venerdì, 19 Aprile 2024

PER LA PARITÀ DI GENERE BISOGNA INVESTIRE SUL WELFARE E LA FAMIGLIA

Per la parità di genere bisogna investire sul welfare e la famiglia. Una leadership femminile forte permette alle imprese di funzionare e di guadagnare molto di più. Purtroppo però, nonostante gli impegni formali assunti dalle Nazioni Unite e dalla Commissione Europea per attenuare gli squilibri di genere, il percorso che dovrebbe portare alla parità di genere nel mercato del lavoro, nel mondo dell’economia e in quello della politica sembra ancora piuttosto tortuoso e progredisce a un ritmo decisamente lento. «Purtroppo siamo lontanissimi non soltanto dagli obiettivi europei del 2010, che miravano al raggiungimento del 60% dell’occupazione femminile, ma anche di quelli del 2020, che prospettavano un tetto ancora più alto, pari al 75%», spiega Paola Profeta, professore ordinario di Scienza delle Finanze all’università Bocconi, direttrice di Axa Research Lab on Gender Equality e autrice del libro Parità di genere e politiche pubbliche. Misurare il progresso in Europa. «L’occupazione femminile in Italia è sotto il 50%, un dato a dir poco sconfortante». Per la parità di genere bisogna investire sul welfare e la famiglia.

Argomento che tratta nel suo un libro dedicato alla parità di genere e alle politiche pubbliche…

«Sì. Volevo analizzare la situazione dei gender gap nei Paesi europei mettendo in evidenza quello che ancora manca per raggiungere l’uguaglianza di genere. Sappiamo che nessun Paese al mondo ha ancora raggiunto le pari opportunità tra uomini e donne, in particolare nel mercato del lavoro e nel contesto della leadership. Il tema è ovviamente sempre più attuale  perché è inserito tra gli obiettivi dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite ed è all’ordine del giorno in tutti i dibattiti economici e politici».

Parlando del tasso di occupazione femminile in Europa, i dati italiani sono a dir poco drammatici

«Lo sono perché l’Italia purtroppo è da tanti anni tra gli ultimi Paesi e purtroppo non si intravede una via d’uscita. Noi siamo sempre al di sotto del 50% di tasso d’occupazione femminile, che vuol dire che meno di una donna su due lavora. Se restringiamo il punto di osservazione al Sud  poi precipita addirittura al 33%, livelli che sono lontanissimi dalle medie europee che sono tutte sopra il 60%. Chiaramente l’analisi delle cause e dei fattori è stata fatta e ci sono proprio dei ritardi ormai consolidati che dipendono da una serie di equilibri sbagliati che si sono creati e che, ormai, sono difficili da scardinare. Sono interessati un po’ tutti gli attori presenti sulla scena economica e il ruolo sociale di uomini e donne continua purtroppo a essere abbastanza marcato».

Si iniziano a intravedere degli spiragli per migliorare la situazione?

«Negli ultimi anni c’è stato un aumento del tasso di partecipazione delle donne all’istruzione e alle discipline universitarie, arrivando talvolta addirittura a scavalcare gli uomini. Si evidenzia un cambiamento abbastanza accelerato che però poi trova molti ostacoli nel mondo del lavoro, dove ancora predomina l’idea dell’uomo lavoratore e della donna che si deve occupare di tutto il resto. Questo è un retaggio culturale  che nasce nelle coppie e nelle famiglie quando si trovano a dover avere a che fare con l’organizzazione domestica. Purtroppo la politica italiana non ha mai investito abbastanza per liberare le donne da questo peso».

Come si potrebbe risolvere il problema?

«È molto chiaro che i processi non si risolvono da soli e non è con il passare del tempo che li vedremo migliorare se non ci saranno degli interventi mirati in questa direzione, massicci, volti a dare possibilità concrete alle donne nel mercato del lavoro. Questo non può accadere spontaneamente, solo perché le ragazze studiano di più e conseguentemente hanno possibilità in più. Sarebbe necessario ripensare il sistema di welfare che è sempre stato incentrato sull’idea che c’è un capofamiglia e gli altri componenti del nucleo familiare possono lavorare o meno. Per la parità di genere bisogna investire sul welfare e la famiglia ».

