Le acque dello stretto di Taiwan non sono mai state così calde. L’attuale situazione di tensione con la Cina, inasprita dall’intervento degli Stati Uniti e dalle continue provocazioni reciproche, prefigura uno scenario da guerra fredda. E la posta in gioco è altissima. «Un blocco totale dello stretto comporterebbe una grave interruzione delle supply chains legate a Taiwan, che sarebbe disastrosa per l’approvvigionamento globale di semiconduttori e contribuirebbe alla corsa all’inflazione in tutto il mondo. Le ripercussioni sarebbero molteplici», dice Alessia Amighini, professore associato di economia politica presso UniUPO e Co-Head dell’Asia Centre dell’ISPI. Per ora, le conseguenze sull’economia taiwanese sembrano essere ridotte, nonostante una lieve contrazione delle esportazioni che rompe il trend degli ultimi mesi. Ma, nonostante le insistenti rassicurazioni del governo di Taipei, gli interessi in gioco sembrano essere troppi per sperare in una soluzione semplice.
È possibile dare una lettura economica della corrente situazione strategica nello stretto di Formosa, anche alla luce della faticosa ripresa cinese dalla crisi pandemica?
«Sì. Al di là dell’obiettivo politico della cosiddetta riunificazione, Pechino ha bisogno di assicurarsi il controllo delle grandi competenze tecnologiche di Taiwan, primo produttore al mondo di microchip, le componenti più avanzate di tutti i dispositivi elettronici usati nel mondo. Senza questi la Cina, infatti, non può ambire a una maggior indipendenza tecnologica dall’estero: al momento ne produce solo il 7%».
Quali sono le radici dell’attuale carenza?
«L’attuale carenza di chip è dovuta a diverse ragioni. Innanzitutto, la pandemia Covid-19 ha creato un’enorme domanda di prodotti digitali, di telecomunicazione ed elettronici, in quanto un numero sempre maggiore di lavori è stato trasferito online o svolto in remoto. La produzione di chip non è riuscita a soddisfare la domanda. In secondo luogo, l’emergenza sanitaria ha causato un’interruzione della catena di approvvigionamento. Poiché il settore dei chip è altamente globalizzato e integrato, i componenti, i wafer e i chip finiti sono bloccati nei magazzini a causa delle interruzioni della logistica. In terzo luogo, anche i rischi geopolitici hanno aggravato la mancanza. Ad esempio, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e i continui controlli statunitensi sulle esportazioni di tecnologie sensibili verso la Cina hanno messo a dura prova le forniture».
Quali sono state finora le conseguenze delle sanzioni imposte dal governo cinese in seguito alla visita discussa di Nancy Pelosi?
«Il governo cinese, ancor prima che lei atterrasse a Taipei, ha iniziato a bloccare l’importazione di oltre 2.000 prodotti da Taiwan e ha annunciato diversi giorni di esercitazioni militari in sei aree vicine alla costa dell’isola. Le conseguenze per ora non sono concrete, ma hanno lo scopo di dissuadere Taiwan dal continuare ad ambire a diventare davvero uno Stato indipendente».
Taiwan finora ha minimizzato le conseguenze delle sanzioni economiche, reputando improbabili ulteriori restrizioni al commercio. Se fossero più strette colpirebbero soprattutto la Cina?
«Taiwan è diventato il centro nevralgico della catena di approvvigionamento dei semiconduttori, in particolare dei chip avanzati, essendo il più grande produttore al mondo di questo componente essenziale della tecnologia moderna. D’altra parte, la Cina è un grande utilizzatore e pertanto anche un player debole, in quanto dipendente. Al contempo ha a sua volta una leva di potere sulla filiera, cioè il possesso nel proprio sottosuolo, delle terre rare che servono per produrli. Il problema è proprio questo, o meglio, non si tratta di un problema, cui si trova una qualche soluzione, ma di una situazione intrecciata, in cui né la Cina potrebbe rinunciare ai chips prodotti a Taiwan, né Taiwan potrebbe fare a meno delle terre rare estratte in Cina».
I forti legami economici potrebbero stabilire un deterrente a una degenerazione dell’escalation?
«Finora lo status quo ha funzionato, ma la Cina dal 2015 ha annunciato di volersi emancipare dalla tecnologia occidentale. Nei sogni di Xi e del Partito Comunista Cinese, una Cina unificata avrebbe il dominio sui piccoli ingranaggi high-tech da cui dipende tutto. Amplificando la risonanza degli obiettivi politici di unificazione, in realtà persegue un disegno molto più grande».
Gli Stati Uniti hanno dato una stretta notevole ai rapporti tra produttori e designer di chip americani e omologhi cinesi: un fatto che gioca un ruolo importante nelle tensioni?
«Certo, perché ci sarebbe una scarsità di talenti sul mercato statunitense, se mai si dovesse aumentare la produzione nazionale in modo significativo. Da parte sua la Cina ha sempre tratto enormi conoscenze dalle collaborazioni scientifico-tecnologiche con i Paesi più avanzati, in questo caso gli Stati Uniti».
In che misura la recente perdita di momentum delle esportazioni da Taiwan (soprattutto nel mecato tecnologico) dipende dall’acuirsi delle tensioni?
«Ogni volta che la Cina mette in atto operazioni militari di questo tipo, esse costituiscono un blocco de facto dei porti di Taiwan e possono anche limitare il traffico attraverso lo spazio aereo dell’isola. I passeggeri dei voli trans-pacifici in partenza da Hong Kong, in concomitanza con le esercitazioni, hanno segnalato lunghi ritardi nelle partenze a causa delle restrizioni delle rotte aeree. Tutto ciò rappresenta un avvertimento per Taiwan: Pechino potrebbe imporre un blocco totale sull’isola in qualsiasi momento.
Una mossa del genere avrebbe gravi conseguenze economiche non solo per Taiwan, ma anche per il resto del mondo. Si pensi all’impatto del recente blocco di Shanghai, durato circa 100 giorni, con effetti negativi significativi sul trasporto di merci dal suo porto, uno dei più importanti al mondo. In questo caso agli effetti si aggiungerebbe l’importanza dei microchip per la produzione di una miriade di beni, compresi quelli che stanno guidando una maggiore digitalizzazione di aziende, città e Paesi e la rapida adozione di fonti di energia verde. Questo scenario di strangolamento della catena di approvvigionamento è particolarmente preoccupante se si considerano i semiconduttori più piccoli e avanzati, per i quali non esistono sostituti al di fuori di Taiwan». ©