martedì, 21 Maggio 2024

Donne nelle STEM: in Italia è una strada ancora in salita

Sommario
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L’Italia non è un Paese per scienziate. Il numero di ragazze che si iscrivono a corsi di laurea STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) non decolla e il gender gap sul lavoro è ancora un grosso problema. «Oggi le cose si muovono, anche se c’è ancora molta strada da fare, nella scienza e nella società, per arrivare ad un modello di normale rispetto – e di conseguenza inclusione – per tutte le persone, indipendentemente dal loro genere, colore, origine, orientamento sessuale, etc.» dice Sara Sesti, docente di matematica e ricercatrice in storia della scienza, membro dell’Associazione Donne e Scienza e autrice del libro Scienziate nel tempo. Più di 100 biografie, edito da Ledizioni.

«Le donne impiegate in questi settori sono ancora numericamente di molto inferiori rispetto agli uomini. Un dato che si ripercuote anche sulla questione del gap retributivo: guardando alle professioni più pagate al mondo, infatti, una buona fetta è costituita da professioni scientifiche, delle applicazioni avanzate, della tecnologia, dell’informatica. Nelle università, negli ultimi dieci anni, non c’è stato un aumento significativo del numero di donne nelle iscrizioni ai corsi di laurea STEM. Le iscritte restano sotto il 40%: questo vuol dire che, se la situazione non cambia, troveremo questa disparità anche nei prossimi decenni».

sesti scienziate

Cosa si aspetta dal futuro?

«La situazione è preoccupante anche solo se ci soffermiamo sull’Intelligenza Artificiale, il settore per eccellenza che oggi fa rima con investimenti e grosse prospettive di applicazione. In questo campo le donne a livello globale sono pochissime: il 22%, contro il 78% di uomini. In pratica un intero settore, per giunta così importante, è sostanzialmente maschile. Uno dei dubbi che ci si pone è: come fa l’AI, che lavora sul pregresso, anche se è generativa, a non perpetuare stereotipi?».Una situazione paradossale, poiché nella storia le scienziate hanno dato un contributo fondamentale all’innovazione. Infatti, senza le loro ricerche e invenzioni, non avremmo Internet, programmi di scrittura e altre tecnologie che fanno parte della nostra quotidianità. Molte però sono state dimenticate, oscurate dai colleghi maschi.

Quali sono le scienziate finite nell’oblio che, secondo lei, hanno dato il contributo maggiore alla storia della scienza?

«Che abbiano scoperto la materia oscura o abbiano elaborato modelli economici sperimentali, che abbiano aperto la via all’informatica o alla biologia molecolare, l’apporto delle donne alla scienza, dall’antichità ai nostri giorni, è stato per lo più minimizzato, messo in ombra o attribuito ai colleghi uomini. Dalla matematica Ada Byron, prima programmatrice, a Maria Gaetana Agnesi, bambina prodigio, dalla medica delle donne Trotula de Ruggiero a Rita Levi Montalcini, dalla fisica Marie Curie a Lise Meitner, scopritrice delle fissione nucleare, dall’economista Elinor Ostrom a Claudia Goldin, ultima vincitrice del Nobel, nel mio libro ho cercato di recuperare oltre cento storie di ricercatrici i cui nomi sono stati dimenticati, lasciati fuori dalla storia. Un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto a età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale».

I pregiudizi sono i principali responsabili del mancato riconoscimento delle donne da parte della storia. Qual è la loro origine?

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«Un antico luogo comune ha bollato le donne come non portate per il pensiero scientifico. Aristotele, per primo, riteneva che le donne fossero inadatte per natura al pensiero astratto, in quanto la maternità le vincolerebbe alla vita materiale, lasciando solo all’uomo la possibilità di elevarsi. Parliamo di un pregiudizio che si è tramandato per secoli nella cultura occidentale e ha lavorato dentro di noi divenendo una profezia che si auto avvera. Un luogo comune che ha creato molti danni sociali.

