Gender gap e violenza economica rallentano lo sviluppo del nostro Paese. L’occupazione femminile è tra le più basse in Europa: 55% contro 69% medio. Le cause sono diverse: in primo luogo c’è la gestione della maternità e il supporto fornito dal sistema di welfare. Le politiche italiane spesso non consentono alle donne di godere pienamente di diritti e opportunità lavorative. Moltissime si trovano nella necessità di ridurre il proprio orario di lavoro dopo essere diventate madri, a causa dell’insufficienza di strutture di supporto per la cura dei bambini. L’istruzione è un altro fattore determinante. Chi ha un titolo di studio più elevato tende a gestire meglio non solo la propria vita professionale ma anche quella privata. Infatti, Il divario occupazionale è più accentuato tra le donne con minori opportunità educative, specialmente nelle regioni del Centro e del Sud. «Osservando il contesto europeo, notiamo che in Paesi come Finlandia e Olanda, la partecipazione lavorativa delle donne non differisce significativamente tra madri e non. Al contrario, in nazioni come Svezia, Danimarca e Slovenia, le donne con figli presentano addirittura tassi di occupazione superiori rispetto a quelle senza», dice Vania Franceschelli, Presidente della European Federation of Financial Advisers and Financial Intermediaries (FECIF).
Qual è il ruolo dei padri italiani?
«Nell’ambito della genitorialità, la figura del padre ha subito una notevole evoluzione. Con il decreto legislativo 151/2001 il Paese ha fatto un passo importante, introducendo il congedo di paternità, che permette ai padri di prendersi del tempo dal lavoro, oggi di 10 giorni, per contribuire attivamente alla crescita dei propri figli, con una retribuzione che viene pian piano diminuita. L’Italia mostra alcune disparità rispetto ad altri Paesi europei. Ad esempio, in Portogallo, il congedo di paternità è obbligatorio ed esclusivo per 20 giorni. In Germania, invece, la legislazione incoraggia una condivisione delle responsabilità genitoriali attraverso specifici incentivi. Le aziende giocano un ruolo cruciale in questo contesto».
In che modo?
«Molti datori di lavoro, specialmente le imprese meglio strutturate, iniziano ad offrire supporto attraverso voucher e bonus per le madri. Tuttavia, permangono problemi come il demansionamento delle donne dopo la maternità o in seguito a problemi di salute. Le statistiche relative alla disoccupazione femminile e al lavoro part-time in Italia, rispetto ad altri Paesi europei, sollevano questioni rilevanti. Il Global Gender Pay Gap Report 2021 del World Economic Forum prevede che saranno necessari 135 anni per raggiungere la parità salariale completa, mettendo in luce la necessità che lo Stato prenda coscienza di questa situazione, connessa anche all’alta longevità della popolazione, una delle più anziane al mondo».
Le donne, in media, vengono pagate in meno degli uomini, da cosa dipende questa discriminazione e come intervenire?
«Questo accade non solo nel nostro Paese, ma anche nel resto d’Europa. Secondo dati Eurostat 2021, nel continente esiste una disparità salariale media del 12,7%. In Austria, il divario è del 18,8%, in Germania del 17,6%, in Ungheria del 17,3%. In Italia si attesta intorno al 5%. Uno dei pochi Paesi che invece ha colmato il divario retributivo è il Lussemburgo. Va tuttavia sottolineato che un minore divario, come quello del nostro Paese, spesso non corrisponde a una maggiore uguaglianza di genere.
Le donne italiane che lavorano ricevono paghe maggiormente allineate a quelle dei colleghi uomini rispetto alla maggior parte dei Paesi europei, ma questo non si traduce in una maggiore uguaglianza di genere. In primo luogo, perché la partecipazione femminile al mercato del lavoro è relativamente bassa (pari al 43,6% contro una media europea del 54,1%, secondo i dati di Confcommercio). In secondo luogo, non si prende in considerazione la tipologia di contratto, ad esempio i contratti part-time a livello nazionale sono largamente diffusi tra le donne e gran parte di questi contratti è di natura “involontaria”.
Inoltre…
Un altro aspetto legato a questo divario è la concentrazione della forza lavoro femminile in settori lavorativi tradizionalmente a basso reddito e la minore presenza in ruoli dirigenziali. Quando, inoltre, queste posizioni vengono raggiunte, spesso sono pagate meno dei loro colleghi maschi. Il gender pay gap tende ad aumentare con l’età. Nei primi anni di carriera, il divario può essere meno marcato, ma tende a crescere man mano che si accumulano responsabilità familiari, spesso limitando le opportunità di carriera e di conseguente aumento salariale.
