sabato, 5 Ottobre 2024

Ricerca e PNRR: dopo il 2026, il futuro è un grande punto di domanda

DiIlaria Mariotti

1 Settembre 2024 ,
Sommario

In Italia non ci sono mai stati tanti fondi destinati alla ricerca. Sono tempi di vacche grasse, e i motivi sono sostanzialmente due. Da una parte il PNRR, il Piano di Ripresa e Resilienza, che al comparto ha destinato un pezzo sostanziale dei 194,4 miliardi di euro messi sul piatto, ovvero 15 miliardi. L’altra parte arriva invece dai Progetti di rilevante interesse nazionale, i cosiddetti PRIN. A loro volta finanziati dal PNRR, sono stati sbloccati nel 2022, facendo confluire nelle casse della ricerca pubblica italiana quasi 2 miliardi di euro. Un tesoretto che finora ricercatori e professori delle università italiane avevano stentato a vedere, abituati, al contrario, ad arrancare in perenne sottofinanziamento per assunzioni e progetti.

Confronto con l’estero impietoso

Adesso sembra succedere il contrario: di fondi ce ne sono in abbondanza e appaiono lontani i tempi in cui i ricercatori facevano fatica a trovare un posto di lavoro. Non bisogna però illudersi troppo. Il confronto con l’estero resta impietoso, specie se si osserva l’andamento dei fondi pubblici rispetto al PIL. La dimostrazione di come la strada da percorrere sia ancora lunga, per uno Stato che voglia dimostrare di voler puntare davvero sulla ricerca. E non solo per l’urgenza di dover spendere la vagonata di soldi arrivata da Bruxelles, quei 194,4 miliardi approvati dalla Commissione europea a luglio 2021 e da impiegare entro il 2026. Perché qui arriva il nodo: rispettare le scadenze, i paletti che impone il Piano tra milestone e target, è la condizione per incassare le rate disponibili; e il rischio diventa quello di – dovendo correre – finire per finanziare un po’ di tutto pur di spendere.

I fondi

Il PNRR si sviluppa intorno a tre assi strategici condivisi a livello europeo: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, inclusione sociale. Si articola in componenti, raggruppate in 7 missioni. «Ciascuna componente contiene, al suo interno, investimenti e riforme che condividono priorità trasversali, relative alle pari opportunità generazionali, di genere e territoriali» si legge sul sito del MUR, il Ministero dell’Università e Ricerca. «I progetti sono valutati sulla base dell’impatto che avranno nel recupero del potenziale dei giovani, delle donne e dei territori, e nelle opportunità fornite a tutti, senza alcuna discriminazione». È nella missione 4 del PNRR che si trova il dettaglio dei fondi alla ricerca, in un capitolo che comprende anche l’istruzione. L’obiettivo di questo pilastro è «rafforzare le condizioni per lo sviluppo di una economia ad alta intensità di conoscenza, di competitività e di resilienza, partendo dal riconoscimento delle criticità del nostro sistema di istruzione, formazione e ricerca». Il totale destinato alla Missione 4 è di 30,09 miliardi di euro.

La componente due

La componente 2, quella destinata a ricerca e impresa, riceve uno stanziamento complessivo di 8,55 miliardi di euro, il cui beneficiario è il MUR. Lo scopo che si prefigge è «innalzare il potenziale di crescita del sistema economico, favorendo la transizione verso un modello di sviluppo fondato sulla conoscenza, conferendo carattere di resilienza e sostenibilità alla crescita, con un significativo aumento del volume della spesa in R&S (Ricerca e Sviluppo, ndr) e un più efficace livello di collaborazione tra la ricerca pubblica e il mondo imprenditoriale» si legge sul sito ufficiale del PNRR, Italia Domani. A parte ci sono poi le riforme, finanziate con ulteriori 6,8 miliardi.

La distribuzione dei fondi

I progetti si valutano secondo criteri quali la garanzia dell’impatto di lungo termine, le ricadute nazionali sul sistema economico e produttivo, la “cantierabilità” in relazione alle scadenze del Piano. Con fondi più che generosi. Ci sono ad esempio 1 miliardo e 242mila euro per la creazione e il rafforzamento di ecosistemi dell’innovazione e la costruzione di leader territoriali di R&S. E ancora, 210 milioni per progetti presentati da giovani ricercatori, 510 milioni per partenariati tra università, centri di ricerca, imprese e finanziamenti per ricerca di base. E poi 1 miliardo e 800mila euro per i PRIN. In questo ambito i progetti da finanziare entro il 2026 sono 5.350, di durata almeno biennale e che richiedono la collaborazione di unità di ricerca appartenenti a università e organismi alternativi, come quelli facenti capo al Centro Nazionale delle Ricerche (CNR).

