sabato, 20 Aprile 2024

AFGHANISTAN, BERTOLOTTI: «LA GUERRA DEL TALCO, L’ACCORDO AUKUS E IL RUOLO DI ITALIA E EUROPA NEL NUOVO ASSETTO DEL PAESE»

Con l’Afghanistan in mano ai talebani, cambia repentinamente tutto l’assetto geopolitico ed economico globale. A partire dagli Stati Uniti che, se in passato guardavano al Paese anche in una visione di contenimento dell’espansionismo cinese, lasciando quel territorio hanno fatto un passo indietro creando un vuoto. Spazio che è stato colmato velocemente da un nuovo equilibrio a livello regionale e nelle repubbliche centro asiatiche ma che ha fatto emergere, per quei paesi che si sono sempre interessati all’Afghanistan altre preoccupazioni per queste nuove dinamiche. E tra questi, in pole position, c’è ovviamente la Cina

«È senz’altro l’attore principale in questo nuovo scenario che si va delineando, non c’è dubbio» ci spiega  Claudio Bertolotti, analista strategico direttore esecutivo di Start InSight, tra i massimi esperti di Afghanistan. «Trovo però che sul Paese del Dragone si sia concentrata un’attenzione globale esagerata, sopravvalutando quelle che sono le effettive ambizioni cinesi sull’Afghanistan. Si è dato molto riscontro all’aspetto economico, chiaramente, soprattutto a quello di una maggiore facilità all’accesso alle risorse minerarie ed energetiche del Paese, su cui però la Cina ha già un sostanziale monopolio. Su quel versante non è cambiato nulla. Ciò che invece si è modificata, anzi possiamo dire che è nettamente peggiorata, è la situazione di sicurezza per gli interessi interni alla Cina».

Che cosa significa?

«La Cina ha molto da guadagnare da un “processo di stabilità” in Afghanistan. Il proliferare di gruppi terroristici nel Paese mediorientale vicini o anche in competizione con i talebani, potrebbero in un certo senso contaminare le istanze autonomiste o indipendentiste del movimento uiguro in Cina. Questa minoranza musulmana, perseguitata dal governo cinese in quanto considerata portatrice della minaccia terroristica islamica nel Paese, si inserisce in questo quadro in ragione del fatto che essa abita la regione autonoma dello Xinjiang, passaggio obbligato nei progetti della Nuova via della seta e confinante per un breve, ma importantissimo tratto con l’Afghanistan. E Pechino teme molto per la stabilità di quest’area fondamentale per i propri interessi economici e vuole evitare che l’Afghanistan nelle mani dei talebani diventi una nuova base per i jihadisti uiguri. E poi c’è un’altra grande preoccupazione: il Pakistan. Infatti, fino ad oggi la Cina non aveva mai preso in considerazione la possibilità di far attraversare l’Afghanistan da alcuna bretella associata alla nuova Via della Seta, facendola invece passare, a nord attraverso le repubbliche centro asiatiche e a sud attraverso il Pakistan dove la Cina ha investito moltissimo in termini di nuove infrastrutture e di gestione di quelle esistente come i porti. Ma qui la Cina è diventata obiettivo principale del movimento indipendentista del Punjab e di altri gruppi legati allo jihadismo che stanno continuando a colpire i cinesi provocando anche numerose vittime tra i lavoratori di Pechino inviati nel Paese».

Parliamo allora del Pakistan, perché anche questo Paese è legato al riassetto? Ha mire particolari e che cosa sta facendo? 

«Allora dopo vent’anni a gestire il talebani come un movimento insurrezionale, ora si trova a dover gestire lo stesso movimento diventato però istituzionale, di governo. Il Pakistan davanti a questo nuovo scenario, dovrà cercare di rapportarsi al meglio anche politicamente con i talebani, cercando di mantenere un saldo controllo su quelle che saranno le scelte anche di politica estera da parte dello Stato Islamico. Questo perché il Pakistan, e qui entra in gioco un altro attore, in un’ottica di confronto con l’India ha bisogno di un retroterra strategico amico e sicuro da poter utilizzare nel caso di un eventuale conflitto armato. E arriviamo appunto all’India. Il Paese ha investito moltissimo negli ultimi 20 anni in Afganistan. E pur facendolo anche in un’ottica di supporto agli Usa nella sua visione di contenimento delle mire espansionistiche cinesi, è chiaro che oggi non è intenzionata a perdere i risultati di quegli investimenti fatti. Solo che deve stare molto allerta al Pakistan, che invece preme sull’Afghanistan per escluderla dal portare avanti questi progetti infrastrutturali di lungo periodo».

