Di fronte al cambiamento climatico, non è più possibile fare finta di niente. Ai negazionisti del clima – così vengono definiti – Luca D’Agnese, responsabile della direzione Policy, valutazione e advisory di Cassa Depositi e Prestiti (CDP), dedica una larga parte del libro Le grandi ipocrisie sul clima (Solferino edizioni), di cui è autore insieme a Roger Abravanel, Direttore emerito di McKinsey. Sarebbero quelli, scrivono, «che pensano che il problema del clima l’abbia inventato Bill Gates, in combutta con i cinesi per venderci pannelli solari e auto a batteria». La realtà è invece un’altra. E cioè che il surriscaldamento globale esiste «e lo dimostrano le evidenze scientifiche». L’idea del libro è «offrire qualche spunto su quali politiche potrebbero farci progredire più velocemente, senza buttare il bambino dell’innovazione con l’acqua sporca dell’anticapitalismo».

Partiamo dai costi della transizione
«Le stime più accreditate ipotizzano cifre tra l’1,5 e il 4% del PIL mondiale come spesa necessaria al raggiungimento di un livello di emissioni nette pari a zero, attorno al 2050 o giù di lì. Sono cifre enormi, tra l’1,5 e i 4 trilioni di dollari l’anno a valori 2023, anche perché dovrebbero essere sostenute nel tempo».
Ma ci sarebbero altrettanti costi da sostenere anche se proseguissimo nell’immobilismo
«Esattamente. Studi economici stimano tra l’1,5% e il 3% del PIL mondiale le spese derivanti da un incremento delle temperature di 2,5 gradi rispetto all’era preindustriale. Sia agendo che non, pagheremmo comunque dei costi rilevanti».

Nel libro parla anche di come un aumento della temperatura globale di 2,5 gradi sia solo il migliore degli auspici. E che potrebbe andare molto peggio
«Si, potrebbe sforare anche a 5 gradi in più. Quelli che dicono che i più 2,5 gradi ci costerebbero un triliardo e mezzo di dollari, ovvero l’1,5% del PIL mondiale, ritengono che 5 gradi di incremento delle temperature ci costerebbero tra i 5 e 6 triliardi di dollari».
Si stanno sottovalutando i rischi collegati a una questione di portata epocale?
«Credo che possa sfuggire quali siano i risvolti tangibili che il problema ha su tutti i piani, da quello economico al sociale. Prendiamo gli Stati Uniti, dalla Florida alla California. Qui le principali compagnie assicurative hanno già smesso di assicurare gli edifici di intere regioni considerate a rischio di esondazioni e incendi».

Qual è il risultato?
«Le stime le ha date il Wall Street Journal. Oltre trent’anni fa vennero stimati in 35 miliardi di dollari i danni provocati dall’uragano Andrew. Se oggi ne arrivasse a Miami uno simile, ammonterebbero da 100 a 200 miliardi di dollari, anche perché sono aumentati i valori immobiliari. Senza assicurazione o con l’esplosione dei premi si crea un grandissimo problema per il settore immobiliare americano: non si potranno contrarre mutui né vendere case, e il Mercato ci perderà enormemente».
Non finisce qui, perché il cambiamento climatico produce effetti anche sul piano sociale
«Uno dei maggiori esempi è la guerra civile in Siria del 2011. Quel conflitto ha portato milioni di rifugiati in Europa, provocando immani sconvolgimenti sociali ed economici. Per gli esperti è stata la conseguenza di una terribile siccità iniziata nel 2007 nel Nord del Paese e durata due anni. Tre quarti dei contadini persero il raccolto e Damasco non poté fare nulla per aiutarli. Così, centinaia di migliaia di persone si riversarono nelle grandi città, creando fortissime tensioni esplose, appunto, nel 2011 con la Primavera araba prima, e con la guerra civile poi, costata la vita a mezzo milione di persone».

La tesi che elabora nel libro è che sostanzialmente non si stia centrando l’obiettivo. E che di mezzo ci sia molta ipocrisia
«Ne individuiamo su almeno quattro fronti. La prima è quella dei nuovi negazionisti del clima, dove includiamo quelli che trovano mille ragioni per rinviare le iniziative concrete necessarie. Pensano a rimandare le soluzioni a quando costeranno meno».
Chi viene dopo?
«La politica, che pur dichiarandosi sensibile al problema spera di risolverlo senza impegnare soldi pubblici. In questo, alleandosi con altri grandi ipocriti nel Mondo della finanza».

E poi?
«Le imprese. Quelle che investono nella sostenibilità quel tanto che basta a non finire in fondo alle classifiche ESG (Environmental, Social e Governance, ndr), e che pensano che con un po’ di burocrazia si possano ripulire la coscienza. Ma si tratta solo di uno spreco di denaro a danno dei propri azionisti. Talvolta, poi, perdono la faccia accusate di Green e Socialwashing».
A proposito di Greenwashing, non accenna a diminuire
«Abbonda, perché nella maggioranza dei casi non si riesce a misurare l’impatto della riduzione della CO2 delle aziende. Spesso non si conosce neanche il livello di partenza delle emissioni, il cosiddetto Carbon footprint. Solo le aziende più grandi sanno la quantità di CO2 che emettono. La realtà è che le banche che indicano quanto i loro finanziamenti alle imprese riducano effettivamente la CO2 sono pochissime. La maggioranza finanzia non progetti specifici di decarbonizzazione, ma imprese considerate virtuose in base a criteri ESG totalmente soggettivi».

