venerdì, 14 Novembre 2025

Il mito di Wall Street ora vacilla. E c’è chi punta sugli Emerging Markets

Sommario

La corsa dei Mercati emergenti potrebbe durare più del solito. Il segmento, fino a pochi anni fa reso fragile dall’instabilità politica e finanziaria, guadagna terreno nei confronti degli Stati Uniti. Nella prima metà dell’anno, l’ETF iShares MSCI Emerging Markets (EEM) è salito di più del 13%.

E alla performance dei titoli si accompagna il flusso record di adesioni ai bond in valuta locale, con otto settimane consecutive di flussi netti positivi da fine maggio alla metà di giugno. Una crescita spronata dal contemporaneo indebolimento del dollaro, ma anche il segno di un segmento sempre più maturo.

«La politica della più grande economia globale, storicamente basata su regole conosciute e stabili, sta diventando sempre più incomprensibile ed erratica» dice Christian DiClementi, Portfolio Manager dell’Emerging Market Debt Portfolio di AllianceBernstein.

«In questo contesto, i Paesi emergenti che saranno in grado di controbilanciare il fenomeno con azioni politiche chiare, fondate su uno Stato di diritto, potranno attrarre la maggior parte dei flussi di investimento in fuga dagli Stati Uniti».

Dall’inizio dell’anno abbiamo visto un evidente calo nel valore del dollaro. Cosa comporta questo fenomeno per il segmento Emerging Markets?

«Bisogna fare un paio di considerazioni. In primo luogo, è da circa due anni e mezzo che, osservando il tasso di cambio reale, notavamo come fosse sopravvalutato. Ora, questo non significava necessariamente che dovesse calare, ma di sicuro c’erano condizioni tali per cui, se altri fattori avessero provocato un calo, sarebbe partito da una posizione molto elevata. Perché allora è rimasto forte in questi due anni e mezzo? Direi che le cause hanno per lo più a che fare con la narrativa dell’“eccezionalismo” americano: gli Stati Uniti stavano crescendo a un ritmo maggiore del resto del Mondo.

Poi cosa è successo per interrompere questo trend? L’Amministrazione Trump ha cominciato a introdurre politiche che sembra possano rallentare la crescita globale e – in modo sproporzionatamente maggiore – quella dell’economia americana. Per questo, la narrativa dell’eccezionalismo USA è stata intaccata. Questo non comporta per forza che gli Stati Uniti entreranno in una recessione, ma non stanno crescendo più a un ritmo superiore a quello di tutti gli altri».

Le divise dei Paesi in via di sviluppo stanno guadagnando terreno?

«Sì, ma se si guarda al movimento delle valute rispetto al dollaro quest’anno, in realtà l’apprezzamento ha riguardato in gran parte le valute dei Mercati sviluppati, come euro e yen. Il DXY, l’indice che rappresenta il valore del dollaro rispetto a un paniere di valute dei Mercati sviluppati, ha perso oltre il 9%. Se lo si confronta con il Bloomberg G10, che comprende un paio di valute EM, il calo è dell’8%. Quindi sono più i Mercati avanzati che quelli in via di sviluppo a guidare il movimento, e questo ha anche a che fare con il fatto che i capitali si stanno spostando altrove rispetto agli asset denominati in valuta USA e questi capitali provengono principalmente dai Mercati sviluppati.

Anche le valute emergenti si sono apprezzate quest’anno, ma direi che è più che altro una funzione del fatto che sono state trascinate insieme alle valute dei Mercati sviluppati, perché in questo momento non c’è una storia di crescita convincente, tipicamente associata all’apprezzamento autonomo delle valute EM».

Cosa intende?