Mancano Iran e Russia che sembrano essere molto preoccupati della situazione che si è venuta a creare

«È così, ma i due Paesi agiscono in maniera differente. L’Iran guarda con attenzione e preoccupazione gli sviluppi che si stanno svolgendo in Afghanistan, cercando allo stesso tempo di trarre il maggior beneficio possibile dalla costruzione di un rapporto di dialogo con il movimento talebano al governo, all’interno del quale ci sono diversi gruppi che il Paese ha sostenuto militarmente ed economicamente nella guerra con gli Usa. Dall’altra parte, c’è un’altrettanto preoccupata Russia, per due motivi, principalmente. Il primo è quello legato al terrorismo. Il timore è che i gruppi operativi in Afghanistan o condizioni favorevoli all’arrivo di nuovi gruppi jihadisti nel Paese, possano andare a minare la sicurezza interna del Paese di Putin, dove il terrorismo di matrice jihadista è recepito come una minaccia rilevante. L’altra questione è legata sempre al terrorismo, ma rispetto ai legami di alcuni gruppi con la criminalità transnazionale, in particolare la criminalità legata al narcotraffico che, attraverso i paesi delle Repubbliche centro asiatiche indirizza traffici di oppiacei o di eroina già raffinata verso la Russia, favorendo i legami tra la criminalità locale e quelli transnazionali. Infine, la Russia fin quando gli Usa erano in Afghanistan non si era dovuta preoccupare più di tanto instabili equilibri politici dell’Afghanistan, cosa che invece dovrà fare oggi. E il fatto di aver lasciato l’ambasciata aperta pure nei giorni più bui, fa capire quando sia interessata a restare lì».

La presa di Kabul da parte dei talebani era una catastrofe che si poteva evitare? 

«Lo sostengo da 12 anni: non era evitabile, ma era ampiamente previsto. Quello che ha sorpreso davvero sono state, più che altro, l’inazione delle porte della sicurezza afghane e la velocità con cui tutto è avvenuto. Ma questo non è che la prova della capacità da parte dei talebani di portare a casa accordi negoziali, non soltanto sul piano internazionale, ma anche a livello locale. Molti dei distretti locali che sono caduti da maggio ad agosto del 2021, sono caduti senza combattere non perché i soldati siano scappati, ma perché ai soldati è stato ordinato di deporre le armi contro i talebani, e questo in virtù di determinati accordi presi con comandanti militari e con alcuni governatori distrettuali. Poi a fronte di un primo passaggio di molti distretti sotto il controllo talebano, c’è stato l’effetto domino, cioè un timore molto ampio dell’inarrestabilità da parte talebana. E quindi questo ha contribuito a creare una situazione di caos».

È davvero una situazione disastrosa come viene descritta? Intendo dire, per la popolazione è chiaramente una tragedia, vengono cancellati diritti umani conquistati con grande fatica, come se mai fossero esistiti. Ma cinicamente parlando, dal punto di visto politico ed economico? 

«È un disastro sì, ma diciamo anche ampiamente annunciato. Poteva, però, finire diversamente e molto meglio, questo sì. La maggiore responsabilità ce l’hanno, ovviamente, gli Stati Uniti, per aver gestito in maniera unilaterale, sia gli accordi negoziali, sia il disimpegno militare. Non si può dire che Biden sia stato mal consigliato, ma al contrario Biden è stato ben consigliato dal Pentagono e dall’Intelligence. È che Biden non ha ascoltato i buoni consigli, ma ha preso una decisione esclusivamente politica indipendentemente da quelli che sarebbero stati i risultati, ampiamente sottovalutati e che hanno portato anche a quel disastro umanitario a cui abbiamo assistito. Naturalmente, l’altra grande responsabilità ce l’ha il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani, che avrebbe dovuto rimanere a Kabul per consentire quella transizione morbida attraverso la creazione di un governo temporaneo che avrebbe certamente aperto all’emirato islamico e ai talebani, ma lo avrebbe fatto in maniera meno repentina e meno violenta di quello che è avvenuto».

Che ne resta della Nato adesso? La sconfitta americana in Afghanistan è anche la sconfitta politica, non militare, di un’alleanza occidentale che mostra periodicamente le sue crepe? 

