giovedì, 25 Aprile 2024

Polonia: perché Varsavia è in prima linea contro la Russia

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La Polonia è uno dei Paesi che ha preso una delle posizioni più anti-russe rispetto alla guerra. Dallo scoppio del conflitto ucraino, Varsavia si è espressa sempre con dichiarazioni dai toni interventisti. Ma per comprendere verso dove si muove questo Paese rispetto al conflitto, è necessario fare attenzione alle sfumature del doppio registro europeo e americano adottato. «Certamente, all’interno dell’Europa in senso ampio il Regno Unito e la Polonia sono i due Paesi che esprimono una posizione spiccatamente anti-russa. Ma le ragioni sono diversissime» spiega Dominique David, consigliere del Presidente dell’IFRI (Institut Français de Relations Internationales).

«Il Regno Unito determina la sua posizione in seguito alla politica estera americana. Rispetto alla questione russa, in particolare, da ormai 20-30 anni questa postura è divenuta via via più esplicita, probabilmente a valle della Brexit, come fattore di distinzione rispetto ai Paesi continentali più accomodanti rispetto all’Orso e le ragioni sono esplicitamente storiche. Come non ricordare le complicate relazioni con la Russia dall’800 ad oggi passando per il secondo dopo-guerra all’interno del Patto di Varsavia. La Polonia è al confine con il Paese invaso, l’Ucraina, e pertanto è più disponibile a rischiare per il contenimento del conflitto, eppure si vede bene che ogni sua proposta che potrebbe causare un aumento dell’intensità dello scontro (il trasferimento dei suoi MIG29 o la “missione di pace” della NATO) vengono bloccate dagli Stati Uniti, che nonostante la retorica hanno da subito chiarito che non interverrebbero mai direttamente nel conflitto. La posizione polacca è comprensibile storicamente, geograficamente e culturalmente, il partito al potere (Pis) certo però amplifica quella che è la percezione generale polacca, che si vede nel mirino dell’armata russa».

E per quanto riguarda la disponibilità polacca di ampliare sul suo suolo la deterrenza nucleare sul fronte orientale, è qualcosa che potrebbe realisticamente accadere?

«Su questo punto occorre fare una differenza tra le armi convenzionali e strategiche. La presenza di basi americane o NATO e l’incremento di soldati e armi convenzionali nei Paesi di confine – dai Baltici fino ai Balcani in Romania e Bulgaria – come in effetti si sta facendo in questo periodo, ha un valore anzitutto simbolico. A oggi vi è un solo battaglione americano pari a 1500 unità in Polonia, che verrà sicuramente aumentato. Ma tale presenza è più per segnalare – in questo caso a Putin – che l’eventuale attacco in tali Paesi sarebbe equivalente a un attacco anche agli Stati Uniti o ad altri membri dell’alleanza atlantica. E in tale caso, va detto che le capacità della NATO sono schiaccianti rispetto alla sola armata russa. Per quanto riguarda invece le armi strategiche uno spostamento a est della deterrenza nucleare non ha alcun vantaggio pratico. Anzi, equivarrebbe ancora una volta soltanto ad aumentare le tensioni, poiché la loro funzione di deterrenza la svolgono in ogni caso, dove attualmente si trovano. Invece, nella remota ipotesi che Putin stesso commettesse l’errore di far avanzare verso il confine ucraino le proprie armi nucleari, allora ciò potrebbe comportare un aumento delle armi strategiche nei Paesi di confine».

Questa posizione non rischia di creare complicazioni all’interno del fronte europeo e occidentale?

