Il 2024 volge al termine, ma le sfide da affrontare per l’industria e gli industriali italiani sono ancora molte. Dai nodi da sciogliere sullo scenario internazionale al confronto con l’Europa, dalla riduzione della pressione fiscale sulle imprese alle incognite per automotive e catene di fornitura in cambiamento.
La certezza all’orizzonte è che questi tanti punti deboli e critici non si possano più scansare, evitando di approcciarli direttamente. Al contrario, vanno gestiti e risolti. E se già questi ultimi anni non lo avessero dimostrato, è dal superamento – o meno – di queste difficoltà che dipendono prospettive e risultati dell’industria.
Ecco quali sono le principali criticità e urgenze segnate in rosso sulle agende 2025 degli imprenditori, come hanno evidenziato ad esempio in occasione della recente Assemblea generale di Assolombarda e come Confindustria sta portando sui tavoli della politica e delle istituzioni.
Tensioni e incognite sullo scenario globale
Dal punto di vista industriale, i Governi di molti Paesi avanzati – innanzitutto quelli europei – sono ormai riluttanti a mantenere dipendenze economiche rispetto a Stati ritenuti inaffidabili o rischiosi dal punto di vista geopolitico. Le contromisure si traducono sempre più spesso in politiche protezionistiche: il numero di restrizioni commerciali imposte a livello internazionale nel 2023 è triplicato rispetto a quello del 2019.
Per quanto riguarda le materie prime, l’Europa è fortemente dipendente dalle importazioni. La Commissione europea ha individuato 34 materie prime critiche, dal nichel al silicio fino alle terre rare. Oltre un terzo di questi materiali proviene dalla Cina come principale fornitore, a prezzi che i concorrenti non riescono a sostenere. È quindi necessario ridurre il fabbisogno attraverso riciclo e circolarità, ma anche diversificando le forniture e aumentando, quanto possibile, la capacità produttiva europea.
La conseguenza di tutto ciò si vede sul Mercato: le analisi di Banca d’Italia e di altre Banche Centrali indicano che molte imprese manifatturiere europee stanno sostituendo i fornitori cinesi con altri localizzati nell’Unione Europea. È quindi in atto un riposizionamento nelle supply chain dovuto non a ragioni di costo, ma geopolitiche. «Le possibili conseguenze di una futura e nuova frammentazione economica globale sono particolarmente rilevanti per l’area dell’euro, per la vastità dei suoi scambi commerciali», ha rimarcato il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, e «queste incognite si sommano al calo, in atto da tempo, del peso produttivo e demografico dell’Europa a livello internazionale».
La popolazione europea, infatti, rappresenta oggi solo il 5,7% di quella mondiale. Negli ultimi 20 anni il peso dell’UE sul PIL globale è sceso dal 26% al 18%, mentre quello degli Stati Uniti è rimasto pressoché invariato al 25% e quello della Cina è quadruplicato, arrivando al 17% del totale.
Il confronto con l’UE
Nei 5 anni dal 2019 al 2023, il PIL dell’Italia è cresciuto complessivamente del +4,6%. La Spagna ha realizzato un +3,6%. La Francia un +2,4%. La locomotiva tedesca, invece, registra solo una crescita di mezzo punto percentuale.
Allo stesso tempo, nell’area dell’euro, «l’economia italiana è quella con la minore crescita economica per abitante negli ultimi 25 anni», rileva Confindustria, «la produttività del lavoro è rimasta ferma. E l’andamento dei salari riflette il ristagno della produttività: i redditi orari dei lavoratori dipendenti sono oggi inferiori di un quarto a quelli di Francia e Germania».
In termini pro capite, il reddito reale a disposizione delle famiglie è fermo al 2000, mentre in Francia e in Germania è aumentato di oltre un quinto nello stesso periodo. Secondo Orsini e gli altri leader aziendali, «all’interno dell’Unione Europea occorre realizzare una nuova strategia industriale che superi gli ostacoli che hanno limitato la crescita negli ultimi decenni».
Il peso delle regole frena l’industria
C’è poi da considerare l’impatto sull’economia di alcune gabbie istituzionali, come la regola del voto all’unanimità nell’Ue – che frena e impedisce molte decisioni a livello comunitario – e il peso della burocrazia. Secondo gli industriali, come sottolineato anche all’ultima Assemblea di Assolombarda, «non possiamo più permetterci che l’Europa si riduca solo a uno spazio di regole, spesso troppe e ostacolanti». Per esempio? Dal 2019 a oggi, gli Stati Uniti hanno emanato circa 3.500 leggi e sono state approvate circa 2mila risoluzioni a livello federale.