Il più grave è che i luoghi di produzione del sapere, fino alla metà dell’Ottocento, furono riservati esclusivamente agli uomini. Solo nel 1876, il Politecnico di Zurigo ha consentito alle ragazze l’accesso all’università: come potevano prima di allora familiarizzare con la scienza e portare contributi senza ricevere un’istruzione superiore che fornisse le basi necessarie? Parte da qui il timore delle nostre giovani nei confronti delle materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics)».

Quale tratto accomuna le scienziate presenti nella sua ricerca?

«Credo sia la fiducia in se stesse, caratterizzata dalle loro scelte contro tutto e tutti. Credo che l’autostima sia quel carburante che spesso manca oggi alle ragazze che non osano affrontare lo studio e la carriera nelle discipline STEM e che invece non è mancato alle grandi scienziate. È importante quindi fare in modo che le giovani menti acquistino fiducia fin da piccole».

Con che criterio ha selezionato le donne protagoniste del suo libro?

«Ho privilegiato le studiose le cui opere e scelte di vita erano bene documentate e le ricercatrici che hanno dato importanti contributi alla scienza, ma anche coloro che mi sono sembrate particolarmente significative per la storia delle donne, come Mileva Marić, che ha sacrificato la sua autonomia scientifica all’amore per il marito Albert Einstein, tanto che il suo lavoro è stato totalmente assorbito da quello dello scienziato e non è più ricostruibile con certezza. Prima dell’apertura delle università alle studentesse, le scienziate che riuscivano ad affermarsi provenivano per lo più da famiglie facoltose e colte ed erano quasi sempre affiancate da una figura maschile molto importante, in grado di fornire loro l’istruzione che veniva negata dalle istituzioni.

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Ricordo le coppie formate da Ipazia e dal padre, il matematico Teone, da Caroline Herchel e dal fratello Wilhelm, pionieri dell’astronomia, dalla Marchesa du Châtelet e l’amico Voltaire, dai coniugi Lavoisier, fondatori della chimica moderna. Dopo l’apertura delle università, le donne si sono rese autonome negli studi e le ha accomunate solo la loro sincera passione per la ricerca».

Quali problematiche sono emerse dallo studio delle biografie delle scienziate?

«Le donne sono state pioniere in molti settori della scienza e della tecnologia, ma sono state escluse dal loro campo di ricerca appena l’ambito si consolidava e otteneva riconoscimenti e investimenti. Uno sgambetto clamoroso è avvenuto nel settore dell’informatica, nonostante all’alba della rivoluzione del computer le donne avessero dominato la programmazione: Ada Byron scrisse il primo algoritmo nella metà dell’Ottocento, un’epoca in cui la macchina era solo un progetto visionario. Poi, quando nel 1943 fu realizzato il primo calcolatore elettronico, la sua programmazione venne affidata a un gruppo di sei giovani matematiche: le Eniac’s girls. Fino alla metà degli anni Sessanta gli uomini realizzavano l’hardware e le donne si occupavano del software. Gli stereotipi sessisti che oggi le escludono, allora le avvantaggiavano: chi dirigeva il personale delle aziende tecnologiche riteneva infatti che avessero più pazienza e attenzione ai dettagli, requisiti fondamentali per un programmatore di successo».

Poi cosa accadde?

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«Negli anni successivi avvenne una svolta: gli scienziati capirono che la programmazione era centrale e la trasformarono gradualmente in una disciplina scientifica maschile e dallo status alto, predisponendo autentiche barriere antifemminili, come i titoli di studio avanzati. Molte scienziate sono riuscite tuttavia a superare i vari ostacoli, apportando miglioramenti e innovazioni: per esempio, la diva hollywoodiana Hedy Lamarr ha posto le basi per le telecomunicazioni senza fili, Wi-fi, Blutooth e GPS. Inoltre, la tecnologia da lei inventata è stata scelta a metà degli anni Ottanta come base per l’odierna telefonia cellulare.

L’ho scelta per la copertina, perché la sua storia contraddice un altro stereotipo che ancora pesa sulle donne. Parlo del luogo comune secondo cui se sei bella non puoi essere intelligente. Molte delle operazioni che compiamo quotidianamente sono frutto di ricerche e invenzioni femminili, come collegarci a Internet, scegliere un carattere in un programma di scrittura, guardare un’immagine sullo smartphone, cliccare sulle icone».