«È curioso come la stessa paranoia storica della Polonia agisca anche in Italia, cioè che alcuni sostengono che Putin ambisca seriamente a ristabilire l’impero russo fino a Varsavia e i Paesi baltici. Si può pensare quello che si vuole. Ma va ricordato che gli americani sono estremamente prudenti. Come si è detto, nonostante la retorica marziale e le accuse di genocidio e crimini di guerra, gli Usa hanno dichiarato sin da subito che non sarebbero intervenuti. Dirlo così è stato sicuramente un errore, ma certo non pensarlo. Al contempo, un aumento della deterrenza in Europa, comporterebbe una reazione speculare russa. Non mi stupisce che la Polonia lo proponga, ma ciò non significa che accada. Al contempo, non bisogna neanche partire dal presupposto che Putin sia un folle e che decida da solo. Benché i decisori russi abbiano fatto dei grandi errori, così come dopotutto li hanno fatti americani e francesi, la decisione sulla questione ucraina è stata razionale. L’intelligence su cui si basava però era errata.  Al di là della retorica della denazificazione, l’obiettivo razionale dell’operazione russa – la cui razionalità non ne comporta la giustificazione – era di cambiare il regime di Kiev, annettendo possibilmente una parte del suo territorio e segnatamente creare una connessione territoriale tra la Crimea e il Donbass. La retorica dell’operazione speciale, con cui Putin presenta la guerra in Ucraina all’opinione pubblica russa, segnala anche il fatto che si tratta di un’operazione intesa localmente, che non mira a intervenire in Occidente. Dopotutto, i bombardamenti a ovest di Kiev sono stati molto rari, salvo il raid sulla base di Yavoriv a 20 chilometri dalla Polonia. La Russia ha mostrato nella retorica e nelle operazioni militari un freno rispetto all’Occidente: a partire dall’ovest ucraino, che avrebbe potuto essere tranquillamente oggetto di maggiori bombardamenti – se l’intenzione russa era quello di uno sfondamento a ovest – ma soprattutto avrebbe potuto intercettare direttamente l’invio di armi in Ucraina andando a sabotare le linee marittime o terrestri del loro trasporto o i centri di stoccaggio, la cui ubicazione i russi certamente conoscono. La Russia non si è mai spinta a tanto, conscia del rischio di un possibile intervento diretto della NATO, al contempo i membri dell’alleanza atlantica non dichiarano esplicitamente l’ingente trasferimento di armi in modo da non aumentare la retorica della guerra. Insomma, la formula “operazione militare speciale” è un segnale nel linguaggio di Putin all’Occidente: “Io non vi sto facendo la guerra”».

Eppure la Polonia così lo percepisce e, quindi, come si iscrive la questione energetica nella strategia complessiva di Varsavia?

«Anzitutto, è da considerare che la Polonia si è sempre schierata contro il progetto di aumento del flusso del gas russo dai gasdotti Nord Stream, che aggirano l’Ucraina privandola degli introiti, diventando l’espressione di una relazione diretta tra Berlino e Mosca. C’è inoltre molta affinità tra la Polonia e l’ovest ucraino da considerare. Inoltre, la Polonia è da tempo che si sta smarcando dalla sua dipendenza energetica russa, come dimostra il fatto che negli ultimi dieci anni circa (2010-2020) le importazioni dalla Russia sono diminuite del 39,6%, mentre sono aumentate significativamente quelle da Cina (131%), Stati Uniti (71,85%) e Germania (43%). Quindi la posizione geoeconomica della Polonia si situa al contempo a livello europeo e globale. La Three Seas Initiative (TSI) ne è il sintomo, siglata non a caso a valle dell’inizio della questione ucraina (2014) nel 2016. Si tratta di un progetto al cui cuore vi sono gli interessi polacchi, che diventano l’espressione dell’esportazione del gnl americano in Europa. Il TSI non è ancora un progetto istituzionalizzato, ma gode dell’adesione di tutti i Paesi dell’est Europa dalla Latvia passando dalla Polonia fino alla Croazia collegando appunto i tre mari Baltico, Nero e Adriatico e di cui l’Ucraina è tra i sostenitori. Come prova un documento di ricerca del Congresso americano, esso gode dell’attenzione bipartisan dell’amministrazione americana che ne stimola i progetti infrastrutturali (gasdotti, ferrovie, porti…), poiché coerenti con i propri interessi nel mercato energetico europeo a discapito del gas russo. Benché il costo del gnl americano sia più elevato rispetto al gas russo, le infrastrutture necessarie si realizzano anche tramite i capitali americani: va ricordato quanto la questione energetica si leghi con la politica di sicurezza polacca. Infatti, le strette relazioni strategiche tra Varsavia e Washington includono, oltre al flusso di energia, il rifornimento di armamenti, nonché lo sviluppo del nucleare civile e la garanzia della NATO (cioè americana) in funzione anti-russa. Dopotutto, la Polonia percepisce la propria sicurezza proporzionalmente alla presenza americana. Gli europei e i francesi in particolare non sarebbero d’accordo con la percezione degli Stati Uniti come l’unico garante di sicurezza, eppure va ricordato che prima della Seconda guerra mondiale i garanti dell’integrità territoriale polacca erano i Paesi dell’Europa occidentale. Infatti, la Francia entrò in guerra dopo l’invasione tedesca della Polonia, ma non ha fatto nulla militarmente. Pertanto, è comprensibile lo scetticismo polacco nei confronti delle garanzie proposte dagli europei».