Nello stesso periodo l’UE ha prodotto circa 13mila norme. «L’ambizione deve essere un’Europa pragmatica, al servizio della crescita e non della burocrazia». Basti pensare che in Italia il costo di quest’ultima sulle imprese è pari a quasi 60 miliardi di euro l’anno, ovvero più del 3% del PIL nazionale.
La spending review
È dal 2006 che in Italia si verifica un’incidenza della pressione fiscale sul PIL sistematicamente superiore a quella della media dell’Unione Europea. In questo senso, il taglio strutturale del cuneo fiscale potrebbe essere un provvedimento efficace di contrasto.
Ma gli industriali chiedono al Governo, che ha ancora davanti a sé tre anni e altrettante leggi di Bilancio, di lavorare a un doppio percorso: il primo, di spending review per quelle voci che non contribuiscono al rilancio strutturale dell’economia. E il secondo, in parallelo, di riduzione della pressione fiscale. Con l’introduzione della mini-Ires. «Purtroppo», lamentano, «a oggi il principale intervento sul reddito di impresa è stata l’abrogazione dell’agevolazione ACE, l’Aiuto alla Crescita Economica, che invece aveva aiutato le nostre aziende a patrimonializzarsi».
Industria, nodo energetico e AI
Produzione industriale e nuove tecnologie, con ai primi posti la grande onda dell’Artificial Intelligence (AI), hanno bisogno di sempre più energia per funzionare e girare a pieno ritmo. Dove trovarla? Come produrla? Questa è un’altra delle grandi sfide e incognite a cui è tassativo trovare una soluzione efficace.
Negli ultimi mesi, aziende come Amazon e Microsoft hanno annunciato la loro intenzione di utilizzare l’energia nucleare per alimentare i loro data center e i sistemi di intelligenza artificiale. Per questo, la società di Bill Gates pare voler puntare sull’Italia più di 4 miliardi di dollari. «Ciò significa che bisogna sviluppare una filiera di costruzioni, infrastrutture e permessi energetici, di autorizzazioni per i nuovi data center. Gli Stati Uniti lo stanno facendo. La priorità sono le infrastrutture e le imprese, non l’iper-regolamentazione», reclamano gli industriali italiani.
In ambito energetico, secondo molti industriali il nucleare è una fonte imprescindibile – insieme al gas naturale, alle rinnovabili, all’idrogeno – per assicurare una strategia efficace di transizione energetica. Intanto, studi di settore indicano, ad esempio, che in Italia la realizzazione di 20 impianti Small modular reactor – reattori nucleari di piccole dimensioni, progettati per essere costruiti in fabbrica, trasportati sul sito operativo e poi utilizzati per generare energia elettrica o termica – porterebbe a oltre 50 miliardi di euro di PIL aggiuntivi, attivando fino a 115mila nuovi occupati dal 2030 al 2050.
I timori dell’automotive
Un esempio evidente della rigidità decisionale che affligge l’Unione Europea è rappresentato dall’impatto di alcune scelte sull’industria dell’Auto. «Il comparto automotive suona una sveglia di concretezza per tutti in Europa», ammonisce il presidente di Assolombarda, Alessandro Spada. Che sottolinea: «pensiamo davvero di riuscire a vincere la sfida dell’elettrico davanti alla Cina?». I numeri, anche qui, sono eloquenti. Nel 2008, nel Vecchio continente si produceva il 30% del totale mondiale di veicoli, mentre in Cina il 13%. Soltanto quindici anni dopo, nel 2023 l’Europa produce il 19% dei veicoli totali. La Cina il 32%.
«In tanti, finora sempre inascoltati, abbiamo espresso scetticismo per le modalità imposte da Bruxelles rispetto alla fine del motore endotermico. Questa non è una transizione: perché sono imposti obiettivi ambiziosi, tempi non coerenti e l’uso di una sola tecnologia – l’elettrico – per cui servono materie prime e componenti che l’Europa non possiede. Facciamo un passo avanti e diciamo chiaramente una verità: la data decisiva del 2035 non potrà essere rispettata».
In tutta Europa, la transizione verso l’elettrico potrebbe mettere a rischio fino a mezzo milione di posti di lavoro. In Italia fino a 40mila in tutta la filiera entro il 2030, mentre si stima un calo di fatturato di 7 miliardi di euro per il settore della componentistica. ©
Articolo tratto dal numero dell’1 dicembre 2024 de Il Bollettino. Abbonati!
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