La Cina guadagna sempre più terreno nelle relazioni economiche con l’Europa. «Il nostro futuro sarà nel fare affari con i cinesi» sostiene Marc Faber, investitore di fama mondiale, autore del Gloom, Boom and Doom Report e direttore di Marc Faber Ltd. «Nella maggior parte dei media occidentali esiste una narrazione secondo cui il Paese asiatico è identificato sempre e comunque come un nemico, ma questa è solo una menzogna». Lo scenario economico globale post-pandemico sta cominciando a delinearsi e, come forse era prevedibile, sembra sarà il gigante del dragone a uscirne meglio di tutti, con una crescita del PIL che, nel primo trimestre 2021, ha raggiunto praticamente il 19%, accompagnata da un boom nelle esportazioni, in rialzo del 30%. Ciononostante, nel mezzo delle tensioni crescenti tra i governi americano e cinese, il premier Mario Draghi ha di recente annunciato una revisione degli accordi commerciali siglati dall’esecutivo precedente con gli omologhi asiatici nel quadro della Nuova via della seta, e il clima generale non sembra spingere esattamente verso una collaborazione.
Quindi investire in Cina è una mossa vincente in questo momento…
«Sì, a patto che lo si faccia con la giusta mentalità. Se stabilisci un’attività in Cina, devi tenere presente che sei in un Paese autoritario e di conseguenza devi rispettare alcune regole specifiche in più. Ciononostante, credo che il futuro dell’Europa sia il commercio con i Paesi asiatici, compresi Pakistan, India, Bangladesh e Indonesia: ciascuno di questi ha una popolazione di almeno 200 milioni di persone. Il mercato per i prodotti italiani è in questi Paesi, dove la classe media è in espansione. In America, solo i più ricchi crescono e lì la classe media si sta contraendo sempre di più».
I cinesi sostengono che «i giorni in cui un piccolo gruppo di Paesi decideva il destino del mondo sono passati»: i membri del G7 sono davvero così irrilevanti per loro?
«Credo che per ciò che riguarda il commercio mondiale e i rapporti di pace, le relazioni tra Cina, G7 e USA siano ancora importanti. Detto questo, se si guarda al presente e si paragonano i rapporti di forza di oggi con quelli di poco più di un secolo fa, è impressionante. Sarebbe impensabile adesso, per un Paese europeo o per gli stessi Stati Uniti, di imporre condizioni in Asia come nel secolo scorso, se non altro per un fattore di potenza militare. Il problema è che gli occidentali non sembrano realizzare che hanno la loro sfera d’influenza, proprio come la Cina ha la sua, ma non possono più fare ciò che vogliono. In questo contesto, dichiarazioni ostili come quelle fatte nello scorso G7 non fanno che accrescere il senso di minaccia che i cinesi già provano nei confronti degli americani, per via della loro ampia presenza militare nel Pacifico.
È possibile che il governo cinese possa dare il via libera a un’investigazione indipendente sul Wuhan Institute of Virology?
«Per come la vedo io, gli Stati Uniti scavalcano costantemente risoluzioni ONU approvate da loro stessi, e spesso e volentieri ignorano l’autorità della Corte di giustizia internazionale dell’Aia, eppure non lascerebbero mai che una “inchiesta indipendente” accedesse ai loro laboratori. Quello che ormai sappiamo praticamente per certo è che il virus è uscito dai centri di Wuhan, ma fino ancora a pochi mesi fa la CDC (Centers for Disease Control and prevention) e Fauci sostenevano che venisse da un mercato della carne e chiunque avesse accennato a quest’altra ipotesi sarebbe stato considerato un cospirazionista. C’è stata una vera e propria catena di disinformazione generata e diffusa dalle istituzioni americane. E anche ora, ammettendo che il virus sia uscito da quei laboratori, come si fa a sapere che non sia uscito per caso? E se è stato portato fuori intenzionalmente, allora chi ci dice che siano stati i cinesi a farlo e non, per esempio, alcuni dei medici americani che lavoravano lì? Queste sono domande per cui non abbiamo ancora risposte adeguate e rinunciare a trovarle accusando ciecamente la Cina per tutto, come ha fatto l’ex Presidente Donald Trump e sta in parte facendo ora l’attuale Joe Biden, è estremamente ottuso».
La crisi corrente sta rafforzando la Cina dal punto di vista economico, specialmente in rapporto all’Occidente?
«Sì, ma la cosa si inquadra in un processo più ampio. Quello avviato nel 1968 con l’apertura delle prime aree del Paese da parte di Deng Xiaoping, completata poi negli anni ’90. Da allora, la crescita è stata rapidissima. In termini di quota dell’economia globale, la Cina è diventata molto importante: è oggi il primo Paese al mondo in termini di produzione industriale. E quello che importa quando un’economia raggiunge questo stadio è il modo in cui alloca le sue risorse, un punto a mio parere non adeguatamente dibattuto nella letteratura economica americana, dal momento che le loro politiche sono basate sullo stimolo al consumo, laddove invece secondo la teoria economica di stampo austriaco la crescita deriva dalla spesa in capitale. Proprio su questa si sono focalizzate le politiche cinesi negli ultimi anni e, grazie a ciò, si stanno facendo miglioramenti significativi in ambito infrastrutturale, un contesto in cui l’Europa, ma soprattutto l’America, sembra invece regredire. Mi viene da dire che, come scenario, si sta tornando a quello che esisteva prima del quindicesimo secolo e dello sviluppo dell’Europa, quando ancora Cina e India messe insieme costituivano il 60% dell’economia totale del pianeta. Ci sono momenti storici in cui si assiste a un impero in ascesa e un altro in declino. Il periodo che stiamo vivendo sembra essere uno di questi».
La Cina è già il principale partner commerciale di molti Paesi dell’estremo oriente…
«A Oriente la Cina lo è di praticamente tutti gli stati, ma va precisato che la sua influenza va oltre, e si estende ad altri Paesi in via di sviluppo, per esempio in Africa e Sudamerica: le sue esportazioni verso queste aree sono maggiori di quelle di Europa e Stati Uniti combinate. I cinesi comprano da loro le materie prime e in cambio costruiscono infrastrutture e si tratta di un accordo molto profittevole per entrambe le parti. Chiaramente non lo fanno per puro altruismo, ma per il loro beneficio, d’altronde non accettare e capire questo significherebbe rifiutare le basi del capitalismo».
© Marco Battistone