Il termine appare un po’ strano e oscuro: finanziarizzazione. Che cos’è? Si chiama così il processo per cui il settore finanziario assume un ruolo sempre più dominante nell’economia e nella società. Questo fenomeno è caratterizzato dall’espansione dei Mercati finanziari e dalla crescente influenza delle istituzioni finanziarie sulle decisioni economiche.
«Negli ultimi decenni, la finanziarizzazione ha portato a una maggiore dipendenza dalle attività finanziarie della produzione industriale e del commercio tradizionale. Con effetti rilevanti sul funzionamento delle imprese, sulle politiche economiche e sulla distribuzione della ricchezza», dice Luciano Balbo, Presidente del fondo Oltre Impact e autore di Prima che tutto crolli, pubblicato da Longanesi. «Con questo termine si intende non solo il crescente peso della finanza nell’attività economica, ma anche l’enorme incremento della ricchezza privata. Dovuta all’aumento del valore dei beni patrimoniali esistenti: immobili, azioni e ogni altro prodotto finanziario».
Siamo abituati a pensare che la ricchezza cresca come risultato dell’aumento dei profitti per chi possiede il capitale e dei risparmi che derivano dalle maggiori remunerazioni dei lavoratori. Ma al contrario, negli ultimi quarant’anni la crescita economica è stata relativamente modesta, mentre l’abbondante capitale ha trovato possibilità di guadagni, dirigendosi verso i beni patrimoniali esistenti e facendone salire il valore. Questo processo è stato ulteriormente alimentato da una grande disponibilità di debito, in inglese leverage, che ha affiancato il capitale di rischio negli investimenti. «Il sistema di gestione di questa ricchezza ha favorito i processi della finanziarizzazione, che quindi spesso non porta a sostenere nuove attività economiche e nuovo sviluppo. Ma a guadagnare il più possibile da attività e beni finanziari già esistenti. Comprandoli quando conviene e aspettando il momento adatto per incassare».

A cosa porta questa tendenza a investire a debito su beni patrimoniali esistenti?
«Sta permettendo di ottenere ritorni finanziari elevati in un breve periodo di tempo. L’obiettivo di questi investimenti, per esempio nel Private Equity, nel settore immobiliare, sulle commodity, o anche nella speculazione fra i differenziali di interesse dei titoli di Stato, è un ritorno di almeno il 10%, al netto dell’inflazione, su base annuale, un valore straordinariamente superiore alla crescita dell’economia».
Non c’è equilibrio e proporzione tra creazione di valore e rendimento finanziario?
«Un tale ritorno appare ragionevole se l’attività in cui si è investito ha prodotto un valore aggiunto e un’innovazione significativa, per esempio, lo sviluppo di un nuovo farmaco, o più in generale una soluzione che migliora la funzionalità e il benessere della società. Al contrario, bisognerebbe chiedersi quale sia il senso di un ritorno così elevato su operazioni puramente speculative, che non danno alcun contributo sociale. Oppure che, come nelle operazioni di Private Equity, mirano prevalentemente all’incremento dell’efficienza, spesso a scapito del lavoro. La risposta più convincente è che la ricchezza, cioè il capitale, sta godendo di una posizione di rendita nella società, pur generando poca crescita e sviluppo».
Con quali conseguenze?
«Tutto ciò non solo ha ampliato la differenza tra i detentori di ricchezza, anche non elevata, e chi ne è sprovvisto, ma ha reso molti beni patrimoniali – come le case – normalmente acquistati per uso proprio, dei beni d’investimento, e quindi meno accessibili per una parte della popolazione. Nel corso degli anni, i flussi di capitale di debito hanno raggiunto dimensioni immense. E oggi si rivolgono principalmente a beni d’investimento esistenti. Creando una bolla speculativa permanente che ha aspetti negativi sulla vita delle persone e pone un rischio sistemico all’economia».
Che lettura darebbe a questa situazione?
«Le cause dello sconvolgimento attuale vanno viste nella loro interezza, cioè anche come una crisi dell’intero sistema finanziario mondiale, che si basa sugli eccessi dei valori finanziari rispetto alla consistenza e al valore d’uso dei beni reali. Questa dicotomia genera una ricchezza apparente che va solo a vantaggio di una parte della popolazione, ma mette a rischio l’intero sistema economico. Ecco perché occorre intervenire e fare qualcosa di diverso, come dice il titolo del libro, prima che tutto crolli».

