venerdì, 29 Marzo 2024

EMERGENZA IDROGEOLOGICA: CAMBIAMENTO CLIMATICO, BULIMIA EDILIZIA E GESTI DOLOSI METTONO SEMPRE PIÙ ALLA PROVA IL NOSTRO TERRITORIO

Italia è un Paese fragile. Dal 1970 al 2019 frane, erosione del suolo e alluvioni, in una parola, dissesto idrogeologico, hanno provocato 1673 morti, 60 dispersi, 1923 feriti e 320mila evacuati. Fenomeni che sono connessi alla morfologia e al cambiamento climatico, ma sono influenzati anche da alcuni fenomeni di urbanizzazione senza regole. 

«Il governo italiano, nel PNRR ha previsto che il 37% delle risorse siano dedicate ad azioni per il clima, l’adattamento ai cambiamenti e alla biodiversità Ma dei quasi 60 miliardi di euro assegnati al capitolo di spesa sulla transizione ecologica, poco più di 15 sono dedicati alla tutela del territorio e della risorsa idrica (dal contrasto ai fenomeni di dissesto idrogeologico alla salvaguardia della biodiversità e ripristino degli ecosistemi, nonché alla protezione e tutela della risorsa idrica)», dice Alessio Capriolo, economista ambientale Responsabile Area “Valutazioni economiche, contabilità e sostenibilità ambientale, percezione e gestione sociale rischi ambientali” di ISPRA. «Per la sola forestazione urbana, il governo italiano ha stanziato circa 30 milioni del decreto clima, che si aggiungono ai 300 milioni del PNRR destinati allo stesso scopo, per un totale di 6 milioni di nuovi alberi che cambieranno il volto delle città italiane».

Si poteva osare di più?

«Certamente sì, se pensiamo all’importanza e all’urgenza di pianificare una grande “opera pubblica” di ripristino dei nostri ambienti terrestri e marini, che costituiscono la base fondamentale del benessere e della salute di noi tutti. Tuttavia 200 miliardi di euro, sebbene possano sembrare tanti, rappresentano comunque una dotazione di risorse finanziarie limitate e di conseguenza il loro utilizzo risponde a priorità che legittimamente devono essere indicate da chi ha responsabilità di governo in questo Paese». 

Ma torniamo al tema del dissesto idrogeologico: gran parte della penisola è interessata da fenomeni franosi e/o alluvionali che causano impatti sulla popolazione, sulle infrastrutture di comunicazione e sul tessuto economico e produttivo.

«Questo succede perché il territorio nazionale per le sue caratteristiche morfologiche, litologiche e idrografi che è naturalmente predisposto a frane e alluvioni», spiega il Dott. Geol. Alessandro Trigila Responsabile Segreteria tecnica Progetto IFFI (Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia) di ISPRA. «Sulla base dei dati contenuti nel nostro Rapporto 2018 sul dissesto idrogeologico (è prevista una nuova edizione del rapporto per l’autunno 2021), il 91,1% dei comuni italiani sono a rischio per frane e/o alluvioni. Sono quasi 7,5 milioni gli abitanti a rischio frane e alluvioni (esposti al rischio di danni alla persona: morti, dispersi, feriti, evacuati): dei quali 1,3 milioni vivono in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata, perimetrate nei Piani di Assetto Idrogeologico, e 6,2 milioni in aree classificate a pericolosità idraulica media con un tempo di ritorno fra 100 e 200 anni. Campania, Toscana, EmiliaRomagna e Liguria hanno i valori più elevati di popolazione a rischio frane; Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria sono le regioni con più abitanti a rischio alluvioni. Le industrie e i servizi ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono quasi 83.000, mentre sono 596.254 quelle esposte al pericolo di inondazione nello scenario medio (12,4% del totale). I Beni Culturali a rischio frana sono 11.712; quelli a rischio alluvioni sono 31.137». 

Ma non è solo un problema di morfologia

Il consumo di suolo “selvaggio” fa la sua parte? «Il forte incremento delle aree urbanizzate, a partire dal secondo dopoguerra, spesso in assenza di una corretta pianificazione territoriale, ha portato a un considerevole aumento degli elementi esposti e quindi del rischio. L’Italia è il Paese europeo maggiormente interessato da fenomeni franosi, con oltre 620.000 frane che rappresentano circa i 2/3 delle frane censite in Europa. E ogni anno sono qualche migliaio quelle che si innescano sul territorio nazionale e qualche centinaio quelle che causano vittime, feriti, evacuati e danni a edifici, beni culturali e infrastrutture lineari di comunicazione primarie). Quali sono le principali cause del dissesto idrogeologico del nostro Paese? 

