sabato, 7 Dicembre 2024

Il digitale è necessario per lo sviluppo, ma quanto inquina?

Sommario
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Il mondo digitale è più inquinante di quello che potremmo pensare. I data center che ospitano il cloud consumano molta energia, ogni email che inviamo produce anidride carbonica, ogni byte ha un proprio peso carbonico. I dati sono il petrolio del nostro tempo ma mancano norme a tutela degli utenti, un Internet Bill of Rights. «L’infrastruttura digitale è tutto ciò che crea, copia, trasmette, elabora dati», dice Giuseppe Palazzo, ricercatore di Ricerca sul Sistema Energetico e co-autore del libro Ecologia digitale. Per una tecnologia al servizio di persone, società e ambiente. «Tutto quello che ha a che fare con l’accesso ai servizi digitali. Dalle grande infrastrutture come cavi sottomarini e data center, fino ad arrivare ai pc e a tutti gli strumenti che non sono collegati alla rete ma ci permettono di accedervi. Si parla secondo stime di 17 milioni di server in tutto il mondo, 4 miliardi di chilometri di cavi di fibra ottica. Inoltre, ci sono 40 miliardi di terminali tra cui 4 miliardi di smartphone e 19 miliardi di altri dispositivi connessi».

digitale Palazzo

Quanto impatta sull’ambiente l’infrastruttura digitale?

«L’infrastruttura digitale ha un impatto sensibile sull’ambiente. Secondo Green IT questa è responsabile del 3,9% delle emissioni globali e del 4,2% dell’energia consumata nel mondo. Si parla anche di 22 milioni di tonnellate di materia non rinnovabile dispersa nell’ambiente, e 8 miliardi di metri cubi di acqua dolce. Per non parlare della filiera delle materie prime critiche, le cosiddette terre e metalli rari. Ogni tonnellata estratta genera 2.000 tonnellate di residui tossici. Inoltre, questi materiali sono spesso presi nelle cosiddette Terre di sacrificio: Mongolia, Sud Est Asiatico.

Secondo l’E-Waste Monitor l’80% dei device che costituiscono l’infrastruttura digitale non viene riciclato. Questo ha un grosso impatto perché si generano una quantità importante di rifiuti elettronici che invece potrebbero essere riutilizzati. Pensiamo a pc e smartphone, il cui processo di riparazione richiede spesso conoscenze e mezzi che non tutti possiedono. Questi dati nel complesso non significativi perché i data center e le reti di trasmissioni consumano più del 2% dell’elettricità globale. Il 3,9% delle emissioni derivanti dal digitale corrisponde al 4% di emissioni derivante dai bovini. Parliamo di dimensioni importanti».

Quanto cresceranno l’infrastruttura digitale e i suoi consumi?

«Dobbiamo considerare che l’utilizzo del digitale vede trend fortemente in crescita. I cosiddetti Big Data nel mondo, ammontavano a 2 zetabyte (1 triliardo di byte) nel 2010, nel 2018 sono diventati 33, tra il 2018 e il 2020 hanno raggiunto i 64 ZB. Si stima che nel 2025 arriverà a 181 zetabyte. Questo fa intendere un aumento gigantesco, favorito dal boom durante la pandemia. Tant’è che Digital Europe stima che il consumo di elettricità a livello mondiale dell’universo IT fra il 2020 e il 2030 salirà del 50%. Arriverà a consumare il 10% di tutta l’elettricità a livello globale.

Fino al 2020 era valida la Legge di Moore, per cui si riusciva a far sì che l’aumento della capacità di calcolo dei dispositivi fosse bilanciato da un aumento di efficienza energetica. Le nuove tecnologie come il 5 G invece implicano un consumo maggiore di energia. Un’antenna 5 G consuma il triplo di una 4G. Addestrare un modello di trattamento di linguaggio naturale per il machine learning consuma tanta elettricità quanto 60 case in un anno. C’è poi tutto il mondo di Bitcoin e criptovalute…».

ecologia digitale

Le criptovalute sono un argomento controverso. Possono essere utili alla causa della transizione?

«I miners possono offrire servizi di flessibilità alla rete per ridurre fortemente i consumi per un determinato periodo di tempo al fine da facilitare il funzionamento della rete. Lo interpreto come un esempio positivo in ottica della gestione della flessibilità di un sistema energetico che nel futuro sarà sempre più fondato sulle risorse rinnovabili non programmabili. Però le crypto, basandosi sulla tecnologia blockchain, consumano molta energia».

Come sfruttarne il potenziale?

«Il sistema energetico del futuro prevederà una generazione sempre più distribuita e complicata, da gestire con configurazioni decentralizzate. La produzione non sarà più appannaggio delle grandi centrali ma assumerà anche dimensioni minori, tutto questo richiederà la pervasività del digitale affinché sia servito in modo efficiente e sicuro. Sarebbe il caso di rendere queste tecnologie sempre più sostenibili. Le criptovalute secondo GreenPeace utilizzano complessivamente la stessa quantità di energia della Svezia. Questo perché alla base del sistema c’è il proof of work, tecnologia necessaria per validare le transazioni che implica un consumo di energia significativo.

