giovedì, 25 Aprile 2024

IL BUSINESS DEL POLO ITALIANO CHE PUNTA LE OLIMPIADI 2026 E VUOLE DIVENTARE POP

È da sempre definito uno sport “aristocratico” dalle origini antichissime: la prima partita registrata nella storia risale al 600 a.C. e a sfidarsi furono turcomanni e persiani. Ma il polo, la disciplina equestre più in voga negli ultimi tempi, prova a riscrivere etichette e cliché che poco si addicono alla nuova dimensione che la Federazione Italiana Sport Equestri (Fise) ha deciso di affidargli. A partire dai successi continentali, sconosciuti ai più ma che parlano di un polo ai vertici dell’Europa grazie ad amazzoni e cavalieri italiani d’oro agli ultimi campionati europei. Un risultato per certi versi storico ma per nulla scontato «frutto di un lavoro fatto negli ultimi anni dalla Federazione, grazie alla dirigenza insediatasi quattro anni fa che ha iniziato a credere nel polo e ha messo a disposizione risorse economiche che hanno permesso di arrivare ai risultati sportivi di cui si parlava poc’anzi. Ma non solo. Alla base di queste due splendide affermazioni c’è un lavoro di diffusione e preparazione non indifferente: abbiamo creato nuove strutture come mai era stato fatto nel mondo di questo sport equestre», dice Alessandro Giachetti, responsabile del dipartimento Polo della Federazione Italiana Sport Equestri.

Un risultato che arriva dopo anni di progettualità e investimenti…

«Si, senza dubbio. Già l’oro femminile è una conferma della stessa medaglia vinta nel 2017 e dell’argento vinto l’anno dopo. Poi è arrivata la pandemia e ci siamo fermati ma non abbiamo smesso di proseguire con la preparazione e l’attuazione del piano. È chiaro che le affermazioni a livello europeo ci hanno aiutato ad allargare il nostro orizzonte, soprattutto in termini di frequentazione del polo».

Parliamo di numeri: quanti praticano il polo in Italia?

«Tra giocatori italiani e stranieri, che normalmente vengono  a giocare sul nostro territorio parliamo di 400 professionisti a cui vanno aggiunti gli aspiranti, grazie al programma che abbiamo messo in piedi in questi ultimi anni con la Federazione, che arrivano a 200». 

Numeri importanti e in crescita, anche se il polo si trascina dietro l’immagine di uno sport facoltoso e per pochi. È davvero così?

«È uno stereotipo di questo sport. Mi sembra chiaro che mantenere una squadra e affrontare trasferte internazionali, compreso il trasporto dei cavalli, sia economicamente dispendioso. Ma bisogna valutare anche su che tipo di campo si va a giocare e soprattutto le dimensioni dello stesso. Proprio per questo e nell’ottica di rendere il polo meno costoso abbiamo messo a punto il progetto Arena Polo (già attivo in Usa, Inghilterra e Francia): una disciplina praticata su campi dalle dimensioni minori e di conseguenza più gestibili a livello economico. Se consideriamo che un terreno tradizionale di polo è di 260 metri per 150, l’equivalente di quasi 4 campi di calcio messi insieme e che sono necessari 4 cavalli e 16 tra cavalieri o amazzoni e riserve per una partita suddivisa in 4 tempi e il relativo cambio di cavalli, vi lascio immaginare che economicamente stiamo parlando di cifre importanti. E Arena Polo nasce propio per abbattere drasticamente questi costi, rendendo possibile giocare due contro due o tre contro tre, ma soprattutto, date le dimensioni del terreno di gioco, con un solo cavallo. Il risultato è un abbattimento significativo degli investimenti per chi gioca ma anche spese contenute. I cavalli possono essere anche affittati: il costo per una partita singola di Arena Polo è di 100 euro, di lunga più esiguo rispetto a quelli di una partita di polo tradizionale. Se invece parliamo degli oneri per l’acquisto di un cavallo il discorso cambia: un puledro per principianti costa circa 4000 euro, con la relativa manutenzione che arriva fino a 3-400 euro al mese».

Se volessimo quantificare i costi delle trasferte, che mi sembra di capire siano il peso maggiore, di che cifre parliamo? Sono tutti a carico della Federazione oppure c’è una policy specifica che prevede anche la collaborazione e la condivisione degli stessi con il privato?

«C’è una collaborazione ibrida tra il capitano della squadra, che gestisce principalmente le spese per i professionisti presenti in equipe e la Federazione che partecipa in maniera importante soprattutto per la gestione e il trasporto dei cavalli. La classica cooperazione tra pubblico e privato».

Fino a poco prima della pandemia il comparto equestre garantiva un indotto sul PIL di circa 3 miliardi di euro l’anno. È ancora così oggi? Qual’è la fotografia finanziario economica del settore?

