lunedì, 29 Aprile 2024
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Donne e lavoro non vanno in tandem. Anzi. La difficoltà di trovare un’occupazione e riuscire a far carriera alimenta la violenza economica. L’assenza di welfare per madri e caregiver crea un circolo vizioso che chiude un cerchio fatto di discriminazione e segregazione. Una situazione denunciata a più riprese dalla società civile e cristallizzata nello studio redatto da Cedaw (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) e coordinato da DIRE (Donne in rete contro la violenza) dal quale emergono dati definiti allarmanti.

La disparità economica tra uomo e donna

Innanzitutto emerge che il PNRR destina quasi l’80% dei fondi a settori commerciali a maggioranza di lavoratori maschi. Ma c’è di più. Case rifugio e centri antiviolenza sono sottofinanziati e i fondi, quando ci sono, arrivano in estremo ritardo. Intanto sono però aumentati di 9 milioni di euro i finanziamenti per i programmi di riabilitazione degli autori di violenza di genere. Dei 10 milioni di euro l’anno stanziati per il Reddito di Libertà finalizzato a sostenere le vittime invece godranno 2mila donne su un bacino di 21mila potenziali beneficiarie. «La grave disparità economica e di potere tra uomo e donna è la nostra preoccupazione di fondo», dice Antonella Veltri Presidente dell’associazione DIRE.

Cosa manca per rendere concrete le pari opportunità nel nostro Paese?

«È necessario rafforzare in una prospettiva a lungo respiro: la dimensione di genere per l’eliminazione delle discriminazioni contro l’universo femminile. Serve riformulare la politica nazionale per le pari opportunità sul lavoro e potenziare le misure volte ad aumentare l’accesso delle donne all’occupazione. Come? Attraverso un aumento della disponibilità di servizi di assistenza all’infanzia di qualità a prezzi accessibili. In modo tale da adottare programmi che possano sostenere le donne che cercano di entrare nella forza lavoro dopo lunghe interruzioni di carriera. Purtroppo attualmente il mercato tende a emarginare le lavoratrici. È un dato di fatto».

L’accesso al Mercato del lavoro contribuirebbe ad arginare la violenza di genere?

«Come rete nazionale dei centri antiviolenza abbiamo l’esperienza per affermare che alla base della mancata emersione del fenomeno della violenza di genere ci siano le criticità che impediscono alle donne di essere autonome ed economicamente indipendenti. Spesso le vittime non hanno strumenti per poter andare avanti in un percorso di libertà ed emanciparsi. Allo stesso tempo è indispensabile formare gli avvocati e gli operatori che lavorano in ambito giudiziario per superare i pregiudizi e prevenire la vittimizzazione secondaria cioè quando nelle aule dei Tribunali non vengono credute. Solo il 30% delle donne che si rivolge ai centri antiviolenza decide di intraprendere il percorso con la giustizia e denunciare.

Questo è un problema dovuto sicuramente a un fattore economico, però contribuisce anche la scarsa formazione dei professionisti che operano nel settore. Soprattutto quando si parla dell’affidamento dei figli nelle separazioni bisogna tener conto non solo del reddito, ma dare peso alla storia di violenza del nucleo familiare. Crediamo che la violenza economica sia una delle più pervasive e più nascoste tra gli abusi che le donne possono subire. Si manifesta nelle forme più disparate: il mancato accesso al conto corrente, l’attribuzione di debiti, la firma di fideiussioni che non hanno coperture adeguate, ecc. Sappiamo bene di cosa parliamo e anche come muoverci per poter rendere le vittime autonome e libere dalla violenza».

Nel report si lamenta come i finanziamenti per i centri antiviolenza vengano dirottati verso le associazioni pro-vita, perché?

«È un’anomalia tutta italiana. Esistono dei requisiti minimi per aprire centri antiviolenza e ricevere fondi pubblici. L’idea è di dotare il Paese di strutture per ricostruire l’esistenza, proteggere, prevenire e intervenire attraverso azioni che tengano conto della volontà e del vissuto della donna nel momento in cui subisce violenza ed entra nel circuito dell’accoglienza. In questo momento lo Stato Italiano sta modificando questi criteri allargando le maglie per far rientrare nei finanziamenti (che sono già pochi e insufficienti a soddisfare le richieste) anche le associazioni pro-life antiabortiste. Abbiamo recapitato al Governo attraverso un incontro con il Dipartimento delle Pari Opportunità le nostre osservazioni in merito perché agendo così polverizziamo le risorse. Rischiamo che centri attivi da anni competenti e professionali ricevano meno fondi perché devono essere distribuiti a una platea più ampia. In più si reca un danno all’emersione del fenomeno della violenza e alle donne stesse che cercano libertà in quanto si ritrovano ad interfacciarsi con realtà che operano processi di mediazione familiare in direzione di una riappacificazione che sappiamo bene, lascia il tempo che trova. Perché poi quelle donne vengono convinte a ritornare nella dimensione della violenza dalla quale volevano scappare».

Quando una disoccupata denuncia il marito e viene accolta da un centro antiviolenza le si azzera il reddito. Come fa a ricostruire la propria vita?

