sabato, 20 Aprile 2024

STADI E PRIVATE EQUITY: L’ANTIDOTO SALVA CALCIO

Conti in rosso per il mondo del calcio, già ampiamente in sofferenza prima dello scoppio dell’epidemia. Il tutto nonostante il Financial Fair Play – progetto introdotto dal comitato esecutivo UEFA nel settembre 2009 per far estinguere i debiti contratti dalle società calcistiche e indurle nel lungo periodo ad un auto-sostentamento finanziario. Cifre che superano costantemente i ricavi; perdite a sei zeri che sono ormai una costante da qualche anno. Senza dimenticare i flussi di cassa, azzerati e messi in quarantena dalla pandemia. Tanto che Figc e Pwc, nel report sullo stato di salute del calcio professionistico delle ultime 5 stagioni (2014/2019), dipingono una situazione critica: le perdite cumulate dall’azienda calcio ammontano a 1,6 miliardi. E l’ultima annata pre-Covid, il 2018/2019, ci parla di un deficit di oltre 395 milioni su ricavi totali di 3,85 miliardi. Una esposizione finanziaria a cui trovare una corsia di rimborso preferenziale che non sembra operazione di facile soluzione. A pagare maggiormente sono i top club, non solo la Juventus, nonostante l’avvio del nuovo corso abbia portato in dote un maxi aumento di liquidità da 400 milioni di euro e una nuova struttura dirigenziale. In questo contesto sono i diritti TV che portano ossigeno al sistema calcio, aumentando il fatturato di 1,4 miliardi l’anno. Ma non solo. Stando alle ultime vicende sportive che arrivano dalla Spagna, con il fondo CVC Capital Partners che ha acquistato il 10% della Liga garantendo un bottino di quasi 3 miliardi di euro ai club, sembrerebbe esserci una nuova via d’uscita per i problemi di liquidità del calcio, dove i fondi del private equity giocano un ruolo da protagonista. «Dal 2011 – l’anno dell’entrata in vigore delle regolamentazioni del Financial Fair Play – quasi tutti i club stavano migliorando i propri conti», dice Antonio Di Cianni, manager presso KPMG Football Benchmark. «Il macro obiettivo del FFP è quello di calmierare le spese o quantomeno renderle più sostenibili e più funzionali ai ricavi. Parliamo sempre di un equilibrio precario, alcuni club potevano vantare dei profitti, ma minimi. E in ogni caso l’indebitamento, che è diverso dalle perdite di esercizio, era importante: pensiamo al Tottenham con il progetto stadio nuovo, al Barcellona, alla Juventus con il bond emesso nel 2019. Ma proprio gli effetti del Financial Fair Play riuscivano in qualche modo a limitare le perdite stesse e a far tornare il segno più». 

Un automatismo cancellato dal Covid-19

«La pandemia ha creato ulteriori e significative difficoltà, sparigliando le carte e affossando chi era già sott’acqua o creando un grosso problema a quelli che stavano comunque galleggiando con discreta facilità. Il danno è stato chiaramente quello relativo alla liquidità da stadio, ma anche a livello di diritti televisivi, oltre che commerciali: con un prodotto calcio giocato a porte chiuse, le caratteristiche dell’evento vengono meno e alcuni broadcaster hanno ricevuto degli sconti nelle rate finali dei pagamenti (stagione 19/20)».

L’industria del matchday in Serie A valeva poco meno del 10% delle entrate totali, già prima del Covid-19. Fatta eccezione per i club che dispongono di uno stadio di proprietà: la Juventus, da quando gioca allo Stadium, ha più che triplicato le entrate (da circa 12 milioni nel 2009/2010 a quasi 90 nel 2018/2019) con un impatto del 13,4% sul fatturato. È questa la strada da seguire?

«È una delle vie da seguire. Sappiamo bene quanto i club della nostra Serie A siano dipendenti dai soldi dei diritti televisivi. Un impianto di proprietà migliora i ricavi del club ma anche la loro stessa distribuzione, in quanto il soggetto è meno dipendente da una fonte di soldi specifica, spalmando così il rischio. L’esempio lampante è quello di un club che, ad esempio, lotta per la salvezza: se si dipende esclusivamente dagli introiti dei diritti tv, l’eventuale retrocessione potrebbe causare problemi di stabilità finanziaria. Discorso simile per i club che lottano per un posto nelle Coppe: senza l’accesso alle competizioni continentali il contraccolpo economico è evidente. Viene a crearsi uno stress finanziario, spesso calmierato tramite uso della leva del player trading, e quindi plusvalenze da calciomercato».

