Se almeno nel calcio una breccia si è aperta, nell’arbitraggio le donne restano quasi sempre fuori dalla porta. Non è stato così per Manuela Nicolosi, classe 1981, romana, che ha invece scardinato tutti gli stereotipi su una professione considerata appannaggio maschile. Dal 2010 è arbitro internazionale, dal 2018 è arbitro professionista FIFA. Ha fatto storia, entrando nella prima terna femminile nell’arbitraggio di una finale europea maschile, la Supercoppa tra Liverpool e Chelsea nel 2019
Quanti ostacoli ci sono stati in questo percorso?
«Moltissimi, a cominciare da quando ero ancora bambina. Mi ero innamorata del calcio, una passione che accomunava tutta la famiglia. Frequentavamo gli stadi, tutti insieme, ogni domenica. E io volevo partecipare, anche alle discussioni che sentivo in casa sullo sport. Il calcio era un modo per condividere qualcosa con mio papà».
Che però non era molto d’accordo sul suo desiderio di allenarsi e diventare una calciatrice
«Non voleva, era considerato uno sport da maschi. Erano anche altri tempi, rispetto a oggi… una evoluzione c’è stata. Era normale, mi voleva proteggere. Anche perché entrare in una scuola calcio femminile allora, quando di donne ce n’erano ancora pochissime, significava attraversare tutta la città».
Ma il sogno negli anni non si spegneva
«No, rimaneva lì. E tutto è cambiato quando ho ricevuto una notizia, era il 1996 e io avevo 15 anni. Mio zio e mio cugino erano arbitri amatoriali, si dedicavano a questa attività non per professione. E, tramite loro, un giorno scopro che il regolamento dell’arbitraggio calcistico cambia, consentendo l’ingresso anche alle donne, cosa che prima era invece vietata».
Non le sarà parso vero…
«Per me era la realizzazione di un sogno. Indossare gli scarpini e correre in un campo da calcio, anche se non dietro un pallone. E poi era anche una rivincita perché si poteva finalmente fare un mestiere che fino a poco prima era accessibile solo agli uomini».
Da lì non si è più fermata…
«Ho iniziato andando nella sezione, si chiamava proprio così. A Roma, essendo una grande città, ce ne sono due. Nei centri più piccoli invece ne esiste una sola. E lì si inizia la preparazione all’arbitraggio. Si fa un corso di tre mesi e poi un esame che consiste in una verifica delle conoscenze. E mi sono scontrata con la prima difficoltà, proprio a livello fisico».
Ci spieghi meglio
«Mi ero sempre allenata fin da bambina, avevo fatto moltissimi sport, nuoto, pattinaggio, pallavolo. Ero sempre stata una sportiva, quindi non avevo problemi nel fondo. La velocità era invece l’aspetto da migliorare e su cui ho dovuto lavorare di più per raggiungere gli standard richiesti».
La prima convocazione non si dimentica
«Avrò avuto sedici anni, e venivo fuori solo dalla preparazione teorica. Ti ritrovi a arbitrare una partita, a livello provinciale, in cui sono tutti minorenni, a parte la dirigenza. Ogni domenica poi con qualche squadra diversa e persone diverse. All’inizio, quando mi presentavo alle prime partite per arbitrare, pensavano a uno sbaglio. Facevano chiamate per assicurarsi fosse vero: non potevano credere che in campo ci fosse una donna in quel ruolo».
Senza contare le difficoltà fisiche
«Insieme all’emozione devi imparare a gestire la fatica fisica, perché in campo – oltre a correre – come arbitro devi essere in grado di prendere una decisione in una frazione di secondo. Quella decisione va presa da lucidi, e non è semplice perché sotto sforzo fisico tutto l’ossigeno va ai muscoli invece che al cervello. Per quello è importante lavorare tanto, perché non si può essere affaticati».
Anche i test per arbitrare sono tarati sui fisici maschili
«E questo è un ostacolo aggiuntivo, perché gli uomini hanno biologicamente il 20 per cento di massa muscolare in più. E quindi mettersi in pari costa un ulteriore sforzo, proprio a livello fisico».
La sua è una storia di impegno e costanza, che fa capire come a certi livelli si arriva solo con il sudore, letteralmente
«È così, e per questo va detto che il peggio sono i momenti iniziali, non quando si arriva a arbitrare a alti livelli. È lì che ci si deve fare strada a suon di sacrifici. Io poi ero contornata da pregiudizi, anche se la mia carriera è stata abbastanza veloce nel passaggio dal provinciale al regionale».
Quando ha sentito di più il peso dei preconcetti nei suoi riguardi
«Soprattutto nel passaggio al regionale, quindi nelle partite a livello del Lazio. Lì non avevo più il supporto di tutte le persone che mi conoscevano e venivano a vedermi. Oltre a gestire le contestazioni dei giocatori, dovevo scendere negli spogliatoi e sentire l’osservatore fare commenti del tipo: “Considerando che sei una donna…”, come se fosse una colpa. Ci sono stati i momenti in cui ho pensato di smettere».
