Produrre arte è un buon investimento? «Il problema è tutto concentrato nel lavoro invisibile che svolge l’artista al di là della performance», dice Micaela Vitaletti, Professoressa associata di diritto del lavoro presso l’Università di Teramo e autrice di Lavoro e tempi dello spettacolo: uno studio sullo statuto giuridico dell’artista, Fondazione Giacomo Bradolini. «Lo spunto è arrivato dai movimenti di protesta che si erano formati nel corso della pandemia, quando tutto si è fermato. Lì sono emerse le difficoltà di chi non poteva più lavorare: incontrarsi di persona era proibito e gli spettacoli erano sospesi. Quello culturale e creativo è stato tra i settori più colpiti dalle misure emergenziali del distanziamento».
Il mondo del diritto del lavoro non si è mai occupato esplicitamente del segmento dello spettacolo?
«Per sua natura no. È più abituato ad approfondire le materie classiche dei settori tradizionali su cui è stato costruito il diritto del lavoro. Tutti gli artisti in senso stretto, ma anche i tecnici che ruotano intorno alla produzione, sono sempre stati marginali per i giuslavoristi. Il comparto creativo, in generale, è stato sempre normato più in senso pubblicistico, quindi come fondi governativi alla cultura».
C’è una regolamentazione per lo spettacolo dal vivo?
«Sì, è sottoposto all’interno dei contratti di lavoro, così come lo sono alcuni segmenti del mondo culturale come le fondazioni lirico-sinfoniche. Esempi ne sono la Fondazione Santa Cecilia a Roma, oppure il teatro dell’opera, per cui vige una normativa specifica. Anche la fase successiva della produzione artistica è regolamentata, perché a coprirla c’è il diritto d’autore, il copyright. A mancare invece è una tutela del lavoro in senso stretto».
Qual è la difficoltà maggiore che si incontra per inquadrare questa tipologia di lavoratori?
«Senza dubbio la discontinuità contrattuale. Il punto centrale sono i tempi di lavoro, che deve essere il criterio guida per sottoporre tutta la materia a una regolamentazione. Se ne possono individuare almeno tre. C’è il tempo della prestazione di lavoro, che è fatto dell’esibizione di fronte al pubblico oppure che si esaurisce con l’adempimento della prestazione su un set cinematografico. Poi ci sono le prove, che però di solito avvengono nel luogo di registrazione oppure dove si tiene la performance e che spesso sono incluse nell’ingaggio. Il problema nasce invece nei tempi della preparazione».
Ad esempio quando un attore prepara un personaggio?
«Non solo. Quella anche è una parte del lavoro invisibile. Ma ci sono soprattutto dei tempi di attesa tra una scritturazione e l’altra, quando si finisce uno spettacolo e si attende di essere richiamati. Mi aveva molto colpito in questo senso un provvedimento preso in Francia nel corso della pandemia…».
Di cosa si trattava?
«Nonostante le chiusure dei luoghi pubblici, ai ballerini era consentito di continuare a frequentare le sale di danza per non perdere la forma fisica. Il concetto era appunto che si dovesse continuare ad allenarsi per esigenze di lavoro. Il nostro ordinamento di solito riempie i periodi di non lavoro con l’obbligo di formazione. È una misura passiva, quindi una visione inversa. La Francia ha invece tutto un altro sistema legislativo per la regolamentazione degli artisti…».
Cosa prevedono le leggi francesi?
«C’è una presunzione di subordinazione per il lavoro dell’artista, senza distinzioni per quanto riguarda la tipologia contrattuale. Si inquadra in tal modo per farlo rientrare nella disciplina speciale e quindi dare accesso a una indennità che faccia da ponte tra una produzione e l’altra. C’è un conteggio delle giornate che è simile alla nostra NASpI (l’indennità mensile di disoccupazione, ndr). Ma il problema è che da noi il sussidio di disoccupazione è difficilmente ottenibile dagli artisti, perché occorrono una serie di requisiti stringenti».
Cosa impedisce ai lavoratori dello spettacolo di accedere alla NASpI?
«L’accesso al sussidio e la sua durata presuppongono un quantum di tempo lavorato e un percorso di ricollocamento che faticano ad affermarsi come prassi nel settore dello spettacolo. Uno dei temi è che chi risulta disoccupato deve dichiararsi disponibile a svolgere un’attività lavorativa offerta dal centro per l’impiego. Un’attività magari al di fuori dal perimetro culturale. E poi la NASpI riguarda esclusivamente i lavoratori subordinati e non quelli autonomi».
Come mai in Francia c’è questa visione?
«È un Paese con una lunga tradizione legislativa speciale dedicata al mondo dello spettacolo, nella consapevolezza che il lavoro artistico è proprio per definizione, fisiologicamente, intermittente. Di conseguenza, si parte dal presupposto che per i lavoratori non esista continuità della prestazione. Hanno anche una grandissima tradizione sindacale, perché da sempre quello dell’artista è stato concepito – a differenza che da noi – come un lavoro a tutti gli effetti, e quindi bisognoso di tutele».
