sabato, 20 Aprile 2024

GRANDI OPERE E AMBIENTE, L’APPELLO DEL GEOLOGO TOZZI: «BASTA COSTRUIRE, SERVE UNA LEGGE CHE TUTELI IL SUOLO»

Sommario

Sui soldi dedicati dal PNRR al nostro territorio – da Nord a Sud campo di battaglia per incendi, alluvioni e speculazioni edilizie che causano spesso frane e allagamenti – c’è chi fa fatica a fare affidamento. «Qui non si tratta del problema di costruire nuove opere, ma di dover compiere molti passi indietro», spiega il geologo Mario Tozzi.

A fare la sua parte in questa emergenza c’è anche il settore finanziario. E lo può fare orientando i capitali nella direzione di un’economia a basso impatto ambientale, creando vincitori di mercato e opportunità di investimento nella transizione verso un’economia a zero emissioni nette di carbonio e offrendo maggiori rendimenti corretti per il rischio.  A confermarlo il rapporto “Investimenti sostenibili per il clima” realizzato dal Forum per la finanza sostenibile, di cui fanno parte operatori e altre organizzazioni interessate all’impatto ambientale e sociale degli investimenti. Per rispettare gli impegni assunti nell’Accordo di Parigi, che nelle intenzioni dovrebbe far diventare l’Unione Europea la prima economia e società a impatto climatico zero entro il 2050, come previsto anche dall’EU Green Deal e confermato dal piano per la ripresa Next Generation EU, sono necessari interventi urgenti e cospicui investimenti per il territorio, attraverso collaborazioni pubblico-privato. 

Tra il 2017 e il 2018 la finanza climatica ha raggiunto flussi medi annui di 579 miliardi di dollari a livello globale, con un incremento del 25% rispetto al periodo 2015-2016. Ma non basta: l’International Panel on Climate Change (IPCC) ha stimato che occorrerà investire in media 830 miliardi di dollari all’anno in più rispetto agli attuali volumi per iniziative in ambito energetico, al fine di diminuire del 45% le emissioni nocive entro il 2030 e raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nel 2050.

Sarà fondamentale quindi orientare le risorse finanziarie verso la transizione a un modello economico a basse emissioni e gli investitori devono quindi analizzare dati e informazioni ESG (environmental-social-governance, cioè ambientali, sociali e di buona gestione aziendale) come, per esempio, il livello di esposizione ai rischi legati al cambiamento climatico o la tipologia e l’intensità degli impatti delle attività sull’ambiente e sul territorio.

E le stesse banche centrali stanno assumendo un ruolo sempre più centrale sul fronte delle politiche. Recentemente la Banca Centrale Europea ha pubblicato un piano d’azione che illustra i progressi che intende fare nella transizione verso un’economia carbon neutral. Il piano include lo sviluppo di nuovi indicatori sperimentali che comprendono strumenti finanziari green rilevanti e l’impronta di carbonio delle istituzioni finanziarie, così come le loro esposizioni ai rischi fisici legati al clima, e un programma per iniziare a effettuare stress test climatici sul bilancio dell’Eurosistema nel 2022.

Intanto, però, inondazioni, siccità e incendi sono eventi sempre più frequenti e dalla violenza sempre più estrema, in un contesto che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha descritto come un “codice rosso per l’umanità”. Il dissesto idrogeologico rimane uno dei grandi problemi anche del territorio del nostro Paese e la situazione appare fortemente precaria.

Su 191,5 miliardi di euro in arrivo dalla UE il 37% è indirizzato alla transizione verde: è abbastanza?

«Sarebbe interessante aggiungere tutti quei fondi stanziati in passato e mai spesi. Parliamoci chiaro: non è che si risolvono le cose facendo argini più alti o dighe, non servono a niente, si rendono soltanto le alluvioni più pericolose. Bisogna le case dai luoghi di pericolo, allontanarsi dai fiumi, che vanno lasciati liberi: meno li sclerotizzi, meno danni fanno».