Nuove risorse da reclutare

Saranno selezionati dal Ministero dell’Università e della Ricerca sulla base del profilo scientifico dei loro responsabili e dell’originalità, della fattibilità, dell’impatto del progetto. Questo stimolerà l’innovazione verso campi di frontiera e rafforzerà la collaborazione tra università e altri centri. E i fondi serviranno anche ad assumere personale: saranno 900 i ricercatori da reclutare per la realizzazione dei progetti. Escluse dal perimetro saranno invece le attività collegate ai combustibili fossili e quelle nell’ambito del sistema di scambio di quote di emissioni UE che non prevedano emissioni di gas serra al di sotto dei benchmark più rilevanti. Non potranno essere finanziati neanche progetti riguardanti discariche e inceneritori o comunque quelli caratterizzati dalla produzione di rifiuti dannosi a lungo termine per l’ambiente.

Il rischio della discontinuità

Che ci sia un cambio di passo in fatto di finanziamenti lo testimonia anche chi è dentro al sistema. Ne è un esempio Tommaso Frattini, Professore Ordinario di Economia, management e metodi quantitativi all’Università degli Studi di Milano. «Quando sono diventato strutturato io, nel 2012, dopo essere rientrato dall’estero nel 2009, c’era effettivamente una carenza di finanziamenti, mentre adesso è tutto cambiato, c’è un’iniezione gigante di denaro pubblico». Una fase d’oro, anche per quanto riguarda i PRIN. «Quello è il metodo tradizionale con cui è sempre stata sostenuta la ricerca, ma prima i bandi uscivano con il contagocce».

Tutte le criticità

Eppure, le criticità non mancano. «Si tratta di soldi concentrati in pochissimo tempo, per cui per soddisfare i bandi devono essere costruiti progetti ad hoc da fare in fretta e furia per poi riuscire a prendere i fondi». Addirittura si è creato il paradosso per cui alcuni bandi vengono più volte pubblicati «perché si fa fatica a coprire il personale richiesto». Si tratta, insomma, «di una specie di fiammata» ribadisce Frattini, di un momento straordinario che però finirà nel momento in cui termineranno i fondi e non ne arriveranno di nuovi.

Assunti ma a tempo

I ricercatori assunti grazie al PNRR lo sono a tempo determinato, per tre anni. «Poi cosa faranno?» si chiede il professore. La discontinuità dei finanziamenti è insomma il problema numero uno che si troverà a affrontare la ricerca in Italia. Ma è anche ciò che la caratterizza da sempre, come documentato dalla quarta edizione della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, elaborata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Nel testo si evidenzia la «discontinuità nel lancio dei bandi e tempi di attesa dilatati tra annuncio delle iniziative e attivazione delle erogazioni, salvo poche eccezioni». Fattori che «generano un’incertezza dannosa per la comunità scientifica in relazione alle attività che è possibile programmare confidando nella disponibilità di strumenti di finanziamento pubblico».

Strumenti solo su carta

Quello che accade è che ci sono strumenti «che esistono solo sulla carta. Nel senso che, pur essendo formalmente istituiti da un provvedimento normativo, non vengono finanziati, generando in questo modo ulteriore incertezza nei potenziali beneficiari».

Una delle finalità del PNRR era proprio limitare le debolezze del sistema, tra cui la mancanza di strutturalità nell’erogazione dei fondi. «Una preliminare lettura dei programmi competitivi per R&S attivati nel 2022 evidenzia un forte impulso del MUR» scrivono dal CNR. Un aspetto «del tutto inedito rispetto al periodo precedente nel promuovere nuovi strumenti indirizzati verso obiettivi riferibili allo sviluppo di tecnologie abilitanti, al rafforzamento dell’intera filiera del processo di ricerca e innovazione senza tralasciare le ricadute di questi programmi in favore delle grandi sfide ambientali, sociali ed economiche». Ma cosa accadrà quando i fondi saranno ormai tutti spesi e la scadenza del 2026 superata? È un cane che si morde la coda: il PNRR cerca di mettere una toppa al sistema, ma perpetuando a sua volta lo stesso problema della precarietà dei finanziamenti.