«Funziona così: la donna viene ascoltata in un centro antiviolenza, inizia un suo percorso con le operatrici e viene messa nelle condizioni di entrare in una delle oltre 60 case rifugio che i centri della rete DIRE hanno sul territorio nazionale. Sarà accolta con i suoi figli minori per un tempo utile alla ricerca di una dimensione lavorativa ed economica adeguata. La nostra associazione ha dei fondi dedicati ai quali i centri della rete DIRE possono accedere presentando apposita domanda destinata a dare accoglienza alla vittima. Sono risorse che raccogliamo sia partecipando a dei bandi con i nostri progetti sia attraverso le donazioni come quella che ci ha fatto Chiara Ferragni consentendoci di aprire alcuni sportelli di orientamento al lavoro. Dobbiamo tener contro che spesso ci ritroviamo di fronte a donne a cui manca anche la capacità, la possibilità, l’esperienza, la competenza per redigere un semplice curriculum. Madri che non sanno come fare per accedere a un computer e per poter guardare i siti che contengono offerte lavorative.

Non è così semplice l’inserimento professionale perché il mercato del lavoro è abbastanza chiuso e non abbiamo canali privilegiati per i centri antiviolenza. E poi ci sono le differenze territoriali. In alcuni regioni del Nord Italia (Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana) le occasioni sono maggiori rispetto al Centro e al Sud ed è più facile trovare possibilità di inserimento lavorativo con stipendi dignitosi. Avendo centri sparsi lungo l’intero Paese abbiamo misura del grado diverso di difficoltà nel trovare occupazione nelle varie realtà. È innegabile che al Sud facciamo fatica a cercare un lavoro per le donne vittime di violenza allora puntiamo all’autoimprenditorialità o a inserimenti nel settore dei servizi. Insomma la ricerca deve essere più fantasiosa perché manca un tessuto produttivo e chi viene penalizzato, sicuramente è l’universo femminile e in particolare le donne che escono da percorsi di violenze e hanno necessità di mantenersi in autonomia».

Le donne che hanno un impiego però, si denuncia nel report, vengono confinate a professioni poco remunerative: perché?

«È la segregazione verticale che riscontriamo in tutti gli ambiti, soprattutto in quelli accademici. Per una donna è sempre più difficile rispetto ad un uomo scalare di livello, progredire di ruolo, raggiungere i livelli dirigenziali. Sicuramente per colpa di stereotipi ancora lungi dall’essere scardinati, ma anche per ragioni oggettive che riguardano la rinuncia alla carriera a causa dell’assenza di servizi di cura e di assistenza all’infanzia. Con un welfare così carente la donna è quasi costretta ad allontanarsi dalla dimensione lavorativa di autonomia economica. Al più, in queste condizioni, può ambire a un part-time. Abbiamo bisogno di una rete di interventi che partano dal welfare con asili nido, centri anziani, strutture per i disabili, per consentire alle donne di poter andare al lavoro.Sul gender gap c’è tanto ancora da fare».

Le mamme come possono conciliare i tempi di lavoro con gli impegni familiari?

«L’assenza di misure di welfare adeguate pesa maggiormente quando si hanno dei figli. I posti negli asili pubblici sono pochi, i prezzi di quelli privati sono proibitivi. Come si fa? Ci si ritira a vita privata. Si sceglie di non andare a lavorare e sostentarsi con lo stipendio del marito. Poi però in queste stesse condizioni si chiede di alzare il tasso di natalità. È un controsenso. C’è una contraddizione di fondo, non si può incentivare la maternità senza mettere in campo azioni mirate a sostenere le lavoratrici che intendano crescere dei bambini in piana autonomia senza dipendere da un uomo. Quindi è ormai evidente che saremo sempre di più una società di vecchi e non di giovani generazioni».

Nelle raccomandazioni rivolte al Governo si chiede che la spesa pubblica non venga ridotta a scapito dei trattamenti sanitari di base delle donne e delle libere scelte riproduttive. Cosa significa?

«Chiediamo che la spesa pubblica debba essere orientata anche rispetto alle volontà, alle possibilità e alla libertà delle donne. Per far progredire il Paese non ci servono barriere all’aborto sicuro, alla contraccezione accessibile. La società civile reclama un intervento dello Stato concreto in cui ci sia una tutela dei diritti alla salute in particolare quella sessuale riproduttiva. Oggi non è così perché abbiamo nei consultori, negli ospedali e negli ambulatori pubblici troppi obiettori di coscienza e non si riescono ad accogliere e dare risposte tempestive a donne che vogliono interrompere la gravidanza. Di pari passo si è sviluppato quel movimento pro-life che terrorizza, con spot fatti di immagini di feti e simulazioni di battiti cardiaci, invece di affrontare concretamente un problema che riguarda la vita riproduttiva delle donne stesse. E la libertà delle loro scelte». ©

Articolo tratto dal numero del 15 aprile 2024 de il Bollettino. Abbonati!

📸 Credits: Canva

Giornalista professionista appassionata di geopolitica. Per Il Bollettino mi occupo di economia e sviluppo sostenibile. Dal 2005 ho lavorato per radio, web tv, quotidiani, settimanali e testate on line. Dopo la laurea magistrale in Giornalismo e Cultura Editoriale, ho studiato arabo giornalistico in Marocco. Ho collaborato a realizzare in Saharawi il documentario La sabbia negli occhi e alla stesura della seconda edizione del Libro – inchiesta sulla Statale 106. Chi è Stato?