venerdì, 7 Febbraio 2025

Sul calcio cala l’ombra dei fallimenti societari

Sommario
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Dal 2000 a oggi, oltre 180 squadre professionistiche del calcio italiano sono fallite. In media, 7 società ogni anno. La maggior parte in Serie C, ma anche team di categorie maggiori hanno conosciuto questo destino. Perfino in Serie A. Inclusi alcuni club storici: Torino, Fiorentina e Napoli. Alla luce dei numeri, si può dire che il fallimento delle società professionistiche sia un fenomeno tristemente strutturale del calcio italiano. La stagione che sta per concludersi potrebbe far crescere questo numero, viste le difficoltà finanziarie di alcuni team, che potrebbero non disputare il prossimo campionato.

Se dal punto di vista sportivo l’estromissione di una squadra dal campionato di competenza mina la regolarità del torneo, d’altro canto porta con sé conseguenze rilevanti anche sul piano economico. L’impatto non è di poco conto e può variare all’interno di una forbice che va da qualche decina di milioni a diverse centinaia di milioni di euro. Dal punto di vista sociale, non vanno sottovalutate le ricadute della scomparsa di un club professionistico sull’area geografica e sul bacino che rappresenta. Per esempio, con il venir meno dell’attività di una scuola calcio per i bambini e per i giovani. E quindi di importanti spazi di aggregazione giovanile.

Ma perché questo avviene? Quali sono le cause di questo fenomeno? E perché è diventato particolarmente frequente in Italia? Cosa ha fatto il Sistema calcio per limitarlo?

Cosa significa fallimento

Con la legge n. 91 del 1981 le società sportive sono state trasformate in Società per Azioni (SPA) o Società a responsabilità limitata (SRL). L’eventuale fallimento è quindi regolato dal diritto ordinario. Il testo di riferimento è ancora la legge n. 267 del 1942 con le sue successive modifiche: in particolare, i Decreti Legislativi n. 5 del 2006 e n. 14 del 2019, quest’ultimo entrato in vigore nel luglio del 2022 (salvo per alcuni specifici articoli e commi). In estrema sintesi, come noto, nel nostro sistema giudiziario una società fallisce quando non riesce a saldare i debiti contratti.

A decretare il fallimento è il Tribunale, che nomina poi un curatore fallimentare. Questi cerca di pagare i creditori liquidando il patrimonio della società fallita. Quando ciò avviene, la squadra perde automaticamente il titolo sportivo – definito dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) come il “riconoscimento delle condizioni tecniche sportive che consentono, concorrendo gli altri requisiti previsti dalle norme federali, la partecipazione di una società ad un determinato Campionato” – e subisce la revoca dell’affiliazione alla Federazione, regolamentata dall’articolo 16 delle Norme Organizzative Interne della FIGC (NOIF).

Se il fallimento avviene a stagione in corso e la società ottiene l’esercizio provvisorio, le conseguenze sul piano sportivo vengono sostanzialmente spostate al campionato successivo. Nel caso in cui venga disposta la liquidazione giudiziale, invece, l’esclusione può avvenire anche nel corso della stagione. Tra le società a cui è successo, appare il Trapani, nel 2020/2021, e la Pro Piacenza nel 2018/2019.

Sebbene la maggior parte dei club professionistici che falliscono militi in Serie C, anche le squadre di rango superiore non sono esenti dal rischio. Negli anni, infatti, il fallimento ha colpito anche alcune grandi team e società di Serie A. L’esempio più recente è quello del Parma, fallito durante la stagione 2014/2015 dopo aver cambiato 4 proprietari in pochi mesi. Nel 2005 era toccato al Torino e al Perugia, che pur avendo conquistato la promozione dalla Serie B alla Serie A avevano dovuto rinunciare al massimo campionato. Nel 2002 era fallita la Fiorentina, retrocessa sul campo tra i cadetti e costretta a ripartire dall’allora Serie C2.

Le regole della FIGC

Per limitare il fenomeno, la FIGC ha introdotto nel tempo delle regole che le società devono rispettare per iscriversi al campionato. Queste incidono sia sul piano economico sia su quello sportivo e sono definite da diverse fonti normative. A partire dalle NOIF (Norme Organizzative Interne della Federazione), che delineano il quadro generale. I criteri specifici vengono definiti dalla Federazione attraverso il Sistema delle licenze nazionali, aggiornato annualmente. Qui sono individuati i requisiti definiti da ogni singola Lega, ulteriormente specificati e commisurati al campionato di interesse. Al fine di iscriversi a un campionato, ciascuna società deve rispettare una serie di adempimenti, sul cui assolvimento vigila la Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio Professionistiche (CoViSoc).

