venerdì, 3 Maggio 2024

Finanza off-shore: tutti i paradisi fiscali più gettonati

DiMarco Battistone

15 Dicembre 2023
Sommario
paradisi fiscali

Il periodo natalizio, si sa, è particolarmente gioioso anche per le tasche. Tredicesime, quattordicesime e bonus aziendali lo rendono per molti il più proficuo dell’anno. I più li spendono in regali e leccornie da condividere con la famiglia, ma c’è chi preferisce le spiagge incontaminate delle Isole Vergini Britanniche o i mari tropicali delle Bermuda o delle Cayman. D’altronde, per chi ama mettere al riparo le proprie ricchezze in paradisi fiscali come questi, c’è di che festeggiare. Secondo le stime più recenti, asset privati per circa 12 trilioni di dollari – più di un decimo del PIL globale – sono custoditi off-shore.

«Negli ultimi decenni, la globalizzazione ha aperto nuove possibilità di evasione sfruttate da compagnie multinazionali e individui abbienti in tutto il mondo» ha affermato l’economista Joseph Stiglitz nell’introduzione al Global Tax Evasion report 2024. Quella dei tax haven (letteralmente “rifugi fiscali”) è spesso un’area grigia tra elusione fiscale ed evasione fiscale vera e propria. Quanto alla prima, stando al rapporto, ogni anno circa 1000 miliardi di dollari di profitti aziendali sono deviati dai luoghi in cui vengono prodotti per andare a rifugiarsi sotto regimi fiscali più blandi. Una grande ricchezza per una manciata di Paesi di destinazione, ma una vera e propria emorragia per quelli di origine: si parla del 10% del gettito fiscale complessivo.

Certo, gli ultimi anni hanno visto alcuni passi avanti non da poco. Lo scambio automatico delle informazioni bancarie mediante il Common Reporting Standard (CRS) ha scoraggiato i trasgressori. Il sistema, sottoscritto da oltre 100 Stati, ha consentito di ridurre l’evasione off-shore di circa due terzi in meno di 10 anni. In particolare, se le risorse conservate in paradisi fiscali rimangono in proporzione le stesse, a calare drasticamente è la quota non dichiarata di esse. A oggi la si stima al solo 25% del totale.

Tuttavia, le falle nel sistema restano. In particolare, la difficoltà di far rispettare le norme ai soggetti interessati. In teoria implementate da sanzioni imposte sulle compagnie non-compliant, spesso rimangono inchiostro su carta. D’altronde, i Paesi di destinazione, che avrebbero tutto l’interesse a far rimanere gli asset entro i loro confine, sono al contrario riluttanti ad applicare i dovuti controlli, visti i costi altissimi che la due diligence comporta.

A questo si aggiungono le difficoltà incontrate dal progetto di tassazione minima globale sulle imprese multinazionali. Nel 2021 aveva ricevuto oltre 140 firme. A oggi, non è stato portato avanti che da pochi. Il gettito totale generato, atteso per il 9% dei profitti, si è fermato in realtà al 6. Perfino in Europa, dove la nuova aliquota minima al 15% dovrebbe entrare in vigore dall’1 gennaio 2024, permangono elementi in dissenso – su tutti Irlanda e Paesi Bassi.

D’altronde, sono diversi, anche in seno all’UE, gli attori che fanno a gara a ridurre le tasse per scippare beni e ricavi all’estero. Perfino l’Italia contribuisce ad alimentare questa tendenza, con il regime fiscale speciale riservato ai cosiddetti “impatriati”, che offre di tassare solo il 30% del totale dei profitti a 5 anni dal trasferimento nel Paese.

Il tutto a vantaggio delle imprese, ma anche dei super-ricchi. Secondo i dati, l’imposizione sui miliardari è spesso addirittura regressiva. In media, questi soggetti – meno di 3000 in tutto il mondo – pagano ogni anno lo 0,5% dei loro patrimoni. Si calcola che una tassazione che riuscisse a imporre a loro globalmente un 2% potrebbe ottenere circa 250 miliardi di dollari in più per i gettiti nazionali. Una proposta più che sostenibile, se si considera che l’ammontare medio di questi patrimoni aumenta del 7% ogni anno.

Ne va della stessa credibilità del sistema: a oggi oltre la metà dell’indotto fiscale globale viene da tasse sui consumi e sui salari. «Se i cittadini non credono che ognuno paghi la sua giusta parte di tasse – e specialmente se vedono che i ricchi e le grandi compagnie non lo fanno – allora cominceranno a rifiutare la tassazione. Perché dovrebbero consegnare i loro sudati guadagni se i più abbienti non lo fanno? Questa lampante disparità fiscale il corretto funzionamento della nostra democrazia: aggrava la disuguaglianza, indebolisce la fiducia nelle nostre istituzioni ed erode il contratto sociale» si legge nella nota di Stiglitz.