Perché non si agisce allora?

«Perché la logica è quella ingegneristica, per cui si interviene con l’opera “sana”. Il problema è che i fenomeni sono diventati troppo violenti e una mano nuova aggraverebbe la situazione. In concreto: se si mette un argine e il fiume lo supera, farà sicuramente più danni rispetto a se fosse stato lasciato libero di defluire. Quando si vedono case e acqua nello stesso posto, significa che nel luogo sbagliato ci sono le case, mica il fiume. Quindi, l’unico modo per intervenire è fare passi indietro, considerevoli passi indietro, levare tutto quello che c’è nelle zone pericolose. Perché anche se con una buona previsione ci si può salvare, si rischia comunque di perdere l’abitazione. E questo significa proprio che quella casa è stata costruita nel posto sbagliato».

Il rapporto Istat del 2019 rispetto gli obiettivi dell’agenda 2030 mostra come il nostro Paese si collochi in posizione virtuosa in Europa per il consumo di risorse naturali (Obiettivo 13) ma vede una popolazione esposta a rischio di frane per il 2,2% e di alluvioni per il 10,4%; è evidente che l’obiettivo 15, vita sulla terra, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto

«Se continuiamo così dubito che si possa essere positivi»

Quello che è successo a luglio in Germania, dove un’ondata di maltempo ha causato più di 200 vittime e ingenti danni, è uno scenario che potrebbe verificarsi anche da noi?

«Le perturbazioni meteorologiche a carattere sempre più violente diventeranno frequenti e numerose fuori dalle aree in cui le vedevamo scoppiare un tempo e, soprattutto, accadranno anche fuori stagione.Altri territori invece saranno colpiti da fenomeni differenti, quindi desertificazioni, maremoti sempre più violenti, alluvioni, inondazioni, ma anche trombe d’aria, tornado, cicloni.».

Quali sono i problemi maggiori con i quali dobbiamo fare i conti?

«Anche l’Italia risente del cambiamento climatico e si vede nell’arrivo di queste perturbazioni a carattere violento che interessano prevalentemente sempre le stesse aree: Liguria, Calabria, Veneto, Campania. Ma la criticità maggiore del nostro territorio è il dissesto idrogeologico. Abbiamo il record europeo delle frane, 620mila su 750mila censite e, quindi, il nostro maggior problema è la bulimia costruttiva. In Italia abbiamo edificato troppo e consumiamo tanto suolo. Un metro quadrato ogni secondo che passa diventa asfalto o cemento. Il vero problema italiano è questo: troppe costruzioni, troppo cemento, troppe infrastrutture totalmente inutili, troppo asfalto. E che, grazie alla politica dei condoni, hanno triplicato per centomila il problema».

Che cosa serve?

«Una legge nazionale che dice chiaramente una cosa sola: da domani non si costruisce più nulla di nuovo. Però si mette a posto quello che c’è, salvaguardando l’occupazione e il giro di affari che, peraltro, nel caso della ristrutturazione è anche più lucroso che non costruire ex novo».

È una proposta?

«Dico solo che una legge sul consumo del suolo è stata in Parlamento per tre anni e non si è mossa di lì. Fortunatamente molti Comuni e molte Regioni hanno cominciato a promuovere un uso più sensato del territorio, impedendo di gettare cemento liberamente, la Toscana per esempio. Però sono leggi molto blande, non sono come dovrebbero essere. La notizia positiva è che almeno loro, a differenza della politica, hanno capito che la strada è quella».

Un’opinione sull’operato del ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani…

«Non sembra il ministro della Transizione Ecologica, è il ministro BAU, Business as Usual, tutto come prima. Con quello che propone non cambierà niente. Se la riconversione ecologica si pensa di realizzarla soltanto con la digitalizzazione, non ne usciamo vivi. Gli strumenti tecnologici che aiutano sono “fuffa”».

S.S.