sabato, 7 Dicembre 2024

Private debt italiano: +43% sul 2022, PMI protagoniste

Sommario

Il private debt italiano raggiunge il valore di 3.224 milioni di euro, con un incremento del 43% rispetto allo scorso anno. Il motivo? Principalmente operazioni volte a supportare buy out di dimensioni significative. Tuttavia, si è registrata una diminuzione sia nel numero di operazioni, 262 rispetto a 281 (-7%), sia nel numero di società oggetto di investimento, 133 rispetto a 141 (-6%).

«Le transazioni italiane di alternative lending potrebbero essere più numerose, ma non vengono tracciate a causa delle loro dimensioni ridotte», dice Andrea Azzolini, Director Corporate Finance and Debt Advisory presso Deloitte. A livello europeo, sono state completate 1015 deals in Francia e 574 in Germania. Mentre il record va al Regno Unito con 1.488. «Ciò che li distingue dal resto d’Europa è in gran parte legato alle modalità di raccolta dati da parte degli analisti e alle dimensioni delle imprese coinvolte. Gli statistici analizzano principalmente transazioni mid-cap (30-50 milioni di debito), ciò significa che le transazioni più piccole, come quelle nazionali, spesso non vengono registrate».

Tornando in Italia, la Lombardia si conferma al primo posto, ospitando il 36% delle società italiane oggetto di investimento. Il Veneto (18%) e l’Emilia-Romagna (9%) seguono a ruota. Per quanto riguarda i settori di attività, i beni e servizi industriali occupano la prima posizione, rappresentando il 24% delle imprese coinvolte, seguiti dall’ICT (Information and Communication Tecnology), che copre il 14%. È importante sottolineare che il 49% delle società target impiega meno di 250 dipendenti. «Da noi si trovano prevalentemente piccole e medie imprese, mentre in Francia e Germania, le aziende sono più grandi. Questa differenza è rilevante. Inoltre, l’Italia ha avuto un leggero ritardo nello sviluppo del private debt rispetto alle due Nazioni europee, il che ha contribuito a creare un gap tra i Paesi».

A livello europeo il maggior numero di deal riguarda società “Infrastructure & Professional Services” e “Technology, Media & Telecommunications (TMT)”. Perché?

«Ciò è dovuto alle caratteristiche intrinseche dei sistemi imprenditoriali, in particolare nel Regno Unito, dove è storicamente riconosciuto che la maggior parte delle transazioni avviene in questi settori, che rivestono un’importanza significativa anche a livello europeo. Questo fenomeno può essere spiegato in base alle dimensioni medie delle imprese coinvolte e al percorso di sviluppo che scelgono di intraprendere. Infatti, queste aziende si adattano particolarmente bene a questo tipo di operazioni».

«Tuttavia, è importante sottolineare che in Italia, settori come il retail e il manufacturing rivestono comunque un ruolo importante, rappresentando circa il 7-8% delle operazioni. La distribuzione dei deal dipende in parte dalle dimensioni e dalle caratteristiche della struttura imprenditoriale del Paese di riferimento, il che implica una maggiore focalizzazione su questi settori nel Regno Unito. Al contrario, il resto dell’Europa presenta differenze significative rispetto alla situazione britannica. Il motivo dietro la prevalenza di certe categorie nel panorama europeo può essere attribuito alle specificità dei sistemi imprenditoriali e alle peculiarità regionali».

Nel 2022 la raccolta degli operatori di private debt attivi nel mercato italiano è cresciuta del 15% rispetto all’anno precedente, attestandosi a 1.131 milioni di euro. Guardando la provenienza geografica, la componente domestica ha rappresentato il 75% del totale. Questo significa che l’Italia è poco appetibile per gli investitori stranieri?

«Osserviamo un crescente interesse da parte degli operatori internazionali per il mercato italiano. Le operazioni di mid-cap in Italia sono gestite principalmente da fondi stranieri che dispongono di almeno una sede nel Paese, dimostrando un forte interesse per il mercato nostrano. La prevalenza di investitori domestici nella raccolta può essere attribuita alle modalità di raccolta finora adottate, che si sono concentrate maggiormente sugli istituzionali nazionali piuttosto che su quelli esteri. Tuttavia, la quota di investitori stranieri diventerà sempre più significativa, poiché l’attività di investimento nel mercato mid-cap è prevalentemente estera. Infatti, al momento non esistono fondi italiani in grado di fornire prestiti da 30-40 milioni di euro».

Considerando che i soggetti domestici hanno realizzato il 52% delle operazioni di private debt e l’82% dell’ammontare è stato investito da operatori internazionali, come valuta l’equilibrio tra investitori domestici e internazionali nel mercato del private debt italiano?

«Oggi, per deal di debito di 30-40 milioni di euro, è necessario rivolgersi esclusivamente ad operatori internazionali. In termini di volume, l’investimento da parte di questi intermediari è già superiore a quello degli operatori italiani. Tuttavia, ci si aspetta che nel tempo, la dimensione dei fondi nostrani aumenti, rendendo possibile per loro effettuare deal di mid-cap, ovvero investimenti da 50 a 100 milioni in una singola operazione».

«Attualmente, i fondi nazionali hanno dimensioni ridotte e possono gestire deal fino a 20 milioni. Oltre questa soglia, diventa molto difficile per un fondo nazionale condurlo, per cui vengono fatti dagli stranieri. Per cambiare serviranno nuovi gestori in grado di raccogliere ingenti somme dagli investitori istituzionali e disporre di fondi tra 500 milioni e 1 miliardo di euro. Solo così potranno investire in deal da 50-100 milioni. Ad oggi, la dimensione media degli investimenti finanziati dai fondi italiani è di 5-10 milioni di euro».

