venerdì, 26 Aprile 2024

Entertainment: come cambia il business dei canali TV

La televisione attraversa una rivoluzione. L’avvento dei servizi di streaming online e dell’on demand sembra minacciare radicalmente il dominio della tv generalista e la sua audience tradizionale, mentre i colossi che si formano a livello globale sembrano poter schiacciare le reti nazionali. Eppure, il piccolo schermo forse non è ancora al canto del cigno. Anzi, «sopravviverà in una convergenza con i colossi innovativi dello streaming che li porterà a essere la stessa cosa», dice Riccardo Pasini, produttore televisivo e fondatore di Prodotto, fattori di videoevoluzione, di recente autore di La nuova era della videoevoluzione. «Le reti tradizionali – afferma – scoprono nuovi meccanismi di monetizzazione dell’audience che sono totalmente da inventare e sperimentare». D’altra parte, «le Netflix dovranno cominciare a diventare sempre meno dei supermercati e più degli editori, che raccontino e promuovano i contenuti oltre a distribuirli, se vogliono mantenere i loro profitti».

La televisione è un mezzo che nella sua storia è cambiato molto. Cosa vuol dire far parte del business della tv oggi?

«Le carte in tavola sono completamente cambiate: sembrava che non ci fosse più futuro, con quotazioni in crollo, e invece la nuova visione che si sta sviluppando riporta in auge il settore. Nascono veri e propri “mondi editoriali”, formati dagli attuali editori racchiudendo sotto un unico cappello tutti i loro contenuti. Immaginando ciò che in parte già accade, possiamo pensare a un unico marchio che raccoglie tutta una serie di cataloghi e reti, che diventeranno sempre più dei brand veri e propri in cui lo spettatore possa riconoscere determinate categorie di contenuti. Questo comporterà grosse alleanze per creare mondi sempre più larghi, meglio capaci di trattenere il fruitore. Ma saranno anche realtà piramidali, con all’interno varie modalità di fruizione: da quella gratuita, a quella one-shot, ai contenuti flag per abbonati. Tutte modalità un tempo lontane dalla tv commerciale, pagata soprattutto con la pubblicità. Tutto questo a fronte del moltiplicarsi dei contenuti originali proposti da produzioni indipendenti e offerti a un mercato espanso su scala globale. Questo aspetto, in parte limitato per una lingua come l’italiano, diventa particolarmente importante se si pensa ad esempio all’inglese o allo spagnolo. Si tratta di uno stravolgimento annunciato».

Quindi il volume dei guadagni non diminuisce, ma cambia la provenienza?

«Esatto. Mi viene anzi da dire che si allargheranno. Per una ventina d’anni, siamo stati educati a una mentalità secondo cui la televisione stava morendo. Quello di cui non ci rendevamo conto era che stava solo cambiando pelle. Quello che mancava era la tecnologia per implementare questo cambiamento, il che ha generato confusione e grandi movimenti di ascolti. Ora che la tecnologia c’è, da un lato troviamo delle grandi reti generaliste che hanno ritrovato la loro identità e si espandono verso i contenuti on demand, dall’altro servizi di streaming come Netflix che si avvicinano sempre di più alla tv tradizionale, con contenuti a flusso e pubblicazioni periodiche. Insomma, partendo da punti opposti, si avvicinano fino a diventare identici, con una segmentazione su tipi di servizio diversi. Da un punto di vista economico, la partita sarà equa soprattutto quando alle paytv saranno applicate le stesse metriche adottate adesso dalla televisione per il calcolo dei guadagni pubblicitari».

Le realtà di streaming on demand pongono dunque un problema legislativo?

«Sì, nella misura in cui si tratta di una “terra di nessuno”. Sul web, è come se non ci fossero regole, mentre sulla tv esiste un sistema di norme frutto di decenni di esperienza e confronto con il pubblico. Questo è sbagliato, perché non si gioca ad armi pari. Ci dovrà essere quanto prima un adeguamento, nella consapevolezza che non si parla più di mondi separati».

La tendenza generale del mondo dell’entertainment sembra andare verso formazione di grandi conglomerati. Saranno realizzati così i “mondi editoriali”?

