sabato, 20 Aprile 2024

2022, l’anno della ripartenza: PNRR, reshoring e investimenti ci aiuteranno?

Le varianti rallentano l’economia e la rinascita del Paese. Chi controlla il passato controlla il futuro» diceva George Orwell, lasciando intendere come la storia sia spesso “usata” in chiave politica. Il libro dell’Istituto Stato e Partecipazione L’Italia del Futuro raccoglie 18 contributi su tutti i temi principali del presente e del futuro della Nazione. «L’industria in primis è fondamentale, credere di poter vivere solo di turismo o pensare di non rafforzare i propri settori strategici sono idee che porteranno l’Italia fuori dalla storia, processo già drammaticamente in corso», spiega Francesco Carlesi Presidente dell’Istituto Stato e Partecipazione, dottore di ricerca in Studi Politici (La Sapienza), docente presso UniDolomiti e autore del libro. «Bisogna al contrario mettere a sistema i cosiddetti “campioni nazionali” come Ferrovie dello Stato ed Eni per elaborare progetti  di ampio respiro che diano all’Italia un ruolo internazionale, riportando il più possibile la produzione entro i nostri confini. La pandemia ha dimostrato che un certo grado di indipendenza è vitale per gli Stati, che rischiano altrimenti di rimanere ostaggio di chi ha in mano la gran parte della produzione di beni, anche sanitari come la Cina, o ha il controllo delle “vie” marittime della globalizzazione come gli Usa».

Che cosa intende il professor Giulio Tremonti, che ha firmato la prefazione al libro, quando parla di “ali del folle volo”?

«È un invito a lanciarci verso le mille sfide che ci attendono con coraggio, consapevolezza della propria forza, della proprie radici e infine anche con un po’ di incoscienza. Solo così, riporta l’ex ministro, potremo «di nuovo proiettare fuori dai nostri confini e nel mondo tutta la nostra forza, come modello di civiltà per un mondo che dell’Italia ha ed avrà sempre più bisogno». Perché «tutto dipende da noi: basta saperlo e basta voler volgere la sfortuna in fortuna e farlo risalendo alla forza delle nostre origini, per proiettarla sul nostro futuro, oltre le vecchie categorie e le tante vecchie e fallimentari politiche, rovesciando le tavole del loro pensiero congelato o assente». Ancor più suggestiva la conclusione: «Non tutto ciò che è essenziale e morale è nel PIL, ma piuttosto nell’orgoglio e nel sentimento di una partecipazione collettiva basata sulla nostra identità, risalendo dalle origini del romanticismo di Mazzini del pragmatismo di Cavour. Dai caratteri che a partire dal 1800 hanno fatto l’Italia».

Che cosa può fare il nostro Paese per uscire dall’attuale crisi?

«In primo luogo credo sia vitale riscoprire e valorizzare la Costituzione economica, gli articoli che vanno dal 35 al 47 che parlano di funzione sociale della proprietà, programmazione economica, disciplina pubblica del credito, ruolo responsabile del sindacato e partecipazione dei lavoratori. Si tratta di una serie di intuizioni che riservano largo spazio al ruolo dello Stato in una visione di “terza via” che rispetta e promuove allo stesso tempo l’impresa e la proprietà, in un’ottica comunitaria. Nessun settore o categoria può pensare di farcela da solo e proprio oggi servirebbe un patto tra produttori che rilanciasse i territori e l’economia reale contro l’omologazione dettata dalle multinazionali. Sforzi logistici, infrastrutturali e programmazioni sulla base delle grandi filiere strategiche nazionali dovrebbero dare linfa al mondo dei distretti industriali, come quelli aerospaziali in Campania e Puglia e quelli del manifatturiero».

C’è poi il tema della partecipazione…

«In Germania o nei Paesi scandinavi ha dato spesso buoni frutti. Nel pieno della crisi sanitaria, economica, sociale e delle dinamiche della globalizzazione odierna, che sembrano accelerare i cambiamenti nel mondo del lavoro in maniera impressionante, appare vitale riprendere in mano questo filone culturale che parte da Mazzini, dalla Carta del Carnaro per arrivare fino all’articolo 46 della Costituzione: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». La partecipazione correttamente intesa potrà essere un’arma per governare e promuovere l’innovazione ed evitare le delocalizzazioni che tanto hanno pesato negativamente sull’economia nazionale dagli anni ’90 a oggi».

I fondi stanziati dal PNRR possono essere considerati un valido aiuto?