A proposito, anche qui siamo di fronte a un calciomercato 2.0 che somiglia vagamente a quel cumulo di trattative ed esborsi onerosi da capogiro a cui eravamo abituati…

«Nelle ultime due estati abbiamo assistito a un numero di trattative molto inferiore, se confrontiamo le stagioni precedenti a quelle influenzate dalla pandemia. Anche la tipologia di trasferimenti è cambiata: da cessioni onerose faraoniche a prestiti secchi o al massimo con diritto di riscatto, anche se il boom è quello dei parametri zero. Anche di top player, soprattutto quest’anno: Donnarumma su tutti, ma anche Messi sono nomi eccellenti che parafrasano bene il concetto di cambiamento. Quindi zero liquidità immessa nel sistema. Questa depressione del mercato causata dal covid ha messo in ginocchio tutta la macchina calcio. Chi ha sofferto di meno forse è stata l’Inghilterra».

È il modello di lega a cui ispirarsi, anche dal punto di vista degli stadi di proprietà? 

«Quando l’Italia era la lega più ricca non ha avuto visione imprenditoriale, in quanto il giro d’affari (botteghini, TV, commerciale) generato andava a finire prettamente nelle tasche dei calciatori. I presidenti italiani, quando hanno avuto la possibilità di capitalizzare determinati investimenti, non lo hanno fatto, limitandosi principalmente a spendere per prendere i giocatori più forti e lottare per determinati titoli e in alcuni casi anche vincerli. Una buona gestione avrebbe dovuto suggerire di destinare una quota di quell’incredibile giro d’affari a investimenti strutturali, patrimonializzando e rinforzando la società. Cosa che la Premier League invece, una volta cominciata a crescere come Lega, è riuscita a fare, vendendo il prodotto in maniera “comune”: esiste un marchio Premier – quindi non solo le singole individualità – che crea un prodotto forte, riconoscibile e visibile in tutto il mondo. La Serie A molto meno, oggi. In sintesi, hanno sviluppato l’appeal commerciale con una visione comune e i club hanno saputo individualmente investire, dotandosi di uno stadio di proprietà e attivando gli automatismi dei ricavi da botteghino, che hanno portato nuova e maggiore liquidità». 

Il problema stadi della Serie A è più mancanza di scarsa visione imprenditoriale o problema dei niet delle amministrazioni comunali?

«Senza trovare un colpevole a tutti i costi, la mancanza di vision a lungo termine ha giocato una partita importante in questa stagnazione del nostro calcio. Ma è anche vero che in Italia ci si scontra con pratiche burocratiche particolarmente lunghe. Il caso della Fiorentina è un esempio emblematico: l’intenzione di dotarsi di uno stadio di proprietà, principalmente finanziato dalle proprie capacità economiche, si è scontrata con i vincoli legati all’urbanistica e alla storicità del Franchi, che infine  sarà ristrutturato dall’amministrazione grazie a 95 milioni di euro messi a disposizione dal PNRR. Si crea quindi una situazione in cui le società non hanno il pieno controllo dell’asset, non solo a livello di design e struttura, ma anche di benefici economici, tant’è che la stragrande maggioranza dei club italiani paga una mutualità annuale per giocare negli impianti, che rimangono di proprietà comunale. Questi vincoli dovuti al fattore urbanistico storico e soprattutto alla burocrazia, all’estero sono meno stringenti. Si spera che la legge sugli stadi possa agevolare questo iter».

Se la salvezza a tutti i mali non passa soltanto dallo stadio di proprietà, che cosa si prospetta per i calcio italiano: in quest’ottica, gli investimenti dei fondi del private equity rappresentano una soluzione?  

«Lo stadio è una soluzione ma non la soluzione. Sui fondi: è un argomento tricky, bisogna fare attenzione: la Liga ha detto sì, la Serie A un bel no, cosi come la Bundesliga, anche se il nostro campionato sembrava essere più propenso verso un nero su bianco fino a dicembre scorso. Poi c’è stato un dietrofront che ha sparigliato le carte, anche per un problema di governance: se un fondo entra e compra una determinata percentuale dei diritti tv e commerciali, pretende di avere voce in capitolo all’interno della gestione. Questo è uno dei motivi principali del rifiuto a CVC, anche se in seguito all’accordo dello stesso con la Liga, se ne sta riparlando anche in ottica Serie A: c’è bisogno di liquidità in questi momenti di difficoltà, che riguardano l’intera industria calcio e non solo i club nostrani».   

©Luca Maddalena

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