giovedì, 25 Aprile 2024

USA-CINA-IRAN Scita, SGIA: «L’accordo di Pechino e Teheran, la via della Seta, le sanzioni di Biden»

Sommario

Nel mirino degli Stati Uniti per le relazioni commerciali e i diritti umani, Pechino e Teheran viaggiano a braccetto. E con la sigla dell’accordo globale Comprehensive Strategic Partnership – che traccerà il corso delle loro relazioni economiche e politiche nei prossimi 25 anni – ridefiniscono lo scacchiere di una partita geopolitica molto complicata. Un’intesa il cui «significato è più simbolico che reale», dice Jacopo Scita analista della School of Government and International Affairs Durham University. «Che l’Iran abbia buoni rapporti con la Cina lo si sa da cinquant’anni. E anche a livello regionale, soprattutto per il suo contenuto assai sfumato, questo accordo cambia poco negli equilibri di potere. Certo è che la Cina sta sempre più diventando il Paese a cui tanti guardano, più o meno forzatamente, come alternativa o complemento agli Stati Uniti». 

E quindi, che cosa c’è davvero dietro all’intesa firmata da Cina e Iran? Quella che si sta saldando è una sorta di nuova “geopolitica” dei Paesi sanzionati, dagli Stati Uniti… hanno voluto rafforzare l’asse anti-USA?

«Sì e no. Nel senso che se è vero che lo strumento delle sanzioni è stato usato e abusato senza precedenti negli ultimi anni, è altrettanto vero che storicamente chi si è trovato in forte contrasto con Washington si è sempre rivolto all’altra grande potenza di turno. Durante la Guerra Fredda era spesso l’Unione Sovietica. Oggi è la Cina».

Pechino e Washington però sono ai ferri corti, in una lotta all’egemonia a colpi di sanzioni che Joe Biden sembra aver sposato come Donald Trump. E la vicinanza Cina-Iran sembra suonare come un allarme per la potenza USA. Che, invece, cerca un riavvicinamento a Teheran, dicendosi pronta a togliere le sanzioni pur di far tornare a vivere l’accordo sul nucleare…

«A Vienna si sono incontrati tutti i firmatari del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action, ovvero l’accordo sul nucleare iraniano). E, pur non essendosi seduti allo stesso tavolo, tra Stati Uniti e Iran, sono cominciate una serie di negoziazioni indirette. Il segnale è ovviamente positivo e l’offerta di Washington di ridurre le sanzioni rientra in questo contesto negoziale. Le intenzioni di tutte le parti in gioco sembrano essere serie e puntano verso una, seppur difficile, risoluzione dello stallo attuale. Quanto poi l’accordo tra Cina e Iran abbia influito nello spingere l’Iran ad accettare negoziazioni indirette con gli Stati Uniti è difficile dirlo. Quel che è ipotizzabile con buona certezza è che nei suoi colloqui privati a Teheran, il ministro degli esteri cinese Wang Yi abbia nuovamente fatto presente l’interesse cinese a un ritorno di tutte le parti all’accordo sul nucleare del 2015».

Che cosa prevede la Comprehensive Strategic Partnership?

«Per il momento non abbiamo il testo definitivo dell’intesa. Quello che sappiamo è che si tratta di una “roadmap” per aumentare la cooperazione a 360 gradi tra i due Paesi. Ma non di un accordo giuridicamente vincolante. Nel testo che è emerso la scorsa estate, la cui veridicità è stata confermata dal Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, i settori menzionati erano quelli strategici. Il mercato del petrolio, la cooperazione in ambito militare e antiterrorismo, l’alta tecnologia e la cybersecurity». 

Quanto investirà la Cina e quanto pensa di aumentare il suo commercio bilaterale con l’Iran?

«È qui che sta il busillis. Se l’accordo parla di settori altamente strategici, lo fa tuttavia senza indicare le cifre in gioco e i meccanismi attuativi. Due anni fa, una fonte piuttosto dubbia aveva parlato di 400 miliardi di investimenti cinesi che sarebbero arrivati in Iran. Una cifra spropositata e del tutto irrealistica. Io credo che per capirne e giudicarne la reale portata sarà fondamentale attendere un’eventuale fine delle sanzioni statunitensi». 

L’accordo che cosa porterà alla Cina e che cosa all’Iran?

«Per l’Iran ha un forte significato politico perché lancia il messaggio che il tentativo di isolare internazionalmente Teheran, che era alla base della “massima pressione” di Trump è, almeno sulla carta, fallito. L’Iran, dunque, ne esce politicamente rinvigorito, anche se la sfida sarà utilizzare questo capitale politico sensatamente. Nel lungo periodo, invece, l’obbiettivo iraniano è quello di non essere lasciato fuori dagli investimenti cinesi nella regione.
Anche da parte cinese c’è un doppio messaggio per Washington: da un lato la dimostrazione che Pechino ha un’influenza reale in un Paese storicamente nemico degli Stati Uniti, dall’altro che questa influenza può anche tramutarsi in capacità di leva su dossier dove Pechino e Washington hanno visioni al momento compatibili, come il JCPOA. In ultimo, questo accordo completa il disegno iniziato con la visita di Xi Jinping nel Gennaio 2016 in cui la Cina ha gettato le basi della sua strategia per il Golfo Persico: costruire partnership di alto livello con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Iran». 