«Sul verificarsi dei fenomeni franosi influiscono, come cause predisponenti, la conformazione morfologica. Come fattori più importanti per l’innesco sono, invece, le precipitazioni brevi e intense per le frane superficiali, le precipitazioni persistenti per fenomeni franosi profondi e di grandi dimensioni e i terremoti. Negli ultimi decenni i fattori antropici, quali tagli stradali, scavi, sovraccarichi, hanno assunto un ruolo sempre più determinante tra le cause predisponenti delle frane. Relativamente alle alluvioni, nei corsi d’acqua di pianura le precipitazioni di durata prolungata possono determinare la formazione di portate di deflusso superiori alle capacità degli alvei, che in assenza di zone di naturale laminazione o espansione delle acque di piena, causano l’esondazione dei fiumi con conseguente allagamento di vaste aree di territorio. In presenza di arginature, il rischio idraulico è legato a possibili fenomeni di sormonto delle opere di difesa o di rottura delle arginature stesse per erosione o sifonamento. Nei bacini idrografi ci di piccole dimensioni, sono gli eventi convettivi intensi, di breve durata e localizzati nello spazio che possono portare in poche ore allo sviluppo di fenomeni di piena. Nei corsi d’acqua a carattere torrentizio, gli intensi fenomeni di trasporto solido possono causare l’erosione delle sponde e dell’alveo e il sovralluvionamento con l’esondazione del torrente nella porzione di valle del bacino». 

Qual è il principale pericolo a cui siamo esposti? «Il 28% delle frane in Italia sono fenomeni a cinematismo rapido, quali crolli e colate rapide di fango e detrito, caratterizzati da velocità elevate, fi no ad alcuni metri al secondo, e da un’elevata distruttività, spesso con gravi conseguenze in termini di perdita di vite umane e ingenti danni alle infrastrutture. Altre tipologie di movimento (come colate lente, frane complesse), sono invece caratterizzate da velocità moderate o irrisorie e non costituiscono un pericolo per la vita umana, tuttavia possono determinare danni anche importanti a centri abitati e a infrastrutture di comunicazione». 

Quali sono le risposte fondamentali che bisognerebbe dare e quali gli strumenti per farlo? «La strategia per la mitigazione del rischio idrogeologico deve mettere in campo una serie di azioni sinergiche, tra cui un’approfondita conoscenza del territorio mediante l’aggiornamento dei dati e delle mappe di pericolosità, una corretta pianificazione territoriale con l’applicazione di vincoli e regolamentazioni d’uso (Piani di Assetto Idrogeologico – PAI e Piani di Gestione del Rischio Alluvioni – PGRA), gli interventi strutturali, le delocalizzazioni, le reti di monitoraggio strumentale e i sistemi di allertamento (es. Centro Monitoraggio Geologico di Sondrio – ARPA Lombardia), la pianificazione di emergenza, la manutenzione del territorio e le buone pratiche in campo agricolo e forestale, la comunicazione e diffusione delle informazioni». 

Relativamente agli interventi di mitigazione del rischio, l’ISPRA gestisce il Repertorio Nazionale degli interventi per la Difesa del Suolo – ReNDiS per il monitoraggio dell’attuazione degli interventi e per la gestione delle istruttorie di richiesta dei nuovi finanziamenti da parte delle Regioni… «La sezione Monitoraggio contiene 6.063 interventi contro il dissesto idrogeologico finanziati dal 1999 a oggi attraverso una serie di Piani e Programmi, per un importo complessivo di 6,59 miliardi di euro con un valore medio annuo di poco superiore ai 300 milioni. La sezione Istruttorie include 7.811 schede progettuali di richiesta di finanziamento, per un importo complessivo pari a 26,58 miliardi. Rappresenta un utile indicatore del fabbisogno per la difesa del suolo sull’intero territorio nazionale da attuarsi attraverso piani pluriennali di finanziamento. 