«Se guardiamo alle dinamiche che stanno guidando l’indebolimento del dollaro dall’inizio dell’anno, esse sono diverse da quelle associate al deprezzamento nei primi anni 2000. Allora, gli Stati Uniti stavano uscendo da un paio di battute d’arresto: la fine della bolla delle dot-com e gli attentati dell’11 settembre. Ma insieme a questo, c’era una Cina che cresceva del 10% all’anno e le economie degli altri Mercati emergenti avevano il potenziale per fornirle i materiali necessari per sostenere un tale ritmo di crescita. In quel periodo c’è stata una riallocazione degli asset lontano dagli Stati Uniti, perché si prevedeva che gli USA non sarebbero cresciuti quanto il resto del Mondo, e questo è diventato un fattore di attrazione per le valute di Paesi emergenti. Ma al momento si tratta più che altro di un fattore di spinta degli Stati Uniti verso il resto del Mondo, di cui gli EM stanno beneficiando».

Una cifra che descrive accuratamente la situazione corrente sono i flussi in uscita dai fondi azionari americani: a maggio, hanno raggiunto i 24,7 miliardi di dollari (Fonte: LSEG). Questo ha portato ai fondi europei flussi in entrata netti per 21 miliardi, mentre i Mercati emergenti hanno ricevuto solo 3,6 miliardi. Cosa possono fare i Paesi in via di sviluppo per colmare questo gap?

«Credo che abbiano già fatto parecchio. 15 o 20 anni fa, quando si verificava una crisi in una grande economia emergente, questa si irradiava tipicamente all’intera asset class. Negli ultimi 5-10 anni, invece, abbiamo visto che le svendite di titoli o le crisi che sono causate da un solo Paese o da un paio, tendono a restare abbastanza contenute.

Penso, ad esempio, al 2018, quando si sono verificate le crisi valutarie in Argentina e Turchia. Ricordo che all’epoca si discuteva molto sul fatto che il crollo della divisa in queste due economie emergenti relativamente grandi si sarebbe irradiata sull’intera asset class. Alla fine, non è andata così. Penso anche al 2022 e all’invasione russa dell’Ucraina. Con l’impennata dei problemi per le materie prime, c’è chi ha pensato che questo sarebbe stato il colpo di grazia per l’asset class. Certo, c’è stata volatilità e alcuni Paesi sono andati in default, ma non direi che fosse a causa di questo. Al contrario, molti dei crediti che all’epoca erano scambiati a buon Mercato non sono andati in default e sono anzi risaliti.

Come mai questo? Credo che in molti casi si sia assistito a una politica monetaria molto migliore. Le economie emergenti sono state molto meno vulnerabili agli shock esterni rispetto al 2013, l’anno in cui Morgan Stanley coniò l’espressione “the fragile 5”, riferendosi ai cinque Paesi più vulnerabili (Brasile, India, Indonesia, Sudafrica e Turchia, ndr)».

Insomma, le economie emergenti si sono già attivate per diventare meno isolate dal resto del Mondo. Come si potrebbero ottenere ulteriori progressi?

«Continuando ad attuare i tipi di riforma appropriati. Probabilmente il miglior esempio in questo momento è l’Argentina, dove il Presidente Javier Milei sta attuando un consolidamento fiscale molto forte. Ha il mandato per farlo, recentemente confermato dalle elezioni della città di Buenos Aires, e pensiamo che continuerà così».

Venendo alle tariffe annunciate a partire dal Liberation Day, quali crede saranno i Mercati più colpiti e perché?

«C’è molta incertezza… Non sappiamo nemmeno quali siano le tariffe in questo momento, nonostante il tabellone esibito nel Giardino delle Rose il 2 aprile. Peraltro, devo dire che la tregua di 90 giorni alle tariffe è stata deludente, in termini di accordi commerciali stipulati. Mancano ancora intese solide con molti degli alleati degli Stati Uniti, sia dal punto di vista militare sia da quello economico. Alcuni di questi negoziati, che forse l’Amministrazione Trump pensava non sarebbero stati controversi, si stanno rivelando più difficili da portare avanti del previsto. Per questo ci troviamo di fronte a una battuta d’arresto.

Il Presidente Trump ha detto che imporrà delle tariffe, ma è difficile dire esattamente come sarà il regime tariffario. Quello che posso dire è che, se si cerca di capire chi potrà subire un impatto più negativo, penso che si debba guardare alle parti del Mondo che hanno grandi surplus commerciali con gli Stati Uniti. Ragionando secondo questo criterio, direi soprattutto che l’Asia e l’Europa sono, economicamente parlando, le due regioni del mondo colpite con più forza.