Come possiamo utilizzare la grande ricchezza creata nel tempo, non per generarne semplicemente altra, ma per produrre un reale benessere collettivo?
«Bisogna ad esempio limitare l’uso del capitale come posizione di rendita, sfruttando i beni patrimoniali esistenti: ciò renderà questi beni più accessibili proprio a chi possiede di meno, e riorienterà sia la vis imprenditoriale, sia l’ineliminabile avidità verso la creazione di qualcosa di nuovo e – si spera – utile. Inoltre, questo intervento avrà l’effetto diretto di redistribuire anche i redditi. È tempo che la redistribuzione torni al centro dell’attenzione, dopo che per decenni è stata lasciata nelle mani del Mercato e cancellata dall’agenda politica».
Nel libro La strada per la libertà, il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha scritto che serve un cambiamento che riduca l’«incentivo» a essere egoisti, avidi e a guardare solo il breve termine
«Esattamente. Si tratta di fare proprio questo. Interventi che aumentino gli aiuti pubblici ai ceti sociali più bassi certamente possono essere utili, ma non cambiano il modello che sta producendo i problemi che abbiamo di fronte; una de-finanziarizzazione, almeno parziale, avrebbe una fortissima e positiva influenza nel creare un cambio strutturale nella giusta direzione proposta da Stiglitz».
Servono incentivi, come dice il premio Nobel?
«La parola incentivo non è usata a caso. C’è una crescente discussione sul fatto che viviamo in una società sempre più narcisista, avida, egoista e sola. Ma non è la natura umana a essere cambiata rispetto al passato, semplicemente sono stati creati strumenti e sistemi che aumentano la possibilità e le opportunità di far emergere questi comportamenti. Chi denuncia questa situazione tende a chiedere una maggiore educazione e cultura per combattere simili derive. Ma non è la cura giusta».

Perché?
«La nostra società, e in particolare quella capitalista, funziona con le opportunità e gli incentivi. Sono i sistemi operativi, i rapporti economici, le leggi e le tecnologie che determinano le strutture sociali e i comportamenti. La cultura ci deve servire per insegnare e spiegare tutto questo e per renderci più consapevoli che tutti dobbiamo discutere e decidere quali incentivi dare oppure ridurre. Il percorso è lungo e servono persone, intellettuali e politici – compresi molti di coloro che criticano il quadro di riferimento attuale – capaci di superare i sistemi in cui ci ritroviamo ingabbiati».
Poi, come si potrebbe procedere?
«Ridurre le posizioni di rendita è la strada da seguire per ridare al sistema capitalista la sua spinta positiva per l’intera società e non solo per i detentori del capitale. Il capitalismo talvolta è cambiato, liberandosi di regole statali forse eccessivamente rigide, come è successo alla fine degli anni Ottanta. Nel momento attuale, però, si rende necessario che le nuove regole vengano imposte dall’esterno, proprio dall’autorità degli Stati. Come del resto era già avvenuto, per esempio, durante il periodo del New Deal».
Quali altre strade si possono percorrere per ridurre la finanziarizzazione?
«Bisogna porre sotto controllo il debito, che è il suo strumento principe, cioè limitarne l’uso nell’acquisizione di beni patrimoniali esistenti. Una prima mossa potrebbe essere impedire la deducibilità fiscale degli interessi su questi finanziamenti. Senza questa deduzione, infatti, il costo del debito diventa più alto e rende i ritorni finanziari inferiori e gli investimenti più rischiosi. L’analisi storica dell’economia mostra che un debito più costoso riduce il ricorso alla leva finanziaria».
Con quali eccezioni?
«Da queste limitazioni dovrebbero essere esclusi i finanziamenti alle aziende per la gestione del business o per l’acquisto della prima casa da parte di privati. L’effetto della misura indicata sarebbe quello di ridurre la domanda di investimento in beni patrimoniali esistenti, con effetti estremamente positivi. Il primo sarebbe, inevitabilmente, un riaggiustamento dei valori dei beni patrimoniali che smetterebbero di crescere, anzi diminuirebbero, riducendo le bolle speculative e rendendo tali beni, soprattutto quelli immobiliari, più accessibili».
Quali sono i passi successivi di questo percorso?
«Alle nuove condizioni, poi, molti degli attuali investimenti speculativi darebbero un ritorno inferiore e quindi in futuro ne verrebbero fatti di meno. Ma soprattutto si abbasserebbe l’aspettativa generale di guadagni facili in tempi veloci. Ciò avrebbe l’effetto di spingere l’eccesso di capitali esistenti verso investimenti produttivi, anche accettando ritorni più bassi. Inoltre, attenuerebbe l’ossessione che pervade il Mondo da alcuni decenni…».

Qual è questa ossessione?
«La crescita di valore dei beni patrimoniali. Essendoci meno transazioni di acquisto e vendita di aziende e immobili, infatti, la gestione delle attività potrebbe orientarsi verso l’innovazione e il lungo periodo. Questo genererebbe una minore pressione sulla continua riduzione dei costi, in particolare quello del lavoro, generando quindi un effetto redistributivo, di cui abbiamo tanto bisogno. Affrontare l’origine dell’attuale distorsione aiuterebbe di fatto a risolvere molti problemi che stiamo cercando di affrontare da anni, senza approdare a risultati apprezzabili».
C’è una possibilità che questi obiettivi possano entrare nell’agenda politica globale nei prossimi anni?
«Vale la pena notare che la non deducibilità della tassazione non è una proposta del tutto nuova. Ad esempio, un economista americano, Alan Auerbach, consulente di Trump nella sua prima amministrazione, l’aveva proposta nel 2017, nel quadro di un riordino del sistema generale di tassazione per favorire gli investimenti produttivi e ridurre quelli speculativi. Ciò indica che questa ipotesi potrebbe trovare un sostegno ampio, se portata avanti con pazienza e impegno». ©️
Intervista tratta dal numero del 1° luglio 2025 de Il Bollettino. Abbonati!
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