«La NATO ne esce militarmente molto rinforzata, perché in vent’anni di guerra si è proceduto al miglioramento degli equipaggimenti, delle procedure di impiego e dell’addestramento dei soldati stessi. Ma dall’altro lato, ovvero politicamente, ne esce enormemente indebolita, perché il ritiro dall’Afganistan è stata la chiara dimostrazione che l’azionista di maggioranza dell’Organizzazione, ovvero gli Stati Uniti, di fatto ha imposto per 20 anni l’esclusiva realizzazione dei propri obiettivi ai quali l’Alleanza Atlantica si è dovuta adeguare. Lo ha fatto con i tempi per l’impegno, ma lo ha fatto addirittura con la cessazione dell’impegno che la NATO aveva garantito sarebbe andato avanti almeno fino a tutto il 2024. Oggi l’alleanza Atlantica è sostanzialmente da sola e questo è stato chiaro dalla risposta data dagli Usa nel summit dei ministri ad aprile, a Italia e Regno Unito che avevano mostrato grandi perplessità rispetto al disimpegno e avevano chiesto di posticiparla: “se volete restare, restate da soli”. La NATO ha dimostrato di non avere, senza gli Usa, la capacità militare per garantire un impegno di lungo periodo e con truppe numericamente rilevanti. E quindi sì, ne esce molto indebolita e il dibattito che si è acceso sulla necessità di una difesa europea nasce anche da questa presa di coscienza».

In 20 anni nelle casse di Kabul sono affluiti quasi 80 miliardi di dollari. Senza il paese è economicamente a pezzi. Lo stop degli aiuti internazionali potrebbe essere una leva per premere sui talebani e ottenere qualcosa in cambio?

L’Afghanistan ieri e l’Afghanistan oggi senza finanziamenti esterni è destinato al fallimento. Il Paese è sopravvissuto grazie alle donazioni provenienti dalla comunità internazionale. L’emirato islamico non potrà sopravvivere senza. Potrà essere una leva dare o concedere? Forse. Nel senso che i talebani non hanno mai rispettato alcun accordo, né con la comunità internazionale né con alcun singolo attore che con loro si è interfacciato. E certamente non rispetteranno nessun accordo che si basi sulla cessione o meno di questi aiuti finanziari. I talebani dicono quello che la comunità internazionale vuole sentirsi dire, cercando di farlo bastare per convincere l’opinione pubblica a sostenere eventuali politiche di sostegno. Politiche di sostegno garantite nell’ordine del milioni di dollari, a fronte delle centinaia di milioni, se non anche migliaia di dollari spesi nel corso di vent’anni. E che i talebani continuano a pretendere, nonostante tutto, accusando la comunità internazionale di bloccare i fondi per le popolazioni in difficoltà, non rispettando gli accordi presi. Questo è il tono che usano e che useranno, e noi ci dobbiamo abituare e adattare». 

Bisognerà dialogare con i talebani?

«L’impressione che ho, è che la comunità internazionale e anche molti giornalisti e analisti pensino ai talebani come a un soggetto nuovo da definire e comunque con cui dialogare e interfacciarsi anche sul piano formale. I talebani non sono quello. I talebani sono un movimento storicamente ben noto che non ha mai nascosto le proprie ambizioni, che sono sempre rimaste le stesse. Quindi credo che se si aprisse il dialogo con loro, elargendo i finanziamenti direttamente allo stato islamico, si commetterebbe un grandissimo errore. Al contrario se questi fondi passassero per le Nazioni Unite e fossero gestiti esclusivamente da loro, allora avrebbe un senso e un risultato davvero a beneficio della popolazione. Poi certo, la realpolitik impone di dover parlare con i talebani, questo è indubbio, perché riconosciuti o non riconosciuti, loro sono di fatto uno Stato, anche dal punto di vista del diritto internazionale. Ma con loro si deve solo interloquire, concedendo il minimo possibile e in maniera che sia solo realmente a vantaggio della popolazione».

Torniamo agli interessi economici che girano in torno all’Afghanistan? Partiamo con i rapporti con l’Europa. Con questo nuovo assetto, avrà da perderci?

«Direi di no, tutto sommato in questo momento non ha grandi interessi in Afghanistan. Guardando, invece, in prospettiva, visto che l’Europa sta cercando di strutturare un percorso di indipendenza tecnologica e questa passa anche attraverso all’accesso alle risorse minerarie che servono per attuarlo, ecco un’Afghanistan da cui l’Unione Europea fosse totalmente esclusa, è sicuramente molto svantaggioso. Quindi, in un’ottica di più ampio respiro, credo che dovrebbe assolutamente mantenere buoni rapporti come garanzia dei suoi interessi strategici. C’è anche un altro aspetto, da tenere in considerazione, la gestione dei flussi migratori. L’Afghanistan, come sappiamo, è un paese da cui cercano di scappare centinaia di migliaia di persone, che ovviamente guardano a noi come a una realtà politica di riferimento che può garantire loro un futuro. Da questo punto di vista l’Europa si dovrebbe muovere in maniera unitaria. Purtroppo, come stiamo già vedendo, temo che questo cosa non avverrà. Diciamo che l’Unione Europea è talmente fragile di suo che difficilmente riuscirà a perseguire interessi di questo tipo, lasciando come sempre lo spazio ad altri attori, in particolare modo la Russia e la Cina».