«Non necessariamente, ma la questione delle fusioni resta una chiave importantissima: i grandi colossi, come Netflix o Prime Video, hanno alzato così tanto l’asticella che gli investimenti fatti non hanno un riscontro sufficiente sulle entrate. Soprattutto adesso che, dopo la crescita esponenziale della pandemia, la situazione si sta stabilizzando e la concorrenza comincia ad aumentare. Per questo, è probabile che prima o poi ci sarà qualche vittima o qualche fusione ulteriore, per sostenere le spese. L’altro obiettivo della fusione può anche essere quello di diversificare le piattaforme, adattandosi alla capacità di spesa delle famiglie. È la soluzione di Disney, che invece di creare un unico enorme mondo, ha creato tutta una serie di segmenti diversi. Realtà di questo tipo sono da osservare, anche perché fino a poco tempo fa producevano contenuti per venderli a caro prezzo sul mercato. Ora devono fare i conti con una realtà cambiata, in cui non possono più permettersi di evitare costi di distribuzione e un rapporto diretto con il consumatore finale: da B2B, il modello diventa di fatto un B2C. Per questo bisognerà vedere se sapranno reggere al peso della concorrenza e se gli introiti degli abbonamenti saranno all’altezza di quelli precedenti. Per chi già produceva per il mercato, le opportunità di guadagno si sono moltiplicate. Per chi invece vendeva i suoi prodotti, occorrerà valutare cosa convenga di più».

Un termine che compare nel titolo e un po’ ovunque nel libro è videoevoluzione. Di che si tratta?

«È un termine che si è evoluto negli anni. Inizialmente, quando ancora stavo lavorando alla mia tesi di laurea, era riferito al grande mutamento di quel periodo: rappresentava la ricerca di un punto di arrivo per la televisione. Un punto che effettivamente è arrivato e di cui parlo nel libro, una convergenza tra internet e televisione che io sostenevo anche in tempi non sospetti, quando tutti davano per morto un mezzo a favore di un altro invece di percepire il connubio che poi sarebbe arrivato. L’inizio di questa convergenza ha segnato anche un cambiamento di significato nel termine, che rappresenta un approccio: “interpretare l’innovazione per dar vita a nuove idee”, che è il mio mantra e il sottotitolo del libro. Significa inventare cose nuove osservando ciò che l’innovazione mette a disposizione, senza trincerarsi dietro a barriere stereotipiche. Ed è particolarmente importante oggi che i segnali del cambiamento sono quotidiani, perché la tecnologia si muove a una velocità mai vista prima. Non a caso, i cambiamenti di cui parlo nel libro sono in una prospettiva di cinque anni, non venti come sarebbe stato un tempo».

Sono tanti gli aspetti. Nel libro c’è una sorta di analisi sociale sul cambiamento delle nostre abitudini e su come questo stimoli nuovi livelli di fruizione. Questo però genera nuovi meccanismi di monetizzazione dell’audience che sono totalmente da inventare e sperimentare.

Anche il fatto di creare un percorso dove la modalità di fruizione porti a metodi di guadagno diversi, è un obiettivo che, come editore, mi porrei. Ad esempio, se ho del materiale vecchio, posso utilizzarlo per una trasmissione a flusso che guadagna dalla pubblicità, ma con delle modalità di scarico a pagamento oppure con degli appuntamenti alla visione. Questi ultimi servono a recuperare i punti di riferimento dati un tempo dalla tv e che il binge watching aveva eliminato. Quello che non si è ancora ritrovato è la prima visione congiunta, che potrebbe tornare.

Insomma, le Netflix devono cominciare a diventare sempre meno dei supermercati e più degli editori, che raccontino e promuovano i contenuti oltre a distribuirli».                               ©

Marco Battistone

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Foto di Nabil Saleh su Unsplash

Studente, da sempre appassionato di temi finanziari, approdo a Il Bollettino all’inizio del 2021. Attualmente mi occupo di banche ed esteri, nonché di una rubrica video settimanale in cui tratto temi finanziari in formato "pop".