I privati hanno accesso ai fondi di private debt?

«C’è la possibilità per i retail di accedere a fondi internazionali attraverso l’intermediazione bancaria, ma non è molto diffuso. Probabilmente lo diventerà in futuro».

Nel corso dell’anno passato, si è registrata una tendenza verso operazioni di rilevante entità. Quali potrebbero essere le implicazioni di ciò per le piccole e medie imprese nel 2023?

«La maggioranza dei deal è caratterizzata da piccole e medie dimensioni. Ma osserviamo un crescente coinvolgimento di imprese di un certo livello nelle operazioni di private equity, un fenomeno che può essere considerato positivo. Ciò permette alle aziende nostrane di superare i limiti strutturali che le caratterizzano, soprattutto a confronto con le controparti francesi o tedesche. La partecipazione delle società italiane mid-cap alle operazioni di private equity offre loro l’opportunità di ottenere una spinta significativa, così il Bel Paese potrà avere imprese più grandi e competitive».

Quali sono i principali fattori di rischio associati al private debt e come vengono mitigati dai fondi?

«I fattori di rischio, simili a quelli del debito bancario tradizionale, vengono mitigati grazie alle analisi effettuate dagli alternative lenders (esperti in valutazioni creditizie). In questo modo emergono le eventuali criticità. Nel contesto macroeconomico attuale, segnato dall’inflazione e dalla possibilità di un rallentamento, i fondi di debito tendono a essere più selettivi negli investimenti. Ciò mira a ridurre l’esposizione a rischi eccessivi: gli alternative lenders massimizzano le probabilità di recupero degli investimenti prima del closing».

Come si inserisce il private debt in un sistema bancocentrico come il nostro?

«Gli imprenditori italiani l’hanno accolto con favore, i tassi di crescita sono estremamente importanti, sia in Italia che in Europa. Dieci anni fa venivano completate 23 operazioni a trimestre, oggi in Europa ne vengono completate 200, per cui 10 volte tanto; c’è una crescita estremamente importante dell’alternative banking. Il sistema è ancora bancocentrico perché la maggioranza delle operazioni sono finanziate dagli istituti di credito, ma la forchetta si sta restringendo. Quindi, forte crescita dell’alternative lending che rappresenta uno strumento complementare aggiuntivo rispetto al sistema bancario. Non c’è sicuramente competizione tra i due».

Il 2022 ha segnato il top del mercato, cosa significa in prospettiva per il 2023?

«Nel corso del terzo e quarto trimestre del 2022, si è registrato un rallentamento rispetto allo stesso periodo del 2021, e tale tendenza si è protratta anche all’inizio del 2023. Ciò rientra nella normale ciclicità economica, caratterizzata da fasi di espansione e contrazione. Attualmente, ci troviamo in una fase di contrazione, pertanto è lecito attendersi un ulteriore rallentamento nell’alternative lending. È importante notare che, rispetto a vent’anni fa, quando venivano perfezionate solo 20 transazioni, ora si registrano tra le 170 e 190 a livello europeo, nonostante il rallentamento».

«Questo dimostra che la magnitudo dell’attività è comunque rilevante e il settore ha registrato una crescita significativa negli anni. Per il futuro, le prospettive sono ancora di crescita, poiché l’alternative lending offre uno strumento complementare e più flessibile rispetto al sistema bancario tradizionale, sia per i fondi di private equity che per le imprese interessate ad acquisizioni e sviluppo. Man mano che la cultura dell’alternative lending si diffonderà tra private equity e aziende, ci si aspetta che il trend di crescita continui».

Quali prospettive di sviluppo ci sono per il private debt italiano ed europeo nei prossimi 5 e 10 anni?

«Le prospettive di sviluppo per il private debt italiano ed europeo appaiono molto positive, grazie a diversi fattori chiave. Uno di questi è l’aumento dell’interesse internazionale verso l’Italia, con un crescente numero di fondi internazionali che realizzano operazioni nel Paese, sia nell’ambito del debito che dell’equity. Inoltre, l’alternative lending è in costante evoluzione, offrendo maggiore flessibilità e possibilità di personalizzare il debito in base alle esigenze specifiche dei clienti. Considerando questi elementi, ci si aspetta un continuo sviluppo positivo per il settore nei prossimi anni».

Come può integrarsi il sistema di private debt con i prestiti bancari?

«Le banche solitamente gestiscono un livello di rischio del 3-4%, in linea con i rendimenti delle loro passività. Ma, esistono situazioni più rischiose che gli istituti di credito evitano di finanziare, lasciando spazio all’alternative lending. I fondi di private debt si focalizzano su deal che offrono soluzioni più adatte alle esigenze dei clienti».

«Ad esempio, mentre una banca richiede rate costanti di rimborso, un’alternative lending può offrire condizioni più flessibili, come il pagamento solo degli interessi e il rimborso del capitale a scadenza. Questo approccio permette alle aziende di reinvestire i flussi di cassa nel proprio sviluppo senza dover utilizzare questi fondi per ripagare il debito. In tal modo, le imprese possono concentrarsi sulla crescita e rimandare il pagamento del debito a scadenze più lunghe. Il private debt si integra con i prestiti bancari offrendo soluzioni più flessibili e personalizzate ai clienti, coprendo situazioni di rischio maggiore e permettendo alle aziende di concentrarsi sullo sviluppo senza gravare eccessivamente sui flussi di cassa». ©

Credits photo: EdvanKun, Canva.com

Articolo tratto dal numero del 15 maggio 2023. Abbonati!