La mancata osservanza degli obblighi prescritti entro i termini previsti può comportare sanzioni che vanno dalle penalizzazioni in classifica alla non concessione della licenza di partecipazione al campionato. E quindi all’estromissione. Le regole della FIGC e delle diverse Leghe, negli ultimi anni, sono diventate più restrittive. E i controlli, teoricamente, più severi. Ciò non ha sortito particolari effetti. Ogni anno diverse società continuano ad andare in crisi e falliscono o, quantomeno, corrono seriamente questo rischio. Anche per questo, il Governo sta pensando di istituire un proprio ente di controllo che prenderebbe il posto della CoViSoc

I numeri fanno acqua

Il calcio in Italia non è un business sostenibile. Non è in grado di autoalimentarsi, nonostante l’alta quantità di denaro che esso fa circolare. Non produce ricchezza, ma indebitamento e depatrimonializzazione. Sono queste le condizioni che hanno reso il fallimento dei club professionistici un fenomeno ordinario del calcio italiano.Analizzando il Report Calcio 2023 della FIGC è evidente come a soffrire sia l’intero sistema. Nel 2021/2022 (anno a cui si riferisce l’analisi) i costi sono stati di 4,7 miliardi di euro, a fronte di un fatturato di 3,4 miliardi. Una perdita netta di 1,3 miliardi, che riflette il trend del sistema (sebbene sia da osservare come nelle tre stagioni comprese tra il 2019 e il 2022 l’impatto della pandemia da Covid 19 abbia avuto un peso rilevante).

Elevato è l’indebitamento. L’intero sistema calcio ha passività per 5,6 miliardi di euro, mentre il patrimonio netto aggregato è pari a 440 milioni di euro. Oltre la metà dei debiti (circa 3 miliardi di euro) sono a carico delle squadre protagoniste della Serie A. Una delle voci più pesanti tra le spese di un club professionistico è quella del costo del lavoro. Per le squadre italiane, questo incide per circa il 50% sui costi complessivi. Rispetto ai ricavi, gli stipendi hanno un impatto decisamente alto: oltre l’80% degli introiti di un club professionistico vengono destinati agli stipendi. Anche se il monte ingaggi della Serie A è in diminuzione da diverse stagioni.

Gli incassi dipendono principalmente dai diritti televisivi, che portano nelle casse dei club il 37% del fatturato. Altro elemento che contribuisce non poco agli introiti è il calciomercato, sebbene questo abbia un’incidenza in diminuzione rispetto al passato. Si tratta delle famose plusvalenze, che nel 2021/2022 valevano il 17% degli incassi

Quindi i ricavi delle squadre dipendono in grossa parte da fattori esterni ai club stessi. Una congiuntura negativa può mettere a serio rischio la sopravvivenza delle società. Nel corso della pandemia da Covid-19 infatti le chiusure e le riduzioni della capienza degli stadi hanno ridotto drasticamente i ricavi da botteghino, mentre i broadcaster hanno abbassato le offerte per i diritti tv. E lo Stato è dovuto intervenire con la cosiddetta Norma Salva Calcio. Un emendamento alla Legge di Bilancio 2023, con cui agli enti sportivi (comprese le società di calcio professionistico) viene permesso spalmare in 60 rate tutti gli oneri arretrati con il fisco. Misure che i club, insieme alla FIGC, hanno reputato insufficienti. Eppure, l’impatto che il calcio ha sul PIL nazionale non è indifferente: 22 miliardi di euro annui.

Le criticità economiche sono ancora più rilevanti per i club delle categorie minori. Con una visibilità più bassa, le entrate sono decisamente risicate. Gli sponsor è inevitabile che siano meno munifici, mentre sono ridotte le possibilità commerciali e molto basse le cifre dei diritti televisivi. Basti considerare come esempio su tutti il campionato in corso. In questa stagione, la Lega Pro ha garantito a ogni club 70mila euro grazie all’accordo con Sky. La cifra potrebbe sembrare forse irrisoria, eppure si tratta di un grande salto in avanti rispetto al passato.

Il risultato è che la perdita media di un club di Serie C è pari a 1,9 milioni di euro a stagione, mentre l’indebitamento medio è cresciuto fino a 3,4 milioni. Cifre che per una squadra della Lega Pro possono essere fatali e segnare la fine del gioco con il fallimento e l’uscita dal campionato. Questo accade nonostante i contributi di mutualità: dalle squadre promosse in Serie B arrivano circa 7 milioni di euro, mentre la Serie A ne versa 26 milioni per la Legge Melandri.

Anche in Serie B la situazione non è rosea. Le squadre della seconda divisione nazionale hanno fatto registrare complessivamente perdite per 268,2 milioni di euro. Altissimo l’indebitamento, pari a 525 milioni, a fronte di un patrimonio netto negativo per 27,8 milioni.

Tanto per la Serie B quanto per la Serie C la situazione è ancora più rischiosa perché la sopravvivenza dei club dipende spesso da un singolo investitore. E se quest’ultimo si trova a sua volta in difficoltà economica o, semplicemente, decide di disimpegnarsi dalla società, per quest’ultima è spesso la fine. Anche se la sentenza del Tribunale dichiarativa di fallimento può essere impugnata per ottenerne la revoca (dimostrando che la liquidazione della società sia stata dichiarata ingiustamente) il provvedimento per una squadra con poche risorse rappresenta spesso una vera e propria condanna a morte.