L’accordo può rappresentare una minaccia per gli Usa?

«Al di là della simbologia e delle tendenze già spiegate, non credo che questo accordo sia una reale minaccia per gli Stati Uniti. Ricordiamo due elementi. Storicamente, Pechino ha sempre dato priorità alla propria relazione con Washington rispetto a quella con Teheran, sacrificando senza tanta fatica i rapporti con quest’ultima come merce di scambio. Impossibile dire se succederà anche stavolta, ma non è da escludere. Poi, sia alla Cina sia all’amministrazione Biden interessa un ritorno al JCPOA e su questo punto si aprono interessanti possibilità di cooperazione che l’accordo Cina-Iran potrebbe favorire». 

Che cosa ha in mente Biden: si parla con insistenza di nuova guerra fredda, è davvero così?

«Io sono un po’ scettico: se mi passa il termine, mi sembra una definizione un po’ pigra. Quel che è certo è che ci troviamo sempre più nel mezzo di una competizione tra due giganti, Stati Uniti e Cina, che ha e avrà una dimensione regionale. Il Medio Oriente, dove Washington ha presenza storicamente cruciale e Pechino sta accrescendo la propria influenza, è una delle aree dove questi “spillover” regionali potrebbero vedersi». 

C’è chi dubita della realizzazione dei tanti progetti annunciati sino a quando non sarà risolta la questione del programma nucleare iraniano…

«Mi trovo d’accordo. Il fatto è che il vero problema della partnership tra Cina e Iran – che non nasce con questo accordo ma è vecchia di almeno 50 anni – è qualitativo non quantitativo. Le faccio un esempio. Pechino continua, nonostante le sanzioni americane, a importare petrolio iraniano usando triangolazioni estremamente complesse, intermediari e trasferimenti di denaro indiretti e altri sotterfugi. Questo tipo di transfer sono quantitativamente piuttosto importanti ma come qualità, e per qualità intendo stabilità ed effettivo beneficio all’economia iraniana, sono molto scarsi. Il punto da risolvere è proprio questo e per farlo, ricordando che va esteso a praticamente tutta la cooperazione tra i due Paesi, più che questo accordo servirebbe la rimozione delle sanzioni secondarie statunitensi. E come sappiamo la rimozione passa per la risoluzione della questione nucleare».

La posizione della Russia in tutto questo scenario qual è?

«La Russia rinnova i propri accordi di cooperazione decennali con Teheran e resta a guardare sorniona. Mosca, almeno per il momento, sembra avere meno capacità di influenza nel Golfo rispetto al “momento cinese” che stiamo osservando». 

L’avanzata cinese in Iran però è solo una parte di un puzzle più complesso che riguarda la presenza del Paese asiatico in Medioriente…

«Certamente. A partire dal primo decennio del 2000 la strategia cinese in Medio Oriente si basa sulla definizione di una serie di Paesi chiave che Pechino individua come quelli economicamente, politicamente e militarmente più influenti. Con questi vengono strette le cosiddette “Comprehensive strategic partnership”, ovvero l’apice dei rapporti diplomatici che la Cina ha nella regione. Nel Golfo Persico gli stati che Pechino ha individuato, a partire dal 2016, sono Arabia Saudita, UAE e Iran».

L’Iran considera la Cina un corridoio strategico verso l’Asia centrale e verso l’Europa?

«Potenzialmente sì. L’Iran è parte del corridoio della Via della Seta che consente alla Cina di raggiungere l’Europa senza passare attraverso la Russia. Un percorso importante, dunque, soprattutto in un’ottica di lungo periodo e nel tentativo cinese di ramificare quanto più possibile la propria proiezione verso Ovest. Per quel che riguarda la parte iraniana, questo accordo riflette il desiderio, comprensibile, di essere concretamente inclusi nel flusso di investimenti e interscambi legato alla Nuova Via della Seta. L’Iran, che come ribadito più volte dai cinesi stessi ha un ruolo naturale in questo progetto, proprio a causa delle sanzioni e del difficile clima politico, ha infatti beneficiato molto meno dei vantaggi economici rispetto ad altri Paesi vicini come il Pakistan, l’Arabia Saudita e gli Emirati». 

A livello regionale la Cina persegue da tempo un possibile accordo di libero scambio con i Paesi del Golfo. A che punto è?

«Sembrerebbe in via di finalizzazione. Wang Yi, il ministro degli esteri cinese, lo ha menzionato durante la recente visita in Bahrein. D’altronde quello che sembrava uno dei principali ostacoli alla sua approvazione, la bloccata nei confronti del Qatar, è stato risolto nei mesi scorsi. Mi permetta di dire che basta guardare a questo accordo per ridimensionare quello stretto con l’Iran: Teheran non è speciale per Pechino ma si inserisce coerentemente nell’espansione regionale del gigante asiatico». 

L’Europa e l’Italia che posizione occupano? 

«Direi marginale, soprattutto l’Italia. L’Europa potrebbe intelligentemente muoversi per cercare aree di cooperazione con la Cina nel Golfo Persico, visto che quest’ultima ha un buon capitale politico nella regione e alcuni obbiettivi di fondo in comune – come il ritorno dell’Iran e degli Stati Uniti al JCPOA e più in generale la riduzione delle tensioni nell’area. Certo è che per fare ciò servirebbe un coraggio diplomatico che mi sembra mancare…».