L’ISPRA pubblica dati e mappe sul dissesto idrogeologico sulla piattaforma nazionale IdroGEO… «Sì, è un moderno sistema open source e open data progettato con l’obiettivo di essere facilmente utilizzabile, di fornire un’informazione chiara e completa, consentire la condivisione, la creazione di report e il download dei dati ed essere accessibile con i diversi tipi di dispositivo, quali smartphone, tablet e desktop. Dal lancio della Piattaforma a maggio 2020 gli utenti complessivi sono stati quasi 30.000. La piattaforma IdroGEO risponde all’obiettivo di trasparenza della PA e di coinvolgimento delle comunità, contribuendo a far aumentare la consapevolezza dei cittadini sui rischi che interessano il proprio territorio e a prendere decisioni informate su dove acquistare la propria casa o ubicare nuove attività produttive». 

Ispra ha presentato il Rapporto SNPA “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2021”. In che stato è il nostro territorio? «La copertura artificiale del territorio è ormai arrivata a estendersi per oltre 21.000 km2, il 7,11% del totale (era il 7,02% nel 2015 e il 6,76% nel 2006), rispetto alla media UE del 4,2%. La crescita è continuata anche nel 2020 quando, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, il consumo di suolo in Italia ha sfiorato i 60 chilometri quadrati», spiega Michele Munafò Responsabile Servizio per il sistema informativo nazionale ambientale di ISPRA.

«Nell’ultimo anno, i dati rilevati da ISPRA e dal Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale (SNPA) stimano che nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali siano aumentati di circa 15 ettari ogni giorno. Un incremento in linea con quello rilevato nel recente passato che fa perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo. Una crescita delle superfi ci artifi ciali solo in minima parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari quest’anno a 5 km quadrati, dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state classificate in precedenza come “consumo di suolo reversibile”).

Dove si sono registrati gli incrementi maggiori? «Nel 2020 si è registrato in Lombardia, con 765 ettari in più, seguita da Veneto (+682 ettari), Puglia (+493), Piemonte (+439) e Lazio (+431). Tuttavia, considerando i valori del consumo di suolo annuo pro capite, Molise e Abruzzo sono le regioni che presentano valori più alti, più del doppio del dato nazionale (0,87 metri quadrati/ab). In generale, i cambiamenti rilevati nell’ultimo anno si concentrano in alcune aree del Paese, in particolare nelle pianure del Nord, nelle aree metropolitane di Roma, Milano, Napoli, Bari e Bologna e nelle zone urbane e periurbane dei principali poli e dei comuni di cintura, in particolare dove i valori immobiliari sono più elevati e a scapito, principalmente, di suoli precedentemente agricoli e a vegetazione erbacea, anche in ambito urbano. Gradi elevati di trasformazione permangono lungo quasi tutta la costa adriatica e lungo le coste siciliane e della Puglia meridionale». 

Quali sono le criticità e le minacce maggiori?  «Le superfici artificiali sono molto estese anche nelle aree a pericolosità idraulica, dove la percentuale supera il 9% per quelle a pericolosità media e il 6% per quelle a pericolosità elevata. Il confronto tra i dati 2019 e 2020 mostra che 767 ettari del consumo di suolo annuale si sono concentrati all’interno delle aree a pericolosità idraulica media e 285 in quelle a pericolosità da frana. Le coste italiane, già molto compromesse a causa delle aree artificiali che coprono direttamente intorno al 20% della loro estensione, hanno registrato altri 224 ettari di suolo perso negli ultimi dodici mesi». 

E il consumo di suolo non risparmia neanche le aree naturali presenti all’interno delle nostre città… «Circa la metà delle trasformazioni registrate nell’ultimo anno avviene, infatti, all’interno di tessuti urbani esistenti con la densificazione e la saturazione dei preziosi spazi verdi rimasti all’interno delle aree urbane, che sono essenziali per la qualità della vita dei cittadini, dell’ambiente e del paesaggio, oltre a essere fondamentali per il corretto deflusso delle acque meteoriche, per la mitigazione del rischio idrogeologico, per l’adattamento ai cambiamenti climatici, per la riduzione dell’isola di calore, per il mantenimento della biodiversità e, a volte, anche per la produzione agricola. Solo nelle aree urbane più densamente costruite, in un solo anno, abbiamo perso in media 27 metri quadrati per ogni ettaro di area verde. Le cause principali sono da cercare nella costruzione di nuovi edifici, fabbricati, infrastrutture e altre coperture che impermeabilizzano il suolo con cemento e asfalto (quasi mille ettari realizzati nel 2020 su suoli naturali), oltre ai cantieri  avviati nell’ultimo anno, che hanno sfiorato i 4.000 ettari». 