Ma questo scetticismo non si riflette anche nelle tensioni polacche, in generale del gruppo di Visegrád con Bruxelles? Come interagiscono le tensioni tra Varsavia e Bruxelles con l’attuale posizione delicata della Polonia rispetto alla questione ucraina?

«In realtà l’unità del gruppo di Visegrád è sempre stata e rimane un fatto decorativo, il gruppo è da sempre molto diviso al suo interno. La crisi ucraina non ha fatto che acuirne le fratture come si vede con l’opposizione spettacolare tra Varsavia e Budapest, dove Orbán ha pure impedito il transito nel suo Paese di armi verso l’Ucraina. C’è da ricordare che all’interno di tale quartetto (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca), i membri più piccoli percepiscono male il peso preponderante di Varsavia. In questo contesto, Budapest si trova al contempo agli anti-podi rispetto a Varsavia (nel quadro di Visegrád), ma anche alla posizione europea, che la rende quindi isolata da ogni alleanza. Mentre la Polonia è uno dei Paesi che ha maggiormente beneficiato dell’adesione all’Ue, grazie agli ingenti crediti erogati che hanno permesso lo sviluppo della propria economia, contesta i valori su cui si è costruita l’Ue sia sotto un profilo interno sia esterno. La Polonia si ispira a una concezione di democrazia plebiscitaria, in cui la sovranità appartiene interamente al popolo e che nulla può opporsi alla sua volontà espressa attraverso le elezioni o i referendum. Tale posizione sembra innocua e legittima, tuttavia la democrazia occidentale, a differenza delle sfumature polacca e ungherese, si è sempre costruita attraverso un sistema di checks and balances, di un equilibrio istituzionale dei poteri per evitarne appunto possibili derive. Se il “popolo” decide una cosa attraverso un referendum, non implica necessariamente che ciò sia democratico. Ed è tale idea plebiscitaria che è alle origini della decostruzione dell’indipendenza della magistratura in Polonia. La maggioranza giustifica in quest’ottica l’espressione di un potere assoluto. Inoltre, vi è la questione della preminenza della giurisprudenza europea, qualora essa esista, anche su questo punto, sempre per il principio della democrazia plebiscitaria, la Polonia ha espresso resistenza ad applicare la preminenza del diritto europeo nelle sue corti, in modo molto più esplicito che le rimostranze espresse a suo tempo dalla corte di Karlsruhe».

Per chiarire i due fronti di contestazione dei valori dell’Ue, si può dire che da un lato c’è la questione interna dello stato di diritto e dall’altra una questione dell’adesione alle regole europee? In un certo senso, la postura polacca nell’ambito della crisi ucraina può funzionare a ovviare tale contenzioso con Bruxelles?

«Sì e infatti c’è da chiedersi fino a quale punto sia possibile coabitare all’interno dell’Ue con delle democrazie plebiscitarie. Ciò dovrebbe far riflettere fino a che punto la questione ucraina sia una semplice questione di democrazia contro autocrazia. Le istanze europee proprio per queste ragioni hanno deciso di bloccare alcuni finanziamenti in favore della Polonia e segnatamente quelli relativi al rilancio post-Covid, finché essa non applichi alcuni principi della giurisprudenza europea ritenuti la soglia minima dello stato di diritto. In effetti, vi è una questione che pochi vogliono porsi in questo momento: la postura polacca nei confronti della crisi ucraina, soprattutto riguardo l’accoglienza rispetto ai profughi e l’impegno logistico per il transito delle armi, farà dimenticare il blocco ai finanziamenti immaginato prima dell’invasione russa? Le istanze ufficiali europee dicono di no. Tre settimane fa all’IFRI, il commissario della giustizia europeo Renders ha dichiarato chiaramente che il contenzioso con la Polonia sullo stato di diritto è un’altra questione e quindi quelle decisioni resteranno in vigore. In verità, tale dossier verrà risolto politicamente e non abbiamo al momento elementi per saperne di più».