Com’è cambiata la situazione con l’avvento della pandemia?

«La pandemia chiaramente è un problema da non sottovalutare perché sappiamo che ha aumentato le disuguaglianze in generale, tra classi di reddito, regioni geografiche e purtroppo anche tra generi. Si è innescata su delle disuguaglianze preesistenti portandole alla luce. Si è parlato di recessione al femminile, di shecession, dovuta al Covid-19. Quando ci sono delle crisi, non soltanto sanitarie, i soggetti più vulnerabili sono quelli più colpiti e le donne ovviamente sono tra questi. In questo specifico caso poi, rispetto alla crisi finanziaria del 2007-2008, che aveva colpito dei mercati e dei settori fortemente maschili, ha toccato duramente il settore dei servizi, dove trovano occupazione la maggior parte delle donne. E poi la pandemia ha aggravato ancora di più il tema del lavoro domestico, visto che i figli erano costretti a casa a causa della chiusura delle scuole, e sono aumentati gli anziani di cui doversi prendere cura. Il rischio di fare dei passi indietro in una situazione che già era di grande ritardo purtroppo esistono ma per fortuna in questo momento abbiamo delle risorse da investire. A differenza del passato dove i vincoli di finanza pubblica erano molto stringenti e non c’era da investire mai niente, adesso grazie alla spesa pubblica un po’ di possibilità ci sono. Sta a noi cogliere l’occasione di ripensare al meglio il sistema di welfare attuale».

Il PNRR può rappresentare un valido aiuto?

«Deve esserlo perché ci sono le possibilità concrete di sistemare il tema della parità di genere in maniera trasversale su tutto il piano. Sul fronte asili invece direi che l’investimento è abbastanza limitato, per cui si sarebbe dovuto fare uno sforzo in più».

Che cosa consigliare alle donne per conciliare al meglio la vita familiare con quella professionale?

«Bisognerebbe abbandonare la logica della conciliazione per passare a una della condivisione. In una coppia non deve necessariamente essere la donna a occuparsi di tutto quanto ma è bene condividere le varie mansioni con il proprio partner. I due ruoli, maschile e femminili, vanno ribilanciati all’interno del nucleo familiare. Questo deve essere il punto di partenza per poi proiettare lo stesso discorso nel mondo dell’impresa. In molte aziende uomini e donne, anche se non esplicitamente, spesso vengono trattati in maniera diversa, come se i primi fossero più importanti delle seconde. Le aziende dovrebbero intraprendere un percorso di consapevolezza. Grazie alla certificazione di genere dovranno tener conto, in modo trasparente, di cosa fanno con gli  uomini e con le donne, della loro forza lavoro e della progressione di carriera. Sarà richiesto per legge per cui tutte le imprese dovranno farlo». 

La maternità continua a essere un elemento penalizzante per una donna nel mercato del lavoro?

«Lo è molto e, infatti, si parla di child penalty perché con la nascita di un figlio molte donne perdono in termini di carriera e, quindi, di guadagni futuri. In Italia abbiamo anche il problema del tasso di fecondità molto basso, che registra tra 1,2 e 1,3 figli per donna, un dato tra i minori in Europa. Per le famiglie mono reddito spesso è difficile scegliere di mettere al mondo un secondo bambino perché non sempre si ha la garanzia di potergli assicurare un futuro. Alcuni Paesi, come la Francia invece, hanno messo in campo importanti politiche che riguardano gli asili, i congedi e gli sgravi fiscali, che hanno portato a un aumento dell’occupazione femminile».

Che cosa si può fare concretamente anche in Italia?

«Va monitorata costantemente l’occupazione delle donne nei diversi settori e aree delle Paese, investendo in politiche familiari. I congedi di paternità per esempio sono molto importanti perché permetterebbero a una coppia di alternarsi nella cura dei bambini nei loro primi mesi di vita, permettendo a entrambi di non abbandonare il proprio posto di lavoro. Asili efficienti e misure fiscali studiate ad hoc poi potrebbero aiutare le donne a entrare nel mondo del lavoro, perché è proprio il loro ingresso il problema più grande. Le imprese infine dovrebbero smetterla di vedere le donne come portatrici di ostacoli, considerando come un problema la loro possibile maternità».                                     ©