«La pandemia ha portato ad un aumento esponenziale dei tesserati e dei fruitori del mondo dell’equitazione, proprio perché essendo uno sport all’aperto, nonché uno tra i primi a ricevere le autorizzazioni per ripartire nonostante il Covid-19, l’incremento in questi ultimi due anni è stato del 50%. Un elemento importante in un momento delicato: l’equitazione sta tirando moltissimo e da il suo contributo alla ripresa economica. Non mi stupirei se quei numeri venissero confermati o meglio, migliorati». 

Concentrandoci sull’aspetto meramente sportivo, che tipo di disciplina è il polo?

«È una disciplina molto affascinante e glielo spiego con un aneddoto. C’è un giocatore argentino molto famoso, Gonzalo Pieres, il più grande di tutti i tempi tra i carioca, che ha affermato in un’intervista di non aver mai incontrato in cinquant’anni di agonismo, qualcuno che abbia iniziato a giocare a polo, senza sconfessare in seguito l’amore per lo stesso. È questione di passione ma è anche il frutto di alcuni componenti che lo rendono intrigante: uno su tutti il contatto con i cavalli. Senza tralasciare l’aspetto della socialità: si gioca in squadra con gli amici, come avviene per il calcetto. E poi il fascino ancestrale della palla e l’adrenalina che deriva da quel pizzico di rischio che comunque si corre andando a cavallo. Per non parlare degli scenari suggestivi in cui si svolgono le competizioni: un alone di glamour ed esclusività che rendono il polo decisamente intrigante». 

La capacità di attrazione del polo sembra non si sia esaurita solo agganciando nuovi appassionati, ma anche televisivamente parlando. Ci sono degli accordi in essere per promuovere lo sport anche in tv?

«Per la prima volta abbiamo siglato un accordo con Rai Sport quest’anno per la trasmissione in diretta di diversi eventi. In questo contesto, le due medaglie d’oro vinte dai nostri cavalieri e dalle nostre amazzoni hanno fatto da cassa di risonanza e ci hanno portato a compiere un passo importante anche nel mondo della comunicazione. Da canto nostro, per ogni torneo internazionale a cui partecipiamo, ci avvaliamo della collaborazione della troupe che ci coadiuva nelle riprese e nel montaggio degli eventi stessi: è anche grazie ad un investimento non indifferente della Federazione dal punto di vista della comunicazione dell’evento, che il polo oggi si affacci ad una platea più ampia stringendo collaborazioni con media, fino a poco fa sconosciuti per la disciplina. E i risultati si vedono». 

E anche gli sponsor fanno la loro parte: da sempre le sponsorizzazioni sono a fianco di questo sport. Se volessimo quantificare quanto pesano le sponsorship nel polo, di che cifre parleremo?

«Dipende dai vari tipi di tornei: le sponsorizzazioni possono partite da poche migliaia di euro fino a qualche decina di migliaia di euro a seconda della posizione e della visibilità che si offre agli stessi. Certo è che gli sponsor ultimamente si avvicinano con più piacere al polo proprio perché questo nostro investimento nella comunicazione ci ha permesso di essere maggiormente appetibili di quanto già lo eravamo, nonostante la pandemia».

Che in questo caso, nonostante anche il polo sia stato investito da uno stress finanziario non indifferente, sembra aver teso la mano a questo sport, proprio in virtù del fatto che siete potuti ripartire prima e scontare meno il danno economico subito da altri sport, calcio in primis…

«Siamo stati fermi anche noi cinque mesi però abbiamo avuto la fortuna di poter fare l’ultimo torneo a febbraio 2020 e ripartire già a settembre. Senza fermarci anche in piena seconda ondata. Questo grazie al fatto che il polo è classificato come sport outdoor, per giunta a cavallo e con un ragionevole distanziamento tra i giocatori: i rischi di un potenziale contagio sono bassi. In controtendenza rispetto ad altri sport che magari necessitano di uno stretto contatto fisico e che in un certo senso ha reso maggiormente difficile una pronta e piena ripartenza». 

Numeri importanti, come altrettanti investimenti e un periodo magico a livello sportivo: qual è l’obiettivo del polo italiano?

«Senza dubbio riportare questo sport tra quelli olimpici. Il polo è stato sport olimpico fino a Berlino ’36. Da quel momento in poi non è stato più in grado di essere ammesso tra le discipline olimpiche. Trentacinque anni fa è venuta alla luce la Federazione Internazionale Polo, della quale sono membro del consiglio d’amministrazione, con un solo obiettivo: riportare questo sport dove merita di essere. A livello internazionale abbiamo e stiamo lavorando bene, aumentando il numero di Paesi nei quali viene praticato il polo. L’intoppo maggiore deriva dal fatto che c’è una lunga lista di sport che hanno medesima ambizione e che sono più diffusi di noi. Non ci resta che attendere i prossimi mesi per scoprire se riusciremo nel nostro intento per le Olimpiadi del 2026». ©

Luca Maddalena

Twitter: Luca_Madda

LinkedIn: Luca Maddalena