Queste criticità sono peggiorate o ne sono emerse nuove? «I valori sono in linea con quelli registrati nel recente passato, ma il paesaggio rurale viene alterato anche dalla realizzazione di alcuni fenomeni che si stanno via via intensificando, come quello legato allo sviluppo di poli logistici che, invece di riutilizzare gli abbondanti spazi inutilizzati e già edificati, porta a un elevato consumo di suolo. Il trend è in crescita (quasi mille ettari impermeabilizzati negli ultimi 8 anni solo per la logistica) anche per assicurare la disponibilità continua di enormi quantità di merci destinate all’e-commerce, che devono essere stoccate e posizionate in luoghi strategici ben collegati alle principali direttrici di trasporto». 

Anche la realizzazione degli impianti di energia da fonti rinnovabili sta portando a un incremento delle superfici artificiali… «Solo per il fotovoltaico a terra, tra le misure previste all’interno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e gli obiettivi del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che probabilmente saranno, tra l’altro, rivisti al rialzo, si stima una perdita compresa tra i 200 e i 400 km quadrati di aree agricole entro il 2030, a cui aggiungere, secondo Enel, altri 365 km quadrati destinati a nuovi impianti eolici. Superfici così estese che impatteranno negativamente su diversi servizi ecosistemici del suolo e che lasceranno un’impronta indelebile e significativa sul paesaggio per gli anni futuri. Eppure una buona parte dei tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati, rappresentano esempi evidenti di come sarebbe facilmente coniugabile la produzione di energia da fonti rinnovabili con la tutela del suolo e del paesaggio. Solo considerando i tetti degli edifici, ad esempio, abbiamo stimato che quelli dove sarebbe possibile installare pannelli siano compresi tra i 700 e i 900 km quadrati». 

La legge nazionale tanto richiesta sul consumo di suolo che affermi i principi fondamentali di riuso, rigenerazione urbana e limitazione del consumo dello stesso potrebbe essere la chiave di volta? «La Commissione europea è da anni impegnata sul tema dell’uso sostenibile del territorio e a fine 2020, quattordici anni dopo la prima proposta di Strategia tematica, ha lanciato la nuova Strategia dell’UE per la protezione del suolo, ribadendo che la salute del suolo è essenziale per conseguire gli obiettivi in materia di clima e di biodiversità del Green Deal europeo. L’obiettivo dell’azzeramento del consumo di suolo, fissato al più tardi al 2050, era già stato proposto dalla Commissione Europea e poi approvato dal Parlamento europeo nel 2013. In Italia, non essendoci una specifica normativa nazionale di riferimento, non esistono obiettivi sul tema e mancano un indirizzo e un quadro di riferimento omogeneo per le norme di livello regionale e per la necessaria revisione degli strumenti urbanistici. L’Italia è comunque tenuta a rispettare gli obiettivi comunitari e quelli previsti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che prevedono entro il 2030 l’allineamento del consumo alla variazione demografica e il bilancio non negativo del degrado del territorio. Ma per raggiungere questi obiettivi abbiamo necessità di effettuare un significativo cambio di rotta che non può che partire dall’approvazione di una legge nazionale che arrivi rapidamente ad azzerare il consumo di suolo come premessa per garantire una ripresa sostenibile dei nostri territori attraverso la promozione del capitale naturale e del paesaggio, la riqualificazione e la rigenerazione urbana e l’edilizia di qualità, oltre al riuso delle aree contaminate o dismesse». 

La tutela del patrimonio ambientale, del paesaggio e il riconoscimento del valore del capitale naturale sono temi a cui richiama l’Europa. L’Italia come risponde? «I rapporti di sintesi sullo stato della biodiversità e del capitale naturale in Italia prodotti nel 2020 e 2021, e i risultati ottenuti rispetto all’attuazione concreta della Strategia nazionale per la Biodiversità relativa all’ultimo decennio, restituiscono un quadro preoccupante, segnalando il mancato raggiungimento di parte dei target indicati dalle strategie e direttive comunitarie, a partire dal raggiungimento dello stato di conservazione soddisfacente per gli habitat e le specie di interesse comunitario», dice ancora Alessio Capriolo, economista ambientale Responsabile Area  “Valutazioni economiche, contabilità e sostenibilità ambientale, percezione e gestione sociale rischi ambientali” di ISPRA. 