Tuttavia, una cosa che ci ha relativamente sorpreso, quando i numeri delle tariffe sono stati annunciati per la prima volta, è che alcuni dei dazi applicati su alcune delle economie più piccole dell’Africa sub-sahariana erano un po’ più grandi di quanto il Mercato avesse previsto. In gran parte perché questi Paesi non sono abbastanza grandi per spostare davvero l’ago della bilancia del commercio con gli Stati Uniti, per cui ci si aspettava che sarebbero stati, in un certo senso, “esclusi” dal campo di applicazione delle tariffe reciproche, ma alla fine sono stati inclusi. È stata un po’ una sorpresa».

Chi potrebbe trarre i maggiori vantaggi da questa situazione?

«Il beneficiario netto sembra essere l’America Latina. La maggior parte dei Paesi dell’area, quando le tariffe reciproche sono state annunciate per la prima volta, si sono ritrovati con un regime tariffario del 10%, che è relativamente basso. E se prendiamo in considerazione un Paese come il Messico, date tutte le riduzioni apportate a causa dell’USMCA (Accordo Stati Uniti-Messico-Canada), ha un’aliquota in realtà inferiore al 10%. Questo potrebbe avvantaggiarlo, grazie ai suoi stretti legami con gli Stati Uniti».

I titoli di Stato emessi in valuta locale hanno visto un incremento di popolarità presso gli investitori. Crede che questa tendenza sia sostenibile nel tempo?

«In breve, sì, se si considerano i rendimenti da inizio anno. Ad esempio, l’indice GBI-EM (Government Bond Index-Emerging Markets), mostra una crescita di circa il 10%. Un dato significativo, specialmente se confrontato con il rendimento di un benchmark sovrano in valuta forte, che è in crescita di poco più del 4%, o con quello di un benchmark corporate in valuta forte, salito di poco più del 3%. Se si esaminano i fattori che contribuiscono ai rendimenti attesi del GBI-EM, circa il 6% è legato all’andamento della valuta. Il resto, invece, è determinato dai movimenti dei tassi di interesse e al carry. Questo fenomeno potrebbe continuare? Ritengo che la direzione che prenderà il dollaro sia fondamentale per determinarlo perché, i tassi di interesse in tutti i mercati emergenti, in questo momento, in aggregato sembrano neutrali o alti».

Qual è la situazione nell’area asiatica?

«L’Asia non ha mai avuto un vero problema di inflazione. Anche nel post-Covid, i livelli di inflazione non sono saliti a due cifre come in molti Paesi dell’America Latina o dell’Europa orientale. Inoltre, queste economie hanno legami commerciali molto stretti con la Cina, che sta vivendo un periodo di deflazione, misurata sia dal CPI (Consumers Price Index) sia dal PPI (Producers Price Index), e sta esportando questa deflazione a tutti i suoi partner commerciali regionali. Per questo, l’inflazione in Asia è stata contenuta e continuerà ad esserlo. Intanto, la crescita sta rallentando a causa dei dazi e questo dovrebbe significare che le Banche Centrali asiatiche continueranno ad allentare i tassi di riferimento. Questo dovrebbe portare un vento positivo per i rendimenti dei titoli di Stato locali».

Cosa pensa invece riguardo agli emergenti del Vecchio Continente?

«Se guardiamo all’Europa, direi che la storia è leggermente diversa. La spesa fiscale tedesca dovrebbe dare un certo impulso alla crescita nel 2026, ma sembra che molte economie dell’Europa orientale stiano rallentando. L’inflazione si sta raffreddando e questo dovrebbe consentire a Paesi come Polonia e Ungheria di continuare ad allentare i tassi. Forse alla Repubblica Ceca un po’ meno, ma in generale direi che anche questa regione dovrebbe sperimentare un allentamento. Se guardiamo alla seconda metà del 2026, forse ci sarà un po’ di attrito se la spesa tedesca sarà positiva».