Quanto è difficile per una scienziata ottenere il Premio Nobel?

«Finora lo hanno vinto soltanto in 28, un numero molto esiguo, che rappresenta solo il 4% del totale. Questo non perché le donne siano meno dotate dei colleghi, ma piuttosto, perché il talento può emergere solo a parità di condizioni. Una situazione che in passato non si è verificata e che stenta ancora a realizzarsi. Le scoperte premiate sono caratterizzate dall’essere molto consolidate. risalgono ad anni in cui le scienziate non erano gradite nei laboratori, lavoravano a titolo gratuito, spesso isolate dai colleghi, non potevano firmare i loro lavori, ma solo siglarli. In più, subivano precariati più lunghi e ritardi nelle carriere. La prima a ricevere il prestigioso riconoscimento è stata Marie Curie, che ne ha ottenuti due: in fisica e in chimica.

Le ultime premiate hanno ricevuto il Premio nel 2023 e sono ricercatrici straordinarie. Anne L’Huillier è stata insignita del Nobel per la fisica per un nuovo metodo per studiare gli elettroni mediante impulsi di luce rapidissimi. Katalin Kariko è stata premiata, invece, per la medicina per aver messo a punto il metodo a RNA messaggero. Metodologia usata per realizzare i vaccini anti Covid. Infine, Claudia Goldin, per l’economia, ha ricevuto il riconoscimento per i suoi studi storici sulle differenze che il Mercato del lavoro applica alle donne: un Mercato avido, perché non tiene conto di cause ed effetti. Ora il Nobel premia ricerche più recenti e si spera in un cambiamento».

Quanto pesa il fenomeno della fuga dei cervelli?

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«La fuga dei cervelli è un falso problema, secondo me: la scienza è un’impresa dell’umanità e non dovrebbe essere vista come una gara tra nazioni. Detto questo, non possiamo certo ignorare che le culture, gli ambienti sociali e le condizioni al contorno siano diverse, e che ci siano posti in cui si lavora meglio o peggio che in altri. Un’esperienza di lavoro significativa in ambienti diversi non può che arricchire le persone, e chi si occupa di scienza in particolare.

Quindi, ben venga la possibilità di fare esperienze altrove, e tanto meglio se queste sono poi ridistribuite quando si torna. Questo negli ultimi anni sta avvenendo. A mio parere, quel che più ci manca è lo scambio regolare. Se è normale passare qualche anno in laboratori all’estero, dovrebbe esserlo anche accogliere da noi persone da tutto il mondo. Cosa che purtroppo ancora non succede. Un finanziamento adeguato anche a questo scopo aiuterebbe senz’altro».

Si parla spesso dell’importanza di incentivare le ragazze a studiare materie STEM, ma c’è davvero spazio per le donne nella scienza?

«Penso proprio di sì: i laboratori sono pieni di laureande, dottorande, assegniste, post-doc, etc. Poi però gli uffici dirigenziali sono pieni di uomini. Da una parte, molte donne sono indotte a lasciare il lavoro per motivi di genere. Ragioni che vanno dalla maternità alle molestie alla difficoltà di essere considerate per il proprio lavoro. Dall’altra, la sete di potere è più maschile che femminile, ed è questo che spesso porta gli uomini a candidarsi per posizioni ad alto livello. Negli anni, qualcosa inzia a muoversi, anche se molto lentamente. Non tutte, tra le poche donne che sono ai vertici, hanno una visione femminista. Spesso, scienziate molto brave preferiscono attribuire alle loro capacità e sacrifici l’aver raggiunto alti livelli, magari senza rendersi conto del fatto che al loro stesso livello i colleghi uomini ci sono arrivati con molte meno competenze e fatica».

Che consiglio darebbe alle giovani che sognano di fare il suo mestiere?

«Non lasciatevi scoraggiare: potete fare tutto quello che volete. Sappiate che sono per fortuna moltissime le donne più grandi che possono aiutarvi a superare le difficoltà che un mondo ancora fortemente patriarcale vi mette davanti. Chiamateci e ci troverete al vostro fianco». ©

Articolo tratto dal numero del 1 maggio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

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