Gli interscambi commerciali con l’Italia sono importanti o marginali?

«Marginali, anche se c’è un aspetto interessante, di cui non si parla quasi mai. I pochi investimenti fatti dalle aziende italiane, si collocano all’estremo margine degli impegni e degli investimenti complessivi fatti dagli altri paesi. C’è però una questione, anche se, per carità anche in questo caso arriva a toccare investimenti nell’ordine di alcune migliaia e forse anche centinaia di milioni di euro, quindi sempre molto limitati, ed è legata alla produzione del talco. L’Afghanistan è un grande produttore di talco che viene utilizzato nell’industria cosmetica a livello globale. Alcune aziende italiane del settore hanno investito, acquistando dal Paese talco grezzo per la successiva lavorazione. Ma nel 2016 si è bloccato tutto a causa di una vendita incontrollata e illegale finita sotto il controllo prima talebano e poi dello stato islamico, verso il Pakistan. Pakistan che oggi continuerebbe a importare il talco dall’Afghanistan in maniera illegale, vendendolo poi di fatto come talco pakistano. Sembra poca cosa, ma il rischio che anche l’economia globale legata ad un prodotto sostanzialmente innocuo come il talco in realtà vada ad alimentare un’economia pericolosamente illegale, visto che finanzierebbe in maniera indiretta anche il terrorismo, è alta».

Abbandonando l’Afghanistan, gli Stati Uniti non hanno perso un’occasione economica?

«Sì, in parte, ma è molto marginale, rispetto a quanto sia più vantaggiosa l’opzione di contenimento dei cinesi, concentrando gli sforzi sulla parte pacifica e non su quella centro asiatica. Esempio ne è la nascita di Aukus, questa alleanza tra Regno Unito, Stati Uniti e Australia, che di fatto non è nulla di nuovo, anche se viene presentata come una grande novità. In realtà rientra in una strategia avviata dagli Usa da almeno dieci anni, e che fonda le sue radici in un rapporto di collaborazione con paesi di area anglofoni, i famosi cinque occhi, comprendendo anche Nuova Zelanda e Canada, andando ad investire in un nuovo asse strategico per gli Stati Uniti che, avendo abbandonato di fatto il Medio Oriente, perché chiudendo con l’Afghanistan si chiude un lungo percorso di disimpegno in tutta l’area nord africana e medio orientale, si va a concentrare sulla parte pacifica. Politica che aveva avviato Obama e che punta a definire in maniera molto netta quello che sarà il perimetro di conflittualità con la Cina e in particolare modo andando a toccare la questione, che potrebbe essere il prossimo casus belli, di Taiwan e delle isole che sono sotto il controllo di Taipei. Infatti, Taiwan potrebbe essere utilizzata dagli Stati Uniti per spostare il rapporto competitivo con la Cina da commerciale a quello militare. Su due livelli: il primo convenzionale, con la collaborazione avviata con l’Australia per usa produzione di sottomarini nucleari, grandi navi sommergibili per la lotta o per la deterrenza. Il secondo non convenzionale, sul dominio cibernetico, ambito su cui Cina e Stati Uniti stanno investendo tantissimo».

È in grado fare delle previsioni?

«Le mie previsioni non sono rosee, ma si collocano sulla linea che ho definito ormai da dieci anni. L’Afghanistan va verso un periodo di progressivo peggioramento economico, politico e sociale dove la popolazione, cresciuta in questi anni con l’idea di un Paese sempre più aperto rispetto a quello che i talebani vogliono invece imporre, tenderà ad uno scontro generazionale e sociale che vedrà contrapposte le ambizioni della più ampia popolazione, rispetto a quello che sono invece le ambizioni di una minima parte che sostiene i talebani i quali, è importante ricordarlo, non hanno affatto un ampio consenso. In linea di massima si può dire che l’Afghanistan dovrebbe essere più sicuro, visto che pur essendo stata violenta, quella che è stata imposta è comunque una forma di pace. Poi naturalmente ci sono tutte le violenze e le vendette a cui si stanno abbandonando i talebani, che non sono poca cosa. Ciò che è chiaro è che la mancata capacità di controllo del paese, garantirà ai gruppi insurrezionali e al terrorismo di agire in maniera indisturbata in Afghanistan e dall’Afghanistan colpire altrove. E quindi, la minaccia terroristica al 1 ottobre 2021 è decisamente superiore a quella che abbiamo visto e ci ha spaventato dell’11 settembre del 2001. La vittoria dei talebani è diventata la vittoria degli jihadisti a livello globale. Dimostrazione, attraverso la loro tecnica comunicativa, che la lotta, indipendente al tempo che richiede, porta sempre alla vittoria».