Il confronto con l’estero

Gli ultimi dati disponibili sono contenuti nella relazione del CNR. E mettono in chiaro come l’Italia nel 2020 risultasse fanalino di coda per investimenti in ricerca e sviluppo rispetto alle principali economie mondiali. L’investimento risultava pari all’1,5% del PIL, come quello della Spagna – per entrambi i Paesi prima del 2000 i fondi erano al di sotto dell’1%. I più virtuosi gli Stati Uniti, con un rapporto pari al 3,5%, seguiti da Giappone e Germania, poco sopra il 3. Poi a seguire la Francia, che investiva fondi superiori al 2% rispetto al PIL. Infine, il Regno Unito, con percentuali di poco superiori all’1,5 e sotto la media UE del 2,2.

Meglio di prima

Ancora peggio andava l’Italia di qualche anno fa sul piano dei finanziamenti sul totale della spesa pubblica. Nel 2021 l’Italia investiva circa l’1,2%, questa volta al pari della Francia, che era in calo rispetto all’1,6 del 2005, e della Spagna, che invece si attestava all’1,8 sempre nel 2005. La performance migliore? Quella della Germania, che spendeva circa il 2,2% delle risorse pubbliche, contro una media UE dell’1,4.

I fondi PNRR

Dopo il rimpinguamento dovuto al PNRR, questi dati potrebbero migliorare. E da notare è anche che l’Italia risulta essere il Paese con la più alta quota di dottorandi che sperimenta periodi all’estero di studio e ricerca, come evidenzia il report del CNR. «L’esperienza in un Paese diverso coinvolge il 37,1% dei soggetti che frequentano o hanno frequentato un corso di dottorato in Italia, percentuale che sale al 40% se si considerano le donne a fronte di un 34,5% di uomini». L’Italia è l’unico tra i Paesi considerati che presenta tassi di mobilità dei dottorandi così elevati, partendo da un dato generale del 21,5%. Solo Finlandia e Francia hanno quote complessive di mobilità verso l’estero paragonabili (rispettivamente 24,1% e 20,9%), mentre tra gli altri Paesi la Germania spicca per il basso tasso di partecipazione alla mobilità internazionale, ferma al 12,9%. Risultiamo poi una meta appetibile per dottorandi in arrivo da altri Paesi. Approda in Italia «il 3,6% dei dottorandi che partono dal Regno Unito, il 3,3% dalla Francia e l’1,6% dalla Svizzera».

Italia destinazione tra le preferite

Dati che rendono l’Italia uno dei Paesi con quote di destinazione più alte, di poco sotto alla Germania (che oltre ai dottorandi dall’Italia, accoglie il 4,7% dei dottorandi dalla Polonia, il 3,8% dalla Svizzera e il 3,3% dalla Francia) e al Regno Unito (punto di arrivo del 6,3% degli studenti dall’Italia, il 3,2% dalla Francia e il 2,7% dalla Finlandia). Una buona notizia, considerando come nel nostro Paese gli stipendi siano decisamente più bassi che all’estero. Sbarcare in Italia è però diventato molto conveniente anche per i ricercatori italiani che si trovano all’estero. Applicando la legge Controesodo possono godere di importanti agevolazioni fiscali. Per ricercatori e professori lo sconto arriva al 90%, e può durare anni se ci si stabilisce in Italia a tempo indeterminato, comprando casa o avendo figli, secondo le disposizioni della legge. Un vantaggio che può però creare disparità, evidenzia ancora Frattini, «perché il guadagno di un collega che svolge le stesse mansioni di un altro, ma risulta rientrato dall’estero, diventa molto maggiore».

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📸 Credits: Canva   

Articolo tratto dal numero del 1° settembre 2024 de il Bollettino. Abbonati!

Giornalista professionista, classe 1981, di Roma. Fin da piccola con la passione per il giornalismo, dopo la laurea in Giurisprudenza e qualche esperienza all’estero ho cominciato a scrivere. All’inizio di cinema e spettacoli, poi di temi economici, legati in particolare al mondo del lavoro. Settore di cui mi occupo principalmente per Il Bollettino.