È fondamentale affrontare e ridurre tale divario non solo per promuovere l’equità di genere, ma anche per ottenere benefici economici più ampi. L’ultimo studio dell’Unione Europea in materia dimostra che ridurre il gender pay gap può avere effetti positivi sull’economia in generale; si stima che una diminuzione dell’1% nel divario retributivo possa comportare un incremento dello 0,1% nel PIL».
Quale responsabilità hanno le aziende private nell’affrontare il divario di genere e nel sostenere l’avanzamento delle donne sul posto di lavoro?
«Le imprese private svolgono un ruolo cruciale. La responsabilità non si limita solamente a un obbligo etico o sociale, ma si estende anche a una prospettiva di sviluppo strategico e di performance. Ad esempio, il concetto di certificazione di genere rappresenta una possibilità per le aziende di dimostrare il proprio impegno. Infatti, può anche aprire le porte a incentivi e contributi. Negli ultimi anni, si è assistito a un cambiamento significativo, anche grazie alla Direttiva UE 2023-970, che affronta la parità di retribuzione tra i generi. Introduce il divieto del segreto salariale, consentendo ai dipendenti di accedere a informazioni sulle retribuzioni all’interno della propria azienda.
Ciò è fondamentale per individuare e correggere disparità ingiustificate, contribuendo così a ridurre il gender pay gap. La riduzione del divario ha anche implicazioni economiche, tra cui l’aumento del PIL. La Direttiva UE pone particolare attenzione alle realtà con più di 50 dipendenti.
Tuttavia, è essenziale che tutte le imprese, indipendentemente dalle loro dimensioni, si adoperino per ottenere la certificazione di genere e adottino una maggiore trasparenza nelle politiche retributive. È opportuno sottolineare i progressi compiuti nel corso degli anni, ad esempio nella tutela contro il mobbing, un tempo non riconosciuto come reato e ora invece oggetto di specifiche normative che proteggono i lavoratori.
Infine, considerando la maggiore longevità delle donne in Italia, è fondamentale che esse dispongano di una situazione patrimoniale adeguata e di un’educazione finanziaria che permetta loro di gestire al meglio le proprie risorse. In questo contesto, il ruolo del consulente finanziario diventa imprescindibile per garantire un’informazione corretta».
In cosa consiste la violenza economica?
«Questo tipo di violenza fu formalmente riconosciuto per la prima volta nel 2011 con la Convenzione di Istanbul, a cui l’Unione Europea ha formalmente aderito l’1 giugno 2023. L’importanza di affrontarla è rafforzata dalla sua connessione con altre forme di violenza. Ad esempio, può essere un precursore o un componente della violenza fisica e psicologica. Inoltre, può avere un impatto significativo sulle dinamiche di genere, contribuendo alla perpetuazione delle disuguaglianze tra uomini e donne.
Uno degli aspetti di questa disparità si osserva nel contesto lavorativo, dove spesso le donne sono costrette a limitare le loro carriere professionali a seguito della maternità. Si riflette anche nella bassa percentuale di donne in ruoli di leadership aziendale. In ambito accademico, si manifesta nelle scarse percentuali di donne laureate in materie STEM, che nel 2022 ammontavano solo al 14.5% sul totale delle laureate.
Oltre alla disuguaglianza di genere, la violenza economica ha anche una dimensione generazionale. Questo perché è dimostrato che i figli i cui genitori appartengono al 20% più povero della popolazione hanno anche una probabilità del 30% di avere lo stesso destino dei genitori (OXFAM, 2022). Pertanto, il focus non dovrebbe essere solamente sulle donne, ma anche sull’ingiustizia intergenerazionale che affligge la nostra società, che se non affrontato ora, sarà trasmesso alle future generazioni».
Come intervenire per sradicarla totalmente?
«Occorre portare le donne ad avere la forza di denunciare gli abusi che subiscono. Ciò è particolarmente vero in Italia: la situazione nazionale contrasta con quella di altri Paesi come l’Islanda e le nazioni del Nord Europa, dove la consapevolezza della violenza economica e la propensione a denunciare sono più elevate. Questo è spesso il risultato di un migliore livello di educazione finanziaria. In Italia, il 49% delle donne ha subito violenza economica, con un incremento al 67% tra quelle che sono separate o divorziate (IPSOS, dicembre 2023).
Di conseguenza, le donne separate possono sperimentare un declino significativo nel proprio tenore di vita, con il 77% che risente di questo problema in modo acuto. La violenza economica non è attualmente riconosciuta come reato. Di conseguenza, l’Unione Europea ha la possibilità di porre l’attenzione su questo tema e normarlo, ma noi consulenti finanziari abbiamo il diritto-dovere di colmare gap culturali con l’educazione finanziaria e come FECIF continueremo a lavorare con le istituzioni Europee per sottolinearne l’importanza». ©
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Articolo tratto dal numero del 1 febbraio 2024. Abbonati!