venerdì, 8 Novembre 2024

CALCIO, LA CRISI SVUOTA LE CASSE DEI CLUB. DI CIANNI (KPMG): «PERDITE SENZA PRECEDENTI, SERVONO INTERVENTI E RISORSE. CON I FONDI…»

Mai come nell’ultimo anno il pallone si è sgonfiato. Più che parlare di gol, rigori e colpi di tacco si tratta di bilanci, conti in rosso e sopravvivenza del sistema stesso. I numeri spiegano la crisi del calcio. La pandemia da Covid-19 ha impattato in maniera pesantissima sulle squadre più importanti d’Europa. Dopo anni di crescita, il valore d’impresa aggregato delle 32 squadre dell’élite del calcio europeo è calato di 6,1 miliardi di euro rispetto al 2019, quello complessivo delle 32 squadre di calcio europee più importanti che è sceso a 33,6 miliardi di euro, il 15% in meno rispetto all’anno precedente.
Secondo le stime elaborate nel rapporto “Football Clubs Valuation: The European Elite” di KPMG Football Benchmark, i club più importanti appartenenti alle 55 Associazioni Aderenti all’Uefa, registrano una riduzione su base annuale dell’11% dei ricavi operativi aggregati (-2,7 miliardi di euro) rispetto alla stagione 2019/2020. «È una crisi senza precedenti. Sia in Italia sia nel resto d’Europa tutti i club sono alle prese con seri problemi di liquidità», conferma Antonio Di Cianni, manager presso KPMG Football Benchmark.

Il Real Madrid, con un valore di 2,909 miliardi di euro, si conferma al primo posto nella classifica delle 32 principali società di calcio a livello europeo per valore d’impresa, davanti a Barcellona e Manchester United. La Juventus prende il posto dell’Arsenal tra le prime 10 con un valore d’impresa di 1,480 miliardi di euro, mentre per la prima volta entra nel ranking l’Atalanta (in ventiquattresima posizione) con un valore d’impresa di 364 milioni di euro.

Siamo abituati a vedere il calcio come un business florido. La crisi è davvero così pesante?

«La scorsa stagione è stata pesantemente impattata dalla pandemia in quanto da marzo in poi non si è giocato e alcuni campionati non sono nemmeno ripresi. Inoltre, tutte le partite sono state a porte chiuse, quindi è ovvio che oltre ai mancati incassi da botteghino c’è stato un danno anche a livello di diritti tv, perché molte partite sono state giocate dopo la chiusura dell’anno finanziario al 30 giugno. Si è registrato un danno commerciale perché i commercial partner hanno richiesto ai club uno sconto, le partite giocate a porte chiuse sono chiaramente un prodotto meno appetibile e il loro stesso business era già stato danneggiato dal Covid-19 e dal lockdown. Tutti questi fattori hanno fatto sì che i bilanci dei club, che già prima erano in diversi casi in sofferenza, siano risultati ancora ancora più in rosso».

Quali sono le prospettive per il settore?

«Possiamo dire peggiori perché se nella stagione 2019-2020 solo gli ultimi mesi si sono giocati a porte chiuse, in quella 2020-21 tutte le partite sono state giocate senza pubblico. Di conseguenza possiamo dire che i ricavi da botteghino saranno praticamente pari allo zero e questo avrà chiaramente un impatto ulteriormente negativo».

Senza considerare i mancati ritorni commerciali.

«A riguardo abbiamo visto il caso del Manchester United che a giugno dell’anno scorso ha siglato un nuovo accordo per lo sponsor di maglia al ribasso di circa il 15-20%. E stiamo parlando del club terzo in classifica per valore d’impresa. Questo dimostra l’effetto cascata che ha avuto questa crisi».

Lockdown, assenza di spettatori e conti in rosso. Ma il calcio rischia davvero la bancarotta?

«I club sono spesso denominati, un po’ come le banche, “too big to fail”, soprattutto a determinati livelli. Quindi aspettarci che Manchester United, Inter, Juventus o Paris Saint-Germain arrivino davvero a portare i libri in tribunale è praticamente impossibile. Questo perché comunque sono aziende grosse che muovono anche un sentimento popolare e hanno dei ricavi stabili come quelli da diritti tv o da player trading che permettono di ottenere finanziamenti o supporti economici. Abbiamo visto di recente il caso dell’Inter, nonostante una situazione complicata con qualche ritardo nei pagamenti degli stipendi, alla fine è riuscita a ottenere un prestito da uno dei più grandi asset management del mondo come Oaktree.
Ma qualunque club ha problemi di liquidità, ecco perché era stata paventata l’ipotesi di ingresso dei private equity per fornire questa liquidità mancante. Il nostro report ha evidenziato come gli 80 club che fino a ora hanno pubblicato i loro bilanci abbiano generato 2 miliardi di euro di perdite. Nell’anno peggiore registrato finora, la stagione 2010-2011, le perdite di circa 700 club erano state di 1 miliardo e 700 milioni. Quindi poco più di un decimo dei club totali ha già registrato più perdite di tutto il calcio europeo. Se aggiungiamo gli altri 620 club…».