Per questo proseguire con uno sforzo internazionale e coordinato, paragonabile a quello per la lotta al cambiamento climatico, diviene essenziale. Purtroppo, a tal proposito la situazione corrente, con due guerre a dividere in fazioni il panorama diplomatico e a mettere in dubbio la credibilità delle organizzazioni sovranazionali, non sembra delle più propizie. In compenso, la spinta verso una maggiore disclosure dei dati bancari consente per la prima volta di fare considerazioni riguardo a Paesi di origine e destinazione degli asset off-shore. Ma quali sono le principali destinazioni di “turismo fiscale” per i patrimoni d’Italia e del resto del mondo?

Isole Vergini Britanniche

In cima a tutti gli indici relativi ai paradisi fiscali, le British Virgin Islands hanno tutto quello che ci si attende da un classico paradiso fiscale: spiagge tropicali, l’acqua cristallina dei Caraibi e tasse quasi a zero. Il Paese rappresenta in realtà un territorio britannico d’oltremare, governato dal re d’Inghilterra attraverso un governatore nominato. In realtà, le isole eleggono il proprio Governo e godono di notevole autonomia dalla madrepatria. Il risultato è una legislazione fiscale a dir poco permissiva.

Non esiste tassa sul reddito né sui capital gain, mentre le stesse compagnie non pagano che minime quote annuali al Governo, con qualche piccolo obbligo di documentazione. Insomma, non è un caso se il minuscolo arcipelago da 30mila abitanti occupa stabilmente la prima posizione nel Global Tax Haven Index. Secondo l’indice, qui si svolgerebbe addirittura il 2,3% dell’attività finanziaria multinazionale. Una situazione tanto sproporzionata da risultare difficilmente spiegabile alla luce delle sole attrattive turistiche del luogo.

Cayman e le Bermuda

Queste due dipendenze britanniche nelle Antille e nell’Atlantico settentrionale sono al secondo e al terzo posto dell’indice dei paradisi fiscali. Entrambe emettono moneta propria e sono relativamente più indipendenti dal Regno Unito rispetto alle Isole Vergini. Si equivalgono pressappoco quanto a popolazione – circa 60mila abitanti l’una – e rilevanza nel mondo dell’evasione internazionale. Da un lato, le tre isole Cayman raccolgono da sole l’1,9% dell’attività finanziaria delle multinazionali e sono responsabili del 6% del rischio di abuso fiscale da parte delle aziende a livello globale.

Dall’altro, le Bermuda, note per il famigerato triangolo, sono responsabili anche per l’1,8% dell’attività finanziaria delle grandi compagnie e il 5,7% del rischio fiscale. Per entrambi gli arcipelaghi, trovare dati commerciali ed economici di qualsiasi tipo risulta arduo, se non altro per il fatto che, a parte il turismo, è proprio il settore finanziario, con le sue transazioni più o meno losche, a rappresentarne la principale ricchezza.

Lussemburgo

Il piccolo granducato è un caso di paradiso fiscale inusuale. Parte dell’Unione Europea e dell’Eurozona, è considerato tax haven in virtù della sua elastica normativa fiscale. La specialità locale sono le obbligazioni. L’assenza di ritenute e imposte di bollo su cedole e interessi lo rende una meta privilegiata per lo scambio e l’emissione di bond. A oggi, raccoglie investimenti diretti esteri per 4 triliardi di dollari l’anno, cioè quanto gli Stati Uniti. In più, ben 340 multinazionali hanno sussidiarie nel Paese e si calcola che al 2015 circa 47 miliardi di dollari l’anno di profitti europei venissero trasferiti qui.

Svizzera

Un tempo capitale indiscussa dei tax haven, la Svizzera è il luogo dove l’introduzione dello scambio di informazioni bancarie ha portato i maggiori progressi. Prima della crisi finanziaria del 2008/2009, la metà della ricchezza off-shore nel Pianeta era al sicuro nei caveau e nei conti bancari svizzeri. Ma questa quota si è oggi ridotta al 20%. Un grande traguardo, determinato con tutta probabilità dal cadere del segreto bancario.

