti, non si deve puntare solo a chi produce energia eolica o solare, ma anche a chi offre soluzioni per lo stoccaggio di queste energie, come le batterie e microchip più efficienti. Bisogna considerare che le imprese su cui si va a investire operano in un sistema interconnesso. Inoltre, l’effetto di queste soluzioni può essere misurato direttamente».

Ci sono anche altre strategie?
«Esistono soluzioni più tradizionali, come la “Best in Class”, che consiste nell’investire esclusivamente nelle aziende più virtuose dal punto di vista della sostenibilità. In questo caso, lo scoring ESG gioca un ruolo fondamentale per la valutazione dell’azienda, oltre che da un punto di vista finanziario. Si selezionano solo le società con un punteggio ESG molto alto per il portafoglio, premiano cioè le aziende già virtuose. Ci sono anche le strategie che puntano a investire nella transizione. La forza della finanza sostenibile sta proprio nel fornire le risorse necessarie alle aziende che necessitano di una transizione, ma che potrebbero non avere i mezzi per farlo, dato che implica costi elevati. Si effettua quindi una valutazione basata sui criteri ESG, che potrebbe non risultare molto alta inizialmente. Tuttavia, si intraprende un processo di dialogo con l’azienda (engagement), cercando di capire i suoi piani a lungo termine per una transizione verso un modello più sostenibile. A partire da questa interazione, si inizia a investire nell’azienda con l’obiettivo di portarla da un punto A (non sostenibile) a un punto B (aumento dello scoring ESG). In questo modo, l’investitore beneficia di un vantaggio di rendimento collegato al fatto che l’azione diventa eleggibile anche per quei fondi che effettuano uno screening sui fattori ESG. Infatti, oggi non è appropriato escludere completamente settori come l’oil and gas o le utilities in certe strategie. Perché alcune aziende del settore stanno implementando piani per passare a modelli più sostenibili».
Quindi la strategia più efficace potrebbe essere aiutare le imprese meno sostenibili a ridurre il loro impatto?
«Se consideriamo la questione dal punto di vista dei rendimenti finanziari, potrebbe essere vantaggioso a lungo termine, ma è un processo graduale. Infatti, le aziende che hanno investito in sostenibilità quest’anno hanno registrato una performance inferiore. Questo perché alcuni settori tipicamente legati agli investimenti sostenibili sono fortemente influenzati dalle fluttuazioni dei tassi di interesse. Ad esempio, con l’aumento recente dei tassi, le aziende che stanno facendo grandi investimenti sostenibili e che quindi necessitano di finanziamenti esterni, sono state colpite maggiormente rispetto ad altri settori, come quello tecnologico, che ha flussi di cassa positivi elevati e un basso livello di indebitamento. Infatti, quando parliamo di sostenibilità, non possiamo ignorare il concetto di transizione. È un elemento fondamentale del Green Deal europeo e di tutta la tassonomia ad esso associata, così come della SFDR (regolamento sull’informativa di sostenibilità dei servizi finanziari), che ha caratterizzato il mondo degli investimenti negli ultimi anni. L’obiettivo iniziale di queste iniziative era di indirizzare i flussi di denaro provenienti dai Mercati privati verso la transizione, per supportare le aziende nel loro percorso di adattamento».

Solo il 13% delle famiglie italiane percepisce gli investimenti ESG meno rischiosi rispetto a quelli che non lo sono. Ciò dimostra che non sempre la clientela retail conosce effettivamente questo tipo di investimento, come si può intervenire?
«La soluzione risiede nell’educazione finanziaria a tutto tondo: è fondamentale formare il cliente finale mediante i consulenti finanziari. È altresì importante sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso la stampa e i media. La sostenibilità deve essere un elemento principale nella valutazione di un investimento. Ignorare l’impatto ambientale di un’azienda potrebbe mettere a repentaglio l’intero investimento. È quindi essenziale far comprendere che la finanza sostenibile non è una semplice moda momentanea, ma risponde alla persistenza del cambiamento climatico. Spiegare ai risparmiatori come i loro investimenti possono avere un impatto tangibile sulla collettività potrebbe fare davvero la differenza».
Attraverso processi di data-screening, è più semplice investire seguendo i criteri ESG?
«Queste tecniche possono essere un valido strumento per analizzare i dati attuali di un’azienda. Ma non sono sufficienti perché non riescono a catturare tutte le variabili rilevanti. Infatti, oltre all’esame dei dati presenti, è necessario considerare variabili future, come il potenziale dell’azienda, i piani di sviluppo e la sostenibilità di tali piani. Nel contesto della transizione verso l’investimento sostenibile, questi strumenti non possono essere gli unici criteri decisionali. È fondamentale considerare come l’azienda intende evolvere in futuro. Inoltre, è importante tenere conto dell’engagement (dialogo con l’azienda), aspetto che non può emergere solamente attraverso l’analisi dei dati».
Cosa intendeva quando ha detto che fra 10 anni non si parlerà più di sostenibilità?
«Tra 10 anni la sostenibilità sarà completamente integrata in tutte le nostre attività. Attualmente, parliamo di società che stanno attraversando una transizione e di regolatori che cercano di stabilire norme in un’area relativamente nuova e in continua evoluzione. Tuttavia, tra 10 anni, tutto ciò che esisterà lo farà perché avrà fatto dei passi avanti verso la sostenibilità. Mentre le imprese che l’hanno rifiutata probabilmente non ci saranno più. Ad esempio, una società energetica che utilizza combustibili fossili non può mai essere completamente sostenibile, ma tra 10 anni sarà sicuramente più sostenibile di quanto non lo sia adesso. Ciò potrebbe essere dovuto a una riduzione dell’impatto ambientale attraverso strategie di compensazione più evolute. Potrebbe diversificare il suo business, non focalizzandosi esclusivamente sui combustibili fossili, ma includendo anche le energie rinnovabili. Grazie al progresso tecnologico, possiamo sviluppare nuove soluzioni per ridurre gli sprechi, l’inquinamento e l’uso di risorse primarie». ©
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Articolo tratto dal numero del 1 gennaio 2024. Abbonati!