Ha citato i fondi di investimento. In molti dicono che rappresentino il futuro del calcio.

«E così può essere. I fondi erano interessati al calcio anche prima della pandemia. Se prendiamo quasi tutti i 32 club del nostro report, o perlomeno i top 10 della classifica, sono società che hanno un fatturato annuale e ricavi che possono essere stabili e quindi un cash flow diciamo prevedibile, che chiaramente aiuta le valutazioni degli investitori. Poi è ovvio che esistano variabili importanti e fluttuazioni, perché se si partecipa o meno alla Champions League cambia parecchio.
Ma in questo quadro chi meglio di un private equity, che per natura è portato a investire in un asset in maniera tale da risanarlo per poi eventualmente venderlo generando un profitto, può avere l’interesse di entrare nel calcio? Ci sono delle opportunità importanti perché grandissimi brand e grandissime aziende in difficoltà, qualora ricevessero queste iniezioni di liquidità e si rimettessero in carreggiata, o comunque migliorassero le loro prestazioni sportive, potrebbero poi essere riconsiderate per una cessione con un margine significativo».

Quel che è certo è che servono interventi e soluzioni rapide. Quali sono le possibili vie d’uscita?

«C’è tanto da fare e il progetto SuperLega, ufficializzato e ritrattato in 48 ore, ha comunque evidenziato un disagio perché i problemi delle big sono anche i problemi delle piccole. Sicuramente come primi provvedimenti c’è la riforma del fair play finanziario perché così com’è ormai non ha più senso, non a caso in questo momento l’Uefa lo ha sospeso per due anni perché nessun club potrebbe oggi rispettare quei parametri.
Si sta poi iniziando a discutere di una forma di salary cap per far sì che i costi siano più calmierati. Abbiamo anche suggerito una riforma dei calendari perché si gioca troppo e non necessariamente più partite significano più ricavi, lo stesso presidente Figc Gabriele Gravina ha ipotizzato di ridurre da 20 a 18 il numero di squadre di Serie A. Inoltre, bisogna ridiscutere della ripartizione dei diritti: che siano gestiti a livello collettivo è un bene per l’equilibrio competitivo ma può risultare un male perché più le risorse sono distribuite in modo equo più i club non riescono a massimizzare i propri ricavi, bisogna trovare un giusto equilibrio». 

Si dice spesso che in Italia siamo indietro rispetto al resto d’Europa. Quali sono i modelli di riferimento a cui ispirarsi?

«L’obiettivo finale potrebbe essere la Premier League inglese che è senza dubbio la migliore lega europea ma, tra le altre cose, il problema è che la Serie A non lavora in gruppo con una strategia comune ma ogni club pensa a sé stesso, come abbiamo visto anche di recente spesso le assemblee diventano ring. Per vendere il prodotto calcio in tutto il mondo bisogna fare sistema come ha fatto la Premier, ma anche in parte la Liga spagnola, che sfruttando l’immagine del proprio brand è cresciuta molto. Una ventina d’anni fa la Serie A era il campionato di riferimento nel mondo, quindi ci sono delle basi perché torni ai fasti di un tempo, anche se nessuno ha avuto una visione a medio-lungo termine, per esempio per quanto riguarda la costruzione di stadi di proprietà».

Questa la base da cui ripartire. Magari trasformando i problemi attuali in opportunità.

«Servirebbe anche un intervento delle autorità, facilitando magari questa benedetta legge sugli stadi che è stata anche revisionata l’estate scorsa ma che, come abbiamo visto, non è ancora così agevole per tutta una serie di vincoli che ostacolano anche chi intende investire fondi privati. Lentamente qualcosa si muove in diverse realtà ma serve un’accelerazione. In Inghilterra, per esempio, la stragrande maggioranza dei club ha il proprio stadio di proprietà e questo fa la differenza non solo nei ricavi da botteghino ma anche per i possibili risvolti commerciali, come la vendita dei naming rights e dell’opportunità di avere ricavi quotidiani in un impianto sfruttando non solo per la partita. Non a caso l’Atalanta, che di recente ha costruito il suo nuovo stadio, è un esempio perfetto non solo di patrimonializzazione ma anche di gestione. E i risultati sia economici sia sportivi vanno di pari passo e parlano chiaro».

Mariano Boero