E l’America Latina?

«Credo che sia dove ci sono le opportunità più interessanti. Se si guarda a Paesi come Messico, Colombia e Brasile, i tassi reali sembrano molto alti rispetto agli standard storici e alla realtà economica. Se il dollaro rimanesse debole, questo dovrebbe alleviare la pressione sulle Banche Centrali per un allentamento della politica monetaria a causa dei timori di indebolimento delle loro valute. In questo momento, quindi, il dollaro è piuttosto critico per le prospettive dell’asset class, proprio per questo motivo. Se dovesse invertire la rotta, forse alcune di queste economie, soprattutto in America Latina, potrebbero non ricevere allentamenti dalle Banche Centrali per timore di un indebolimento della moneta. Ma in questo momento, con l’indebolimento del dollaro, semmai dovrebbero esserci pressioni disinflazionistiche».

Quali sono i principali rischi in grado di far perdere ai Mercati emergenti lo slancio attuale?

«Innanzitutto, se si verificasse una sorta di ritorsione per la guerra commerciale, in particolare in relazione a un indebolimento del renminbi. La moneta cinese renminbi è stata straordinariamente stabile, anche nello scenario di indebolimento del dollaro che abbiamo visto quest’anno. Credo che una deviazione da questa tendenza possa essere dirompente. In più, se dovesse aggravarsi quello che sta accadendo in Medio Oriente in questo momento, fino a comportare rischi concreti, la situazione potrebbe danneggiare non solo la performance dei Mercati emergenti, ma probabilmente anche di tutti gli asset di rischio».

C’è da temere anche dall’atteggiamento erratico dell’Amministrazione Trump?

«Certo, se un cambiamento sostanziale nella politica statunitense attraesse nuovamente i capitali negli Stati Uniti e vedessimo riemergere il tema dell’eccezionalismo, anche questo sarebbe un elemento in grado di deviare valore dai mercati emergenti. Se paragoniamo i tassi Fed a quelli BCE, da un anno all’altro il differenziale tra Stati Uniti ed Europa si è ampliato. Il prezzo negli USA è minore, quello dell’UE è maggiore. In passato, il dollaro tendeva a reagire a questi differenziali di tassi d’interesse, che si ampliano quando il carry statunitense diventa più attraente e il dollaro si deprezza. Non abbiamo assistito a questo fenomeno. Credo che ciò sia dovuto al timore di una riallocazione degli asset, che si allontanano da quelli denominati in dollari.

Quindi, se succedesse qualcosa, a livello di politica fiscale o di deregolamentazione, in grado di spingere i capitali a tornare negli Stati Uniti e si ricominciasse a parlare di eccezionalismo statunitense, è probabile che questo rallenterebbe anche il tipo di slancio che abbiamo visto finora negli EM, e in particolare nelle valute e nei tassi».

Quale economia o economie, al di là dei tipici protagonisti del segmento, meritano un occhio di riguardo nel prossimo futuro?

«Credo che mi concentrerei ancora sull’America Latina e su un Paese come l’Ecuador. È uno Stato di cui in genere non si legge molto. Recentemente si sono tenute le elezioni presidenziali e ha vinto il candidato più market-friendly, Daniel Noboa. Il Paese sta attuando tutte le riforme richieste dal FMI nell’ambito del suo programma. Proprio la scorsa settimana, le autorità hanno richiesto al FMI un aumento dei fondi da un miliardo di dollari. Si tratta di un’ingente somma di denaro per un Paese come l’Ecuador, che elimina il fabbisogno finanziario del Paese in vista del 2026. Penso che si tratti di un’opportunità interessante, con rendimenti superiori al 13% nel momento in cui stiamo parlando». ©️

📸 Credits: Canva   

Articolo tratto dal numero del 15 luglio de il Bollettino. Abbonati!

Da sempre appassionato di temi finanziari, per Il Bollettino mi occupo principalmente del settore bancario e di esteri. Curo una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".