«Andranno  gestiti nel miglior modo possibile. Il PNRR è ad oggi un “libro dei sogni” che copre tutti i settori – dalla salute all’istruzione – ma l’aiuto potrà essere valido solo se saremo in grado di collegarlo a quella rinascita interna che freni delocalizzazioni, fuga dei cervelli, inverno demografico, spopolamento delle aree interne, perdita della strategia e dell’orgoglio nazionale di cui si è parlato in precedenza. In più, bisognerà provare ad attuare una vera e propria re-industrializzazione (il cosiddetto reshoring) che riporti in Patria le aziende, attraverso piani fiscali e strategie studiate minuziosamente. Solo una Nazione che avrà ripreso in mano le sue prerogative potrà allora essere protagonista di piani condivisi a livello europeo sui temi dell’aerospazio, delle infrastrutture e delle cosiddette transizioni ecologiche e digitali».

I social stanno distruggendo la capacità critica delle nuove generazioni?

«Credo che in larga parte sia vero. Il fatto che la “tecnica” incontrollata rischi di prendere il sopravvento, spersonalizzare l’uomo e fargli perdere il controllo di sé era d’altronde chiaro a molti pensatori come Ernst Junger e Martin Heidegger già cent’anni fa. La velocità dei social, del digitale, le iper-semplificazioni tipiche della comunicazione odierna stanno rendendo refrattari molti giovani ai discorsi complessi e profondi, stanno impoverendo drammaticamente il nostro vocabolario. E meno parole ci sono, meno possibilità di concepire un discorso critico si possono aprire».

Che riflessione si sente di fare su giovani e lavoro: continueranno ad andare all’estero per concretizzare i loro sogni professionali?

«La “fuga dei cervelli” è una sconfitta della Nazione di grandi proporzioni. La crisi degli ultimi trent’anni del nostro sistema industriale ha giocato un ruolo rilevante, insieme alla progressiva diminuzione di investimenti in ricerca e sviluppo dettata dalla cecità delle classi dirigenti, dalle politiche restrittive dell’Ue e infine da un martellamento propagandistico che ha coinvolto grandi media. Si tratta precisamente di quei mantra che descrivono continuamente l’Italia quale coacervo di ogni nefandezza e l’estero quale eden dove ogni cosa funziona alla perfezione. Idee “auto-razziste” che arrivano in larga parte dalle culture politiche del marxismo e del liberismo, la cui vocazione globalista ha reso storicamente difficile nella penisola affermare chiaramente il patriottismo e la valorizzazione dei confini. Non si può pensare di lasciar andare via ancora  a lungo tante menti brillanti cresciute nel nostro sistema d’istruzione e importare quasi esclusivamente lavoratori poco o nulla qualificati».

Quale sarà il futuro economico del nostro Paese: il 2022 sarà l’anno della ripartenza?

«Molti giornalisti e opinionisti hanno celebrato il 6% di crescita del PIL di quest’anno, che è stato sicuramente positivo. Il numero arriva però dopo un -8,9% nel 2020 e una discesa quasi inarrestabile degli ultimi decenni. Nell’ultimo rapporto del Censis si legge:  «Il PIL dell’Italia era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio, dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, per poi crollare di quasi 9 punti percentuali nel 2020». Una caduta libera che ci lascia in mano un quadro a tinte fosche, il quale può renderci difficilmente ottimisti. In più, la carenza di materie prime, l’ondata di rincari e il permanere dell’emergenza aprono ulteriori ferite materiali e psicologiche nella carne e nello spirito della Nazione. Forse non sarà il 2022, ma prima o poi una ripartenza potrebbe arrivare, se sapremo attingere dalle «migliori riserve della nostra storia e della nostra memoria», come scrive Tremonti. Una rinnovata forza e consapevolezza per ridare all’Italia un ruolo, senza illusioni o velleità ma neanche quei complessi di inferiorità denunciati più volte da Enrico Mattei, così da essere una comunità di destino che attraversa passato e futuro. Si tratta di uno sforzo quasi incomprensibile per la mentalità dei nostri tempi, ma nondimeno necessario. Uno sforzo spirituale – «La Patria non è un territorio, il territorio non ne è che la base. La Patria è l’idea che sorge su quello; è il pensiero d’amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio» diceva Mazzini – che non neghi il progresso ma lo indirizzi verso fini politici e umanistici. Perché, come scrisse Gaetano Rasi «la scienza quando è priva di una forte convinzione etica e di un impegno civile, non è vero progresso e non contribuisce al perfezionamento dell’uomo».                                       ©