In effetti, la convinzione dell’ambasciatrice polacca a Roma lascia in questo senso ben intendere che a valle della crisi ucraina la Polonia troverà “una linea d’intesa con Bruxelles”. Tuttavia, occorre chiedersi in che misura la postura anti-russa polacca e britannica non è in fondo l’espressione funzionale dell’ipotesi di parte dell’establishment americano di fare dell’Ucraina un altro “Afghanistan” per dissanguare lentamente, ma definitivamente la Russia». In questo contesto, quali potrebbero essere le alternative europee al rischio che questa sia la strategia americana dietro alla sua prudenza?

«Il carattere per ora locale della guerra ucraina non consente di pensare che essa possa trasformarsi immediatamente in una guerra globale. Un’altra questione è se vi possa essere nel tempo una tale degradazione della situazione da implicare una scalabilità del conflitto a livello regionale, quindi europeo, se non addirittura globale attirando direttamente gli Stati Uniti. È evidente che la Russia disturba gli interessi americani in Europa, quindi l’ipotesi del lento sanguinamento dell’orso russo producendo una specie di “Afghanistan” nel cuore orientale dell’Europa pone effettivamente un problema verosimile. Non dico che sia la verità, ma tale posizione americana sembra credibile per liquidare una volta per tutte la Russia e non distrarsi dalla sfida geopolitica principale che è la Cina nell’indo-pacifico. E lo spettro di un’afghanizzazione dell’Ucraina potrebbe essere certamente la transizione ad una scalabilità del conflitto. Tuttavia, non si profila ad oggi alcuna posizione alternativa europea che potrebbe effettivamente arginare questa deriva pur sempre possibile. È triste dirlo, ma non esiste una posizione europea. L’Ue è estremamente fiera della sua politica sanzionatoria, di avere inviato Ursula von der Leyen in visita in Ucraina, ma non vi è una posizione europea in primo luogo perché gli europei non sono d’accordo tra di loro; in secondo luogo, perché non vi è mai stata una posizione europea autonoma rispetto agli Stati Uniti. Potrebbe esserci, ma attualmente non si è ancora prodotta. Invece, ci si è sempre distinti diplomaticamente sulla scena internazionale da almeno 20 anni dimostrando la capacità di seguire la posizione americana ritardandone semplicemente l’applicazione (il caso dell’Iran, della Russia…); in terzo luogo, perché Putin dopotutto non coopererà alla costruzione di una tale posizione, poiché vede nell’Europa solo l’intermediario per il suo unico interlocutore, cioè il presidente degli Stati Uniti, in questo caso Joe Biden. Non intende per ora dialogare con gli europei, semmai fa giocare l’Europa a suo favore nei confronti della Casa Bianca». 

Chi sono le grandi vittime di questo conflitto?

«La politica sanzionatoria non aiuta di certo né lo sviluppo economico, né lo stimolo di processi democratici all’interno della Russia. Tuttavia, gli stessi europei sono vittime delle proprie sanzioni, per tacere degli impatti negativi nel sud del mondo e segnatamente l’Africa, in cui vi è già lo spettro di una crisi alimentare. Dopotutto, i soli a non avere ripercussioni sono gli Stati Uniti. Ciononostante, è necessario difendere l’Ucraina, altrimenti il senso stesso della costruzione europea si vanificherebbe, ma al momento l’alternativa europea non esiste e difficilmente potrà emergere nel breve-medio periodo. Pertanto, nel breve termine non vi sarà certamente un ritorno al business as usual, anche se tra qualche mese dovesse concludersi la guerra in Ucraina. Invece, vi sarà un raffreddamento diplomatico, una specie di inter-regno, come per mettere distanza dal trauma, per poi necessariamente ritornare a discutere con la Russia, che non può essere rimossa come attore geopolitico nell’est europeo. Al di là degli interessi americani, la stabilità in Europa potrà soltanto derivare da un Concerto delle Nazioni europee includendo la Russia.

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(Milano, 1991) dottorando all'EHESS di Parigi, dopo avere studiato filosofia a Padova, Londra e Berlino. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla storia del pensiero politico ed economico all'estetica e la psicanalisi. Dal 2017-2021 è stato corrispondente freelance da Berlino e Parigi per Business Insider Italia.