Il nodo principale, dunque, è che il lavoro artistico in Italia è pagato alla giornata?
«Esattamente. Poniamo il caso di una controfigura. Magari per una posa percepisce 2mila euro, che sommati ad altri compensi in altre produzioni possono portare a un reddito sufficiente, si dirà. Ma il punto è che deve essere pagato anche il lavoro non riconosciuto, quindi quello che c’è al di là della prestazione. Bisogna vedere se quella somma tiene traccia di tutta l’attività svolta. Pensiamo alla preparazione fisica su cui si deve esercitare la controfigura, oppure al musicista sul set, che ha a sua volta dei tempi di preparazione».
Che è poi proprio il fulcro di questo mestiere…
«Una delle risorse più preziose per le pratiche artistiche è proprio il tempo volto a formarsi, migliorare, affinare, approfondire competenze, documentare, provare… Questi tempi di formazione interagiscono con i tempi più direttamente dedicati ai progetti e sono inscindibili e costitutivi delle attività proprie dei lavoratori intermittenti. Sono la sequenza del processo creativo che porta alla rappresentazione artistica come espressione pubblica e visibile all’esterno. La questione è che nel caso dello spettacolo questi tempi sfuggono a una netta ripartizione tra occupazione e disoccupazione, rappresentando al contrario la continuità tra le due sponde».
È un problema comune a tutto il lavoro creativo?
«Sì. E si è acuito con il dilagare della parasubordinazione e della precarietà. C’è tutto un processo creativo dietro la prestazione a cui non viene dato riconoscimento e che non è retribuito. E l’errore è tutto lì perché, tornando al cinema, quando si va a vedere un film l’esito dell’opera dipende dall’apporto di tutti quelli che sono nei titoli di coda. A cui va dato un riconoscimento al pari delle star, anche per il lavoro invisibile prestato».
Per gli attori più in vista non si pone il problema…
«Di solito per lo star system esistono contratti individuali che contengono clausole per quanto riguarda la retribuzione e i bonus. Siamo su altri parametri. Non si fa riferimento alla contrattazione collettiva, che peraltro era del tutto inesistente per gli attori fino allo scorso dicembre. Proprio alla fine dello scorso anno è stato sottoscritto per la prima volta nella storia un contratto collettivo nazionale per gli attori, un po’ sulla scia di quanto successo negli Stati Uniti, dove sono esplose le proteste per l’utilizzo dell’intelligenza artificiale proprio a cavallo con la scadenza per il rinnovo del contratto collettivo».
Sono state introdotte novità importanti?
«Sì, perché sono stati inseriti criteri per l’uso dell’intelligenza artificiale e una tabella di compensi minimi. Ad esempio, la retribuzione di ciascun attore è fissata in ogni caso a 325 euro per giornata di posa, con una serie di varianti a seconda del budget della produzione e dei ruoli in cui si rientra».
E sul salario minimo?
«C’è una direttiva europea, entrata in vigore a ottobre scorso, che però non ci obbliga a una decisione in questo senso. L’Italia si caratterizza per la sua amplia disponibilità di contratti collettivi, aspetto che la direttiva tende a valorizzare perché in verità questa normativa fa riferimento a una retribuzione più complessa e più elevata. Dentro si includono infatti non solo il salario ma più voci, come per esempio i premi e gli straordinari. Bisogna capire se però risultiamo adempienti rispetto alle previsioni».
In che senso?
«Va garantita la copertura dell’80% dei lavoratori subordinati, è ciò che prevede la direttiva. Quindi bisognerà capire se è effettivamente così rispetto agli oltre 900 contratti di cui disponiamo. Il tema è complesso e non si riduce soltanto al sì o no al salario minimo. Va introdotto sicuramente un adeguamento all’inflazione e una tutela sulle retribuzioni e contro i contratti cosiddetti pirata, cioè fasulli. Questi sono punti fermi».
Cosa serve in definitiva al settore dello spettacolo in Italia?
«Un inquadramento organico dal punto di vista legislativo, che tenga conto di come il lavoro artistico sia per sua stessa natura discontinuo. Al momento c’è una legge delega sullo spettacolo, ma è ancora assente tutta la parte dei decreti attuativi. L’esempio a cui guardare è la Francia. La direzione giusta è quella della subordinazione, che non deve essere intesa come vincolo alla creatività, bensì come fonte di tutela».
Qual è la forma contrattuale migliore per un artista?
«Va superato l’attuale scenario quasi pulviscolare delle tipologie contrattuali e favorito l’impiego dei contratti a termine. In Francia ci si basa sul cosiddetto contratto d’usage, che fonda la sua ragione d’essere proprio sul carattere discontinuo del lavoro artistico. Va introdotta una disciplina conforme con le esigenze della produzione, senza che ciò si traduca in nuove forme di precariato del lavoro».
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📸 Credits: Canva
Articolo tratto dal numero del 15 luglio 2024 de il Bollettino. Abbonati!