Invece il suo percorso le ha dato ampiamente ragione
«Sì, soprattutto quando tutto è cambiato perché sono stata nominata arbitro internazionale, nel 2010. È accaduto quando ero in Francia, dove sono approdata nel corso dell’Erasmus mentre studiavo Economia aziendale. Sono stati anni di decisioni importanti. Quando sono arrivata, sono andata a Troyes, nella regione dello Champagne. Non parlavo una parola di francese, ma poi sono rimasta sei mesi oltre la fine dell’Erasmus per prendere una doppia laurea, opzione che consentiva il sistema francese. Mi sono sempre piaciute le sfide».
E lì che cosa è successo?
«Dopo la discussione della tesi di laurea in Italia, cercavo lavoro e ne ho trovato uno in Francia, presso una grande azienda e a tempo indeterminato. Lavoravo come auditor. Ma mi mancava la mia domenica a arbitrare, così ho ripreso contatti con la sezione arbitri di Parigi. E ho dovuto praticamente ricominciare da zero. In Francia l’arbitraggio si basa sui concorsi, non con i voti in classifica come in Italia. L’esame prevede tre prove scritte oltre quella in campo. Una cosa molto seria, per cui ho dovuto studiare tantissimo».
Quando lo faceva?
«Nei fine settimana. E poi avevo preso un preparatore atletico che pagavo a mie spese e con cui mi allenavo tre volte a settimana per arrivare a essere più veloce. Ho fatto tante rinunce, ma sono scelte. C’è chi si tira indietro perché non è disposto a faticare o a mettere in pausa alcuni aspetti della vita, come il divertimento. Alla fine sono stata eletta miglior arbitro di serie A femminile. E ho ricominciato a arbitrare, la mia passione».
Negli anni aveva anche fatto carriera
«Ero diventata una manager, e lì il problema è stato conciliare gli impegni lavorativi con l’arbitraggio. Mi chiamavano per andare in Paesi di tutto il mondo, dalla Russia, al Kazakistan. Poi dovevo usare le ferie per seguire le gare internazionali, che si fanno quando il campionato è fermo, d’estate. Tornavo in azienda al lavoro che invece che riposarmi ero stata tutte i giorni in campo tre ore».
Nel frattempo era diventata mamma di una bambina
«Sì, oggi ha tredici anni. Ma non è stato quella la mia difficoltà. Quando dovevo partire la lasciavo al papà o alla nonna. Me lo chiedono sempre, ma a un uomo non chiederebbero mai dove ha lasciato il figlio se deve lavorare. Tra l’altro prima non era consentito, mentre adesso la FIFA ammette la partecipazione delle famiglie con figli piccoli dopo gli ottavi di finale. È successo all’ultima Coppa del mondo».
Lei però in realtà non era ancora diventata un arbitro professionista
«Non ancora di fatto, ma nel momento in cui ti dichiarano arbitro internazionale devi dare la stessa disponibilità di chi ha un contratto. Mi chiamavano per arbitrare anche in mezzo alla settimana, ma con il tempo la situazione si era fatta insostenibile».
Che cosa ha deciso?
«Sul fronte dell’arbitraggio non avevo nessuna sicurezza, non avevo un contratto ma solo rimborsi spese. Sul lavoro ero una dirigente, avevo lavorato per Pwc e facevo consulenza nella strategia di impresa. Suggerivo ai CEO come ridurre i costi e riorganizzare le strutture ed ero arrivata a guadagnare molto tra stipendio e premi aziendali».
Cosa le dicevano i suoi capi?
Da parte loro percepivo dei malumori perché non potevo girare il mondo e collegarmi in videoconferenza per lavorare, mentre ero da qualche altra parte a fare l’arbitro. Così mi sono guardata dentro, ho pensato a quello che mi rendeva felice e ho preso la mia decisione: mi sono licenziata».
Voleva arrivare alla Serie A e così è stato
«Sono tornata in Italia. E mi sono rimessa a cercare lavoro, ma come manager mi richiedevano di viaggiare, mentre io dovevo conciliare il tutto con la mia vita da arbitro. Allora mi sono messa in proprio, e ho lanciato una agenzia immobiliare».
Da lì si può dire che la sua carriera da arbitro abbia spiccato il volo
«Nel 2018 dopo tanti anni di carriera ho raggiunto finalmente il campionato professionistico. Ma è il 2019 l’anno in cui sono arrivata al più grande obiettivo, quello a cui ho dedicato anni di lavoro e sacrifici e che è sempre stato il mio sogno: arbitrare la finale della Coppa del Mondo. Solo otto terne di arbitri hanno avuto questo privilegio e io sono la prima italiana ad averlo realizzato».
