Per essere compliant non basta rigare dritto. «Si avverte su vari profili la tendenza a un approccio che affida al soggetto sorvegliato compiti di self-regulation», dice Marco Ventoruzzo, Presidente di ASSOSIM, Associazione Intermediari Mercati Finanziari, già direttore del Dipartimento di Studi Giuridici dell’Università Bocconi. A febbraio Consob ha ritirato le precedenti comunicazioni di marzo 2009 e dicembre 2014 su prodotti illiquidi e complessi. Ciò che ne deriva è sempre più discrezionalità, ma più responsabilità, per gli intermediari. «In generale è un approccio positivo, perché porta a fare alcuni passi indietro. In particolare rispetto al desiderio di regolare tutto in modo puntuale ex ante, che si traduce in costi di compliance molto alti per tutti». Insomma, un contesto che si fa sempre più delicato, soprattutto ora che gli operatori sono chiamati a prendere in considerazione i parametri ESG. Infatti, con le ultime comunicazioni dell’ESMA (European Securities and Markets Authority) le preferenze di sostenibilità del cliente sono incluse nella valutazione di appropriatezza.
Nel questionario di adeguatezza sono incluse le preferenze di sostenibilità del cliente. Come si può valorizzare e armonizzare al meglio queste preferenze in un portafoglio?
«È molto difficile. Lo è sia capire cosa intende il cliente sia tradurlo in linee operative precise, in un settore nuovo e in evoluzione. Il tema stesso della profilazione e dei questionari oscilla tra un approccio formalistico e un’interpretazione sostanzialistica, che ha più senso ma è difficile da applicare. In fatto di sostenibilità, data la novità della materia e il fatto che gli standard sono in corso di evoluzione, siamo a maggior ragione su un terreno ancora da costruire. In ogni caso, è un tema delicato, soprattutto perché oggi la compliance con gli indicatori ESG determina livelli di rischio più o meno elevati. Insomma, questi temi nati come “soft” e legati al sociale vengono a mordere sempre più nel concreto. In questo senso, il questionario rappresenta chiaramente un’opportunità commerciale. Permette agli operatori di fornire ai clienti i prodotti più adatti a loro, ma ha un costo di compliance non trascurabile».
Bisogna adattare la formazione di chi si occupa di consulenza?
«La formazione è fondamentale, a tutti i livelli. Devo dire che, in media, dal punto di vista delle regole e da quello della professionalità degli operatori l’Italia non è messa affatto male. Certo, il tema dell’ESG e dell’investimento Green resta una prateria abbastanza inesplorata: sulla misurazione effettiva, sulla certificazione delle caratteristiche di determinati investimenti ci sono ancora dubbi. Nella misura in cui l’attività di investimento è sempre più sensibile a questo elemento di rischio, a questa preferenza dei clienti, esiste un tema di formazione per capire di cosa si parla. C’è però anche un tema molto importante di educazione finanziaria degli investitori che non si può trascurare. Al momento si sta sviluppando una sorta di dicotomia. Da una parte troviamo i grandi investitori istituzionali, dall’altra assistiamo a un risveglio dell’operatore individuale, per il quale la formazione e un limite al livello di rischio è molto importante».
A fronte di un crescente utilizzo delle risorse tecnologiche e del cambiamento del rapporto con il cliente, si può continuare a garantire la massima trasparenza?
«La tecnologia è per molti aspetti neutrale. Non è aprioristicamente incompatibile con certi livelli di trasparenza, ma pone sul piano dei fatti delle sfide diverse, cambia il modo di interagire. Può essere semmai un elemento di maggiore trasparenza e può facilitare la messa a punto di un’informazione più puntuale sulle esigenze dell’investitore. Però bisogna lavorare perché sia così».
Quali sono gli aspetti del framework normativo in campo finanziario più bisognosi di una revisione?
«In sintesi, negli ultimi anni c’è stata un po’ una “alluvione normativa”, legata a vari fattori. Da un lato questa disciplina a più livelli, europei e nazionali, è stata un fattore di modernizzazione e di un’utile armonizzazione, ma indubbiamente anche di grandi complicazioni. A questo si aggiunge il fatto che la disciplina dei mercati finanziari è spesso una specie di albero di Natale cui si appendono di volta in volta delle decorazioni. E questo, che è un fenomeno per molti aspetti fisiologico, viene fuori anche da una semplice osservazione dei testi rilevanti in materia finanziaria e del loro disordine. Insomma, c’è una disciplina molto articolata, talvolta anche frammentata e non sempre coerente. Un fattore che produce la necessità di una semplificazione non sempre facile, in primis per il bisogno di coordinamento con le autorità europee».
La complicazione normativa crea un gap rilevante con l’estero?
«In parte sì. La giurisprudenza in tema finanziario è spesso frammentaria, con orientamenti a volte contraddittori. Nello specifico, ci sono una serie di aspetti relativi alle operazioni di mercato come quotazioni, IPO o aumenti di capitale, in cui il nostro sistema non è particolarmente competitivo. Ora, la tutela dell’investitore è una priorità e un primario interesse dell’industria, però i segnali che ci arrivano dal settore indicano un’insofferenza verso questa ipercomplicazione. Si pensi ad esempio allo spostamento di società quotate in Olanda, ma soprattutto al fatto che i prospetti vengono fatti sempre più all’estero. Significa che c’è uno spazio di arbitraggio regolamentare, per cui gli operatori preferiscono interagire con autorità e sistemi stranieri. E questo è uno solo dei tanti esempi di aree del nostro sistema che presentano un deficit di competitività».
Come vede cambiare il ruolo della SIM nei prossimi anni?
«Certamente è un’industria in forte evoluzione. E questo lo vediamo anche nelle caratteristiche di un’associazione come Assosim: da un lato i grandi gruppi bancari, per alcuni aspetti soggetti a pressioni concorrenziali a loro specifiche, dall’altro operatori più specializzati, come le SIM, con dimensioni nel complesso minori. Parlando di investment banking in generale si può dire che c’è bisogno di uno sforzo comune con le istituzioni per affrontare le sfide normative di cui dicevamo. Il tutto in accordo con il fenomeno dell’integrazione europea, che porta un tipo di competizione sempre nuovo e diverso, come dimostra l’acquisizione di Borsa Italiana da parte di Euronext. La Borsa ha avuto una riorganizzazione di assetti proprietari che è una grossa opportunità, ma pone anche delle nuove sfide. Si pone ad esempio il tema di conciliare il vantaggio portato dalle economie di scala e dalla maggiore circolazione di idee all’interno di un gruppo così ampio con il mantenimento di quanto è stato fatto di buono dalla privatizzazione in poi. È questa una delle sfide che gli intermediari italiani seguono con maggiore attenzione e sulle quali si dovrà instaurare un dialogo con la Borsa stessa». ©