La questione stadi

L’impatto benefico di uno stadio di proprietà può portare nelle casse di una società diverse decine di milioni (nel caso della Premier League inglese, i ricavi da stadio superano anche il centinaio di milioni). Un impianto, infatti, può essere utilizzato da un club anche al di fuori degli impegni sportivi. Può essere sede di attività commerciali e diventare un punto di intrattenimento e ospitalità non soltanto per i tifosi. Inoltre, costituisce un asset importante a livello patrimoniale. Il Chelsea, ad esempio, ha potuto cedere due hotel di sua proprietà che facevano parte del Chelsea Village di Stamford Bridge incassando circa 90 milioni di euro.

Ma l’Italia, da questo punto di vista, è ancora molto indietro. Soltanto 7 squadre professionistiche nel nostro Paese sono proprietarie dello stadio in cui giocano: Atalanta, Frosinone, Juventus, Sassuolo e Udinese in Serie A; a queste si aggiungono Albinoleffe e Cremonese.

Le altre società sono frenate da diversi fattori. Sicuramente, costruire uno stadio, come ha fatto la Juventus, o acquistarne uno già esistente e ristrutturarlo comporta dei costi non indifferenti e dei tempi non certo brevissimi. A questo si aggiungono spesso ostacoli burocratici e, talvolta, anche politici. I club stessi, comunque, non sono esenti da colpe. Oltre ad aver compreso in grave ritardo, rispetto al resto d’Europa, l’importanza di possedere un proprio impianto, in molte occasioni non sono stati in grado di presentare progetti validi alle amministrazioni.

I settori giovanili ignorati

Un altro punto dolente è quello legato ai settori giovanili. In Italia sono scarsamente sfruttati. Investire sul vivaio, per un club, può portare vantaggi economici importanti, come dimostra l’esempio dell’Atalanta. Negli ultimi 10 anni, gli orobici hanno incassato ben 250 milioni di euro dalle cessioni dei calciatori formati in casa. In realtà, le squadre italiane spendono tanto per i propri settori giovanili: 120 milioni all’anno in totale. I costi sono soprattutto legati all’acquisto dei cartellini dei giocatori e ai loro stipendi.

Si tratta di giovani spesso già pronti a scendere in campo che vengono impiegati per vincere trofei a livello giovanile, ma che generalmente trovano poco spazio in prima squadra. Il campionato italiano è il 28° in Europa per impiego di giocatori formati sotto la propria ala. Le squadre non puntano a forgiare talenti, ma preferiscono giocatori già professionalizzati. Questo nonostante le regole impongano la presenza di un certo numero di calciatori cresciuti in casa, sia a livello nazionale sia nelle competizioni europee.

Eppure, l’investimento nel settore giovanile porterebbe non pochi vantaggi. Formare un giocatore nel propri spogliatoi costa meno che comprare un campione e può garantire degli importanti utili di bilancio attraverso le plusvalenze. Allo stesso tempo però richiede ingenti risorse dal punto di vista strutturale e delle competenze dei tecnici addetti alla formazione dei giovani atleti. E il ritorno economico non è immediato. In più, per società già indebitate, investimenti di questo tipo sono estremamente complessi.

Gli interventi della FIGC

Negli anni, le norme della FIGC per tentare di risanare i conti del calcio italiano si sono fatte via via più restrittive. Prevedono il deposito di garanzie per poter coprire i costi di un campionato. I controlli della CoViSoc sono oggi, sulla carta, più approfonditi. Eppure, il calcio continua a produrre indebitamento. E ogni anno continuano a verificarsi fallimenti di diverse società professionistiche.

Da tempo si discute, negli uffici e nelle assemblee federali e delle diverse leghe, di come intervenire per riformare il calcio italiano. Si sono introdotte norme per favorire l’impiego dei giovani; sono cambiati i criteri per la suddivisione dei ricavi dai diritti tv; si è parlato di cambiare il format dei campionati e di ridurre il numero di squadre professionistiche. In più occasioni, qualcuno ha proposto la reintroduzione del campionato semiprofessionistico di Serie C2, per rendere più facile il passaggio al professionismo delle squadre promosse dalla Serie D ed è stato creato il cosiddetto paracadute, ovvero il contributo che le società retrocesse da un campionato all’altro incassano per fronteggiare le perdite conseguenti al declassamento subito. Molte proposte sono state bloccate e rispedite al mittente in più occasioni, mentre quelle che sono state approvate non hanno dato i risultati attesi.

La domanda da farsi è se questi interventi possano davvero risolvere i problemi e non, piuttosto, aggirarli o spostarli (nel tempo o nelle varie categorie della piramide calcistica). E se, invece, non sia più opportuno rivedere per intero il modo in cui il calcio professionistico genera e impiega il denaro. ©

Articolo tratto dal numero del 15 maggio 2024 de il Bollettino. Abbonati!

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