Consumo che è accoppiato con il prezzo, più aumenta il valore della criptovaluta più aumenta il consumo di energia. Soltanto il mining degli Stati Uniti è responsabile di 35 milioni di tonnellate di CO2. Esistono esempi di criptovalute come Ethereum, che utilizzano un sistema che permette di tagliare i consumi del 99,9%. Il codice medio utilizzato dalle criptovalute ha livelli di complessità tali da far sì che il consumo di energia sia determinante. Sembra che la chiave sia passare da una tecnologia proof of work a un’altra chiamata proof of stake».

mondo digitale

La blockchain può aiutare il sistema energetico globale?

«È importante non demonizzarla perché è una delle tecnologie utilizzate in interessantissime sperimentazioni e casi di studi legati alle comunità energetiche, ad esempio. È un sistema attraverso il quale puoi gestire anche la transazione commerciale, non soltanto il mero trasporto dell’energia. Parliamo dei cosiddetti scambi peer to peer, tra pari, resi possibili da questa tecnologia senza bisogno di intermediari che gestiscono la rete».

Parliamo di qualche progetto che sta portando avanti con Ricerca sul Sistema Energetico

«L’RSE è un centro di ricerca parte del gruppo del Gestore dei Servizi Energetici (GSE) che si avvale della collaborazione di diversi atenei in tutta Italia ed è finanziato dal programma Ricerca di Sistema (RDS) dello Stato Italiano e da progetti europei. Parallelamente mette le proprie competenze a favore della comunità svolgendo attività a favore del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) e dell’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA).

Fra le attività di cui mi occupo la più interessante è la Clean Energy Transition Partnership, una collaborazione europea pubblico privata che introduce la novità di unire competenze e risorse di partner per finalità comuni. Il lavoro si suddivide in sette Transition Iniatives, che coprono i principali fronti della transizione energetica. I partner scrivono dei bandi di gara, parte di una joint call annuale da qui al 2027. Avvalendosi dell’aiuto di esperti esterni verranno selezionati progetti che saranno finanziati secondo una logica collettiva, attraverso la raccolta dei fondi nazionali e il contributo della Commissione Europea. L’elemento di novità principale è che si tratta di una piattaforma strutturata per la cooperazione internazionale nel campo della ricerca e innovazione sul tema della transizione energetica. Un potenziale esempio per altre iniziative extra europee, è una piattaforma che può essere valorizzata infatti attraverso l’ingresso di partner extra europei».

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A che punto è il progetto?

«A settembre 2022 abbiamo lanciato la prima joint call. I progetti candidati hanno già superato la prima fase di selezione. Entro marzo ci sarà la seconda scrematura e fra settembre e dicembre 2023 partiranno i progetti approvati. Nel frattempo stiamo sviluppando i call module della joint call 2023, che sarà resa pubblica a fine estate. Saranno selezionati altri progetti che partiranno nel 2024. RSE li supporterà in termini di knowledge exchange e impact network, per facilitare lo scambio di informazioni e risultati, accelerando così la commercializzazione dei prodotti.

Le attività si inseriscono nell’ambito dello Strategic Energy Technology Plan dell’UE, che mira ad allineare gli sforzi di ricerca e innovazione nel campo della transizione energetica a livello nazionale e comunitario. La partnership dà un approccio operativo al tema. Fino ad oggi le iniziative servivano per fare il roadmapping, individuare i gap tecnologici principali su cui focalizzarsi, evitare le sovrapposizioni e massimizzare i risultati».

Come ridurre l’impatto del digitale?

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«Bisogna far sì che l’energia che consuma sia rinnovabile. Concordo con gli altri autori sulla bontà degli sforzi del legislatore e dei regolatori per far sì che le attività digitali siano inserite nel solco dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Tra le iniziative più interessanti, in Francia è stata introdotta una norma che prevede che dal 1 gennaio 2022 i fornitori di accesso a internet e gli operatori delle telecomunicazioni informino gli abbonati della quantità di dati utilizzati e indichino l’equivalente di emissioni di gas a effetto serra. È stato poi introdotto un indice che mostrano quanto è facile riparare un oggetto. La direttiva europea n. 125 del 2009 introduce specifiche per la progettazione ecocompatibile dei server.

L’obiettivo è ottenere al 2030 un risparmio annuale diretto di energia di circa 2,5 TW/h e uno indiretto di 3,7 TW/h, e 2, 1 milioni di tonnellate di CO2 equivalente. C’è poi il provvedimento del Parlamento Europeo che stabilisce che entro il 2024 i caricatori dei cellulari dovranno essere tutti dello stesso tipo».

I data center occupano una fetta importante dei consumi energetici, un tema da non sottovalutare

«Nel 2018 Google e Apple hanno acquistato e generato energia rinnovabili a sufficienza per alimentare i loro data center. Questo da un lato è lodevole, dall’altro c’è il rischio che gran parte dell’energia rinnovabile finisca per alimentare queste strutture invece che altrove. L’Irlanda è un Paese da tenere d’occhio per quanto riguarda i data center, si stima che al 2025 dovrebbero consumare il 20% dell’elettricità del Paese». ©

Articolo tratto dal numero dell’1 febbraio 2023 de il Bollettino. Abbonati!

Il mio motto è "Scribo ergo sum". Laureato in "Mediazione Linguistica e Interculturale" ed "Editoria e Scrittura" presso La Sapienza, mi sono specializzato in giornalismo d’inchiesta, culturale e scientifico. Per il Bollettino mi occupo di energia e innovazione, i miei cavalli di battaglia, ma scrivo anche di Mercati, spazio e crypto.