Nel libro si fa riferimento anche a qualche “trucchetto” per essere dichiarati virtuosi
«Sì, c’è un altro sofisticato tipo di Greenwashing adottato dalle banche. Visto che i punteggi ESG si riferiscono alle emissioni delle aziende finanziate, il modo migliore per rientrare nella cerchia dei migliori diventa finanziare settori come il farmaceutico, che emette poca CO2 e comunque ha un ruolo sociale. Ma questa scelta non finanzia la riduzione delle emissioni».
Succede anche in altri campi?
«Potrei fare un esempio di Socialwashing. Avviene quando le imprese riconoscono un problema sociale o ambientale nel quale sono coinvolte, ma poi ne attribuiscono la colpa ad altri per tenere l’attenzione lontana dalle proprie magagne. Un esempio è Coca-Cola: ha lanciato un’iniziativa cosiddetta Science based per dire che l’obesità è tutta colpa della mancanza di esercizio fisico».
Quali altri ipocrisie si riscontrano?
«Quella di accademici e presunti guru del management o consulenti, che sostengono di voler reinventare il capitalismo per renderlo sensibile ai problemi del Pianeta e della società. Portando avanti idee pericolose per un’economia di Mercato, come il fatto che il valore economico per gli azionisti debba essere messo in secondo piano, o che le imprese debbano dimostrare un impegno sociale che dà loro diritto di esistere».
Nel libro si fa riferimento al «triangolo della sostenibilità». Un sistema che – se messo in atto – potrebbe essere una chiave per la soluzione alla questione climatica. In cosa consiste?
«Nel triangolo ci sono tre vertici: le imprese che innovano e sviluppano nuovi prodotti; gli Stati che forniscono incentivi e mettono fuori legge le attività più inquinanti; e la società civile, che include la comunità scientifica, gli attivisti, i consumatori e gli elettori, che in ultima analisi dettano le politiche degli Stati. La possibilità di vincere una sfida che è globale nasce proprio dall’interazione tra i tre elementi».
Lo sforzo, in sostanza, deve essere da parte di tutti. Chi sta andando nella giusta direzione?
«Il settore industriale che ha più subito i cambiamenti imposti dalla crisi climatica è la produzione di energia elettrica. È il responsabile di circa il 40% delle emissioni di CO2 nel Mondo, ma negli ultimi anni c’è stato un massiccio spostamento degli investimenti verso tecnologie meno inquinanti. In Europa e negli Stati Uniti, quelli in centrali a carbone si sono praticamente azzerati».
Anche i trasporti si stanno adeguando?
«Il settore è impegnato in un enorme processo di trasformazione. Anche questo, da solo, è responsabile del 25% delle emissioni. Il segmento principale è il trasporto automobilistico e la speranza più concreta di abbattere le emissioni in tempi ragionevoli passa dalle auto elettriche a batteria. La previsione più ottimistica è che mentre si realizzerà la transizione nel parco auto di tutto il Mondo, la produzione di energia elettrica sarà diventata in gran parte rinnovabile».
Quello degli investimenti pubblici è un tema centrale. La politica non può girarsi dall’altra parte
«Sì, lo dico per esempio e soprattutto sul tema delle auto elettriche. Qui potremmo affermare che è un po’ come il cane che si morde la coda. Non ci sono abbastanza colonnine elettriche perché le auto scarseggiano, e viceversa. Un problema che andrebbe risolto con un intervento pubblico, un po’ come avvenuto con la rete elettrica, che ha fatto arrivare a tutti il collegamento a casa. In fase iniziale, c’è bisogno di costruire le infrastrutture, altrimenti i cittadini non hanno accesso all’innovazione».
Il futuro quindi è dell’elettrico, anche per le auto
«Secondo un rapporto Reuters del 2022, i 37 principali produttori automobilistici mondiali stanno pianificando investimenti nei veicoli elettrici per 1.200 miliardi di dollari dal 2023 al 2030. Una previsione raddoppiata rispetto a quanto previsto solo un anno prima. Per le auto elettriche siamo solo all’inizio. Sono ancora troppo care per penetrare i segmenti di massa».
Anche qui c’è un tema di costi
«Al centro ci sono gli innovatori nelle batterie. La ricerca dovrà renderle meno pesanti, di maggiore capacità di accumulo e soprattutto meno care. In quindici anni il costo è diminuito dell’80%, ma si può fare ancora molto. Oggi in Italia una ricarica veloce costa 0,74 euro al kWh contro gli 0,2 della Cina, e il pieno di elettricità di una 500 elettrica ammonta a 30 euro. Il risultato è che il costo al chilometro dell’elettricità è più o meno uguale a quello della benzina. Solo 5 dei 54 centesimi di differenza con la Cina sono dovuti al maggiore costo dell’energia. Il resto è riconducibile agli oneri parafiscali, come gli incentivi alle rinnovabili, e soprattutto al margine di chi possiede le colonnine e deve ripagare il suo investimento».
Però prima o poi si arriverà al traguardo di una diffusione massiccia di auto elettriche?
«Siamo ottimisti. L’auto elettrica si trova a uno stadio evolutivo simile a quello delle rinnovabili di una decina di anni fa». ©
📸 Credits: Canva
Articolo tratto dal numero del 1 novembre de il Bollettino. Abbonati!