Certo, il Paese continua a restare molto attraente per i grandi patrimoni internazionali: nel cuore d’Europa, ma fuori dall’Unione Europea e dalle sue normative, ha un livello di tassazione notoriamente al di sotto della media del continente e un settore finanziario ancora estremamente vivace. Senza contare che, come le recenti vicende delle sue principali banche – UBS e Crédit Suisse – hanno dimostrato, la caduta del segreto non sembra essere stata sufficiente a porre fine ad affari piuttosto grigi. Non a caso, il suo corporate tax abuse risk è comunque stimato sopra il 5% del totale globale.

Paesi Bassi

La presenza dell’Olanda in questa lista potrebbe sorprendere i meno esperti. Tra i fondatori dell’Unione Europea e storico membro della linea rigorista sul piano economico, Amsterdam potrebbe difficilmente sottrarsi ai controlli e agli obblighi di documentazione imposti sulle banche. D’altro canto, la tassazione particolarmente favorevole alle holding rende la terra dei mulini molto appetibile per le grandi multinazionali. Con importi zero su dividendi e capital gain, nonché la possibilità di detenere controllate estere, l’opportunità fa gola.

Non a caso, dalla piccola Olanda passa l’11% della finanza corporate globale. Per capirci, più dello stesso Regno Unito e della Londra della City. L’Italia lo sa più che bene. Tra le tante aziende attratte negli anni dagli sconti fiscali ci sono anche alcuni gioielli della nostra corona. Da MFE – Mediaforeurope NV, responsabile della rete internazionale di Mediaset, alla FIAT (oggi Stellantis), assieme con la sua società madre, la holding di casa Agnelli EXOR NV.

Singapore e Hong Kong

Il rifugio più all’ultimo grido per i grandi patrimoni sembrano essere le mete asiatiche. Dal 2006 a oggi la ricchezza off-shore detenuta in queste destinazioni è passata da meno del 15% del totale a oltre il 40. Un fatto determinato anche dal moltiplicarsi dei super-ricchi nel continente. Secondo un’analisi di Nikkei, l’Asia sarebbe il continente con il maggior numero di miliardari, ben 951. Luoghi prediletti sono i grandi hub finanziari di Hong Kong e Singapore. Nel complesso, passano per questi due centri circa il 7,8% degli investimenti esteri globali.

La prima può giovarsi della relativa autonomia dalla Cina, pur godendo dei vantaggi della prossimità. Il porto rappresenta una specie di zona franca di trasgressione per i ricchi e potenti della Repubblica Popolare, che in compenso le fornisce un bacino pressoché inesauribile di nuova ricchezza. D’altra parte, la città-stato di Singapore offre una politica stabile e particolarmente “business-friendly”, unitamente a un sistema finanziario sviluppato e di primissimo ordine. La tassa sui redditi aziendali qui è piatta al 17%. Un’aliquota generosa, che si abbassa facilmente grazie a una serie di incentivi messi in piedi dal Governo.

Irlanda

Così come Olanda e Lussemburgo, l’isola dei leprecauni non è definita ufficialmente tax haven, ma costituisce un Paese di cuccagna per le grandi multinazionali. Il suo tasso ufficiale sui redditi aziendale si attesta al 12,5%, con notevoli eccezioni. Il Paese si è rivelato negli anni una vera calamita per le grandi corporation americane. Ad affollare i Silicon Docks di Dublino coi loro quartieri generali ci sono compagnie del calibro di Google, Facebook, Twitter e Linkedin. E l’avvento della Brexit ha ulteriormente favorito il Paese, innescando un vero e proprio esodo dal Regno Unito: Barclays, Morgan Stanley, S&P Global e Goldman Sachs, tra le altre, hanno spostato le loro sedi da Londra. Ma la festa potrebbe finire con l’introduzione, da gennaio, dell’aliquota reale minima al 15% a livello europeo, un provvedimento che l’Irlanda ha osteggiato apertamente.

Dubai

L’emirato è un paradiso fiscale inusuale. Se solitamente la ricchezza con cui si eludono o evadono le tasse è finanziaria, qui va per la maggiore l’immobiliare. Una moda che corrisponde alla tendenza globale: dalla stretta sui tax haven inaugurata con la condivisione delle informazioni bancarie, gli evasori hanno risposto cambiando le forme dei loro investimenti off-shore. A quanto pare, il 25% degli asset asset finanziari off-shore totali si è trasformato negli ultimi anni in investimenti immobiliari. E Dubai è la capitale mondiale di questo cambio di paradigma: circa il 27% del suo real estate è detenuto da persone o enti esteri, per un valore totale di 136 miliardi di dollari. ©

Articolo tratto dal numero del 15 dicembre 2023 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".