«Nel Quarto Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia (il Comitato per il Capitale Naturale in Italia opera ai sensi della legge 221/2015, articolo 67) si evidenzia come su 85 tipologie di ecosistemi italiani, ben 29 risultino ad alto rischio, e sono per lo più quelli legati agli ambienti umidi, alla fascia costiera e alle pianure interessate da agricoltura e zootecnia intensiva. Le praterie d’alta quota sono particolarmente minacciate dal riscaldamento climatico e dall’avanzare del limite degli alberi. Le zone umide sono minacciate dall’uso non sostenibile delle risorse idriche, dall’interruzione dei corsi d’acqua causato dalle dighe, dall’impermeabilizzazione ed erosione del suolo. Le foreste, sebbene aumentate in estensione, non si trovano sempre in buone condizioni ecologiche, e sono spesso colpite da incendi, tempeste ed epidemie. Per quanto riguarda poi gli ecosistemi marini e costieri, i principali fattori di minaccia sono legati all’impermeabilizzazione del suolo, al turismo non sostenibile, all’inquinamento da plastica e al depauperamento delle risorse ittiche: durante il secolo scorso il 30% delle praterie sottomarine è andato perso». 

E per quanto riguarda poi i servizi ecosistemici che sono alla base della nostra prosperità economica e del nostro benessere, visto che producono importanti ed essenziali benefici per l’essere umano? «Nel Quarto Rapporto sullo Stato del Capitale Naturale in Italia ne sono stati analizzati 12 (fornitura di biomassa legnosa, agricola, ittica, disponibilità idrica, impollinazione, regolazione del rischio di allagamento, protezione dall’erosione, regolazione del regime idrologico, purificazione delle acque da parte dei suoli, qualità degli habitat, sequestro e stoccaggio di carbonio, turismo ricreativo) mettendo in evidenza la loro variazione fra il 2012 e il 2018. Le stime indicano, a distanza di sei anni, diminuzioni nel flusso di molti dei servizi ecosistemici analizzati, con ripercussioni negative sui valori economici da essi dipendenti. Anche nei casi in cui si è rilevato un apparente aumento di risorse naturali, l’interpretazione dei dati richiede cautela e ulteriori approfondimenti per valutare l’effettiva sostenibilità dei servizi ottenuti. Ad esempio, l’aumento nella fornitura di biomassa ittica non include dati sulla sostenibilità della pratica di pesca, così come l’approvvigionamento di biomassa agricola non tiene conto dell’uso massivo di sostanze chimiche in agricoltura; allo stesso modo, i benefici economici derivanti dal turismo non danno informazioni sulla sostenibilità delle attività ricreative». 

Per il raggiungimento dei target strategici nazionali ed europei che cosa serve? «È urgente e inderogabile la definizione di azioni più incisive, integrate, valutabili ed efficaci per invertire la rotta nel prossimo decennio e la nuova Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030 si pone proprio in quest’ottica, attraverso l’elaborazione di un piano ambizioso di protezione e ripristino della natura. L’8° nuovo Programma d’azione ambientale 2021- 2030 UE presentato dalla Commissione, riafferma questa visione, conferma la sua complementarità all’European Green Deal e tra i sei obiettivi tematici principali da raggiungere indica quello di “proteggere, preservare e ripristinare la biodiversità e rafforzare il capitale naturale – in particolare l’aria, l’acqua, il suolo e le foreste, le acque dolci, le zone umide e gli ecosistemi marini». 

Cosa succederà nei prossimi dieci anni? «Saranno cruciali per avviare concretamente il nostro mondo sulla strada della sostenibilità, rispettando quanto dichiarato e sottoscritto nel 2015 da tutti i Paesi del mondo con l’Agenda 2030 e i suoi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. In questo contesto si inseriscono la nuova Strategia Europea per la Biodiversità 2030 e la relativa attuazione italiana, la Strategia Nazionale per la Biodiversità 2030, che delineano azioni incisive per far sì che la perdita di biodiversità nel prossimo decennio venga invertita attraverso un piano ambizioso per la protezione e il ripristino della natura».

Tutti i nostri modelli sono sbagliati? «Questa pandemia è una chiara manifestazione del nostro rapporto fortemente malato con la natura ed evidenzia ancora di più la profonda interconnessione tra la salute umana e quella dei sistemi naturali. Realizzare una svolta dei nostri modelli di sviluppo verso la sostenibilità costituisce un impegno epocale. È perciò urgente e necessario un radicale cambiamento culturale e sistemico che sino a oggi la nostra civiltà non è riuscita ad attuare: una transizione verso una società e un sistema economico imperniati sull’importanza centrale della natura per il futuro di tutta l’umanità (One Planet – One Health), per creare una società più giusta, sana e prospera, garantendo contestualmente la nostra stessa sopravvivenza».