Lo stesso anno è arrivato un altro traguardo
«Sì, importantissimo, sia per me che per tutte le colleghe arbitre (in Italia in tutto sono quattro le centrali e cinque le assistenti): sono stata la prima italiana ad arbitrare una finale maschile internazionale in una terna tutta femminile per la prima volta nella storia del calcio: la Uefa Super Cup Liverpool – Chelsea giocata a Istanbul davanti a 40mila persone allo stadio e 8 milioni di spettatori tv nel mondo. Sono state soddisfazioni ed emozioni uniche».
E poi un altro anno importante, il 2023
«Dopo quattro anni di intensa preparazione sono stata selezionata dalla FIFA per la mia terza Coppa del Mondo in Australia e Nuova Zelanda. Ho arbitrato quattro partite. In più sono stata parte della prima terna femminile in Ligue 1, la Serie A maschile francese».
In Serie A può contare su un contratto
«Sì, sono circa 1600 euro mensili. Uno stipendio, più il gettone a partita. Ma continuo a portare avanti la mia attività in proprio. Oggi sono anche una speaker: in pandemia ho iniziato a formarmi in speech e formazione personale».
Come si combinano queste due carriere?
«Sono dovuta diventare una decisionista professionista non per scelta, ma con l’obiettivo preciso di svolgere al meglio il mio lavoro di arbitro. Per sviluppare questa capacità, mi sono avvicinata alle neuroscienze e sono rimasta affascinata dal loro impatto sulla produttività e sulla loro performance. Attraverso lo studio delle neuroscienze cognitive ho imparato che ciò che faccio in campo isolandomi dai cori, dalle contestazioni, dalle pressioni psicologiche dei giocatori, del pubblico e dei dirigenti, è prendere decisioni in uno stato di flow. Il nostro cervello ha due modalità di pensiero distinte: sistema A e B».
Come si differenziano?
«Il sistema A è intuitivo, automatico e velocissimo. È la modalità a cui attingiamo quando siamo appunto in uno stato di flow, affrontando senza sforzo compiti complessi e prendendo decisioni istantanee. Il sistema B invece è deliberato, logico e più lento. È ciò che entra in gioco quando pesiamo attentamente le opzioni, analizziamo i pro e i contro e riflettiamo su una decisione. Sebbene questa modalità sia preziosa per certi tipi di scelte, farci troppo affidamento può portare a una paralisi da analisi e stanchezza decisionale».
La chiave è nella concentrazione?
«La chiave sta nel coltivare un approccio decisionale basato proprio sullo stato di flow. Accedendovi sblocchiamo il pieno potenziale del nostro cervello, attingendo a quell’intuizione velocissima ma mantenendo comunque un livello di consapevolezza cosciente. Non è necessario correre su un campo da calcio o in piedi su una tavola da surf per accedere allo stato di flow. Con la pratica, si può imparare a sfruttare questo stato di concentrazione e chiarezza in qualsiasi situazione, professionale e personale».
E non sono mancati i riconoscimenti neppure in questo campo del suo percorso
«Sono nella lista delle Most Powerful Woman 2023. LinkedIn mi ha nominato Top Voice 2024 nei campi del decision-making, leadership e women empowerment. Ho anche ricevuto i premi Nereo Rocco e Winning Women Insitute per la mia carriera».
Quali sono i progetti che ha messo in piedi come speaker?
«Ho creato il progetto WinSpire – Inspire to Win, all’interno del quale realizzo interventi motivazionali e formativi per aziende, professionisti e scuole».
E Cartellino Rosso
«Cartellino Rosso ha invece l’obiettivo di formare e ispirare manager e top manager, identificando i comportamenti che in azienda meritano un cartellino rosso. Lo scopo è implementare una nuova cultura aziendale e una leadership inclusiva».
Di che si tratta?
«Una persona che ha un comportamento da cartellino rosso in azienda impatta non solo su sé stesso ma su tutto il suo team e sull’ambiente. Per questo, abbiamo deciso di creare una formazione ad hoc per aiutare le aziende e le società sportive a non ritrovarsi più in situazioni simili».
Ricorderà il bacio di Luis Rubiales, Presidente della nazionale di calcio femminile spagnola, alla giocatrice Jennifer Hermoso dopo la finale dei Mondiali femminili lo scorso 20 agosto a Sydney…
«Menomale che il caso è stato sollevato, sottolineerei come quel gruppo di ragazze sia riuscito a arrivare a quella vittoria nonostante un ambiente del genere. Ce l’hanno fatta contro ogni pregiudizio. E il mio intento oggi con i miei speech è proprio motivare le persone e farle credere nelle proprie potenzialità. Perché è con l’impegno che si raggiungono gli obiettivi». ©
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Articolo tratto dal numero del 15 aprile 2024 de il Bollettino. Abbonati!