venerdì, 26 Aprile 2024

L’Italia punta a PNRR e NEXT GEN EU. Ma se non facessimo le riforme?

Far ripartire la crescita dell’Italia significa rivedere welfare, fisco e giustizia. Dalle riforme strutturali dipende il futuro economico del Paese che, oggi, attraversa uno dei momenti più delicati accompagnato da un’instabilità sui mercati che preoccupa gli investitori. «Oggi con il piano Next Generation EU, le riforme sono diventate ancora più importanti», spiega il professor Alberto Saravalle avvocato e professore di Diritto dell’Unione europea oltre che autore del libro Molte riforme per nulla. Una controstoria economica della Seconda Repubblica, insieme al direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni Carlo Stagnaro. «L’erogazione dei fondi messi a disposizione dall’Ue è in larga parte condizionato alla realizzazione di alcune riforme strutturali che dovrebbero rimettere il nostro Paese sulla via della crescita. E allora, per evitare di ripetere gli stessi errori, è essenziale capire cosa è accaduto in passato, perché non abbiamo fatto le riforme su cui apparentemente tutti erano d’accordo».

Ci sono delle riforme che pensavamo sarebbero state utili per il nostro Paese e che si sono rivelate, in pratica, inefficaci o addirittura inutili?

«Non c’è stato un errore di programmazione. I problemi derivano piuttosto dal fatto che in molti casi, dopo aver fatto coraggiosamente le riforme (penso alle pensioni o al lavoro, per fare solo due esempi), siamo tornati indietro, smantellando il lavoro fatto egregiamente dai precedenti governi. In altri casi, invece, lo sforzo riformatore è risultato incompleto, superficiale e quindi inefficace. Per dirla con una battuta: molte leggi e poche riforme».

Da questo punto di vista in che cosa l’Italia è ancora decisamente indietro rispetto agli altri Paesi europei?

«La grande differenza l’hanno fatta le riforme effettuate a cavallo degli anni novanta e nel primo decennio di questo secolo. In molti Stati sono stati fatti significativi interventi per rafforzare la resilienza del sistema. Pensiamo alla Germania che era stata definita il malato d’Europa: il cancelliere Schroeder ebbe la lungimiranza di promuovere importanti riforme del lavoro e del welfare che hanno consentito poi al Paese di affrontare in una posizione più solida la grande crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Anche gli Stati che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, giungendo perfino a chiedere l’assistenza finanziaria all’Europa, hanno poi dato attuazione ai programmi di aggiustamento macroeconomico che ne hanno modificato radicalmente il tessuto economico. Noi no. Abbiamo sempre cincischiato: un passo avanti e uno indietro. Non c’è mai stata una forte spinta riformista. Fare le riforme può avere un costo politico (Schroeder forse salvò la Germania, ma poi perse le elezioni) e nessuno se lo è voluto sobbarcare».

Voi dedicate un capitolo del libro al problema del fisco in Italia…

«La politica fiscale è uno dei principali strumenti in mano al governo per perseguire i propri obiettivi di politica economica. Purtroppo, i nostri governi non se ne sono mai avvalsi compiutamente. Non c’è mai stata, infatti, una vera riforma ad ampio raggio: siamo passati da un intervento congiunturale all’altro. Molte promesse, soprattutto in concomitanza con le scadenze elettorali, e pochi fatti. I dati parlano chiaro: la pressione fiscale è ancor oggi esorbitante, l’ordinamento è caotico e le decisioni spesso imprevedibili. In questo contesto, si distingueva il libro bianco predisposto nel 1994 dall’allora Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che si proponeva una riforma complessiva del nostro sistema in un’ottica liberale. Le direttrici erano tre: federalismo fiscale, spostamento graduale della tassazione dal lavoro alle cose e all’ambiente e semplificazione. Nonostante i buoni propositi, quel programma, però, non venne mai realizzato. E fu un’occasione perduta per il Paese». 

Tra il 2000 e il 2019 l’Italia è stato l’unico Paese in cui il reddito per abitante è passato da essere sopra la media europea del 20% al 3%. Qual è la sua riflessione in merito?

«Nonostante la grande opportunità che la partecipazione all’Unione economica e monetaria ci ha dato (ricordiamo che la cedola del btp decennale calò dal 13% al 4% nell’arco di 4 anni), noi siamo rimasti al palo. Non abbiamo saputo approfittare di un contesto particolarmente favorevole per adattare la nostra economia, per affrontare meglio la competizione in un mondo che andava cambiando rapidamente. Se vogliamo attrarre gli investimenti necessari a far ripartire la crescita dobbiamo avere una pubblica amministrazione più efficiente, una giustizia civile più rapida, un sistema industriale concorrenziale, flessibilità nel lavoro, un fisco più equo e naturalmente un carico pensionistico sopportabile. A questo servono le riforme».

I fondi del PNRR e del Next Generation Eu sono la nostra ultima chance?

«Non amo la retorica dell’ultima chance. Però è indubbio che questa sia un’opportunità difficilmente replicabile sia per la ingente mole dei fondi messi a disposizione del nostro Paese (tra finanziamenti e contributi a fondo perduto parliamo di circa 190 miliardi di euro), sia perché se non riusciamo a realizzare le riforme neppure a fronte di incentivi così significativi, è improbabile che questo nuovo modello venga utilizzato per finanziare altri beni comuni (non solo la transizione ecologica e digitale, ma, per esempio, nel settore della difesa) o per effettuare gli investimenti necessari per infrastrutture di interesse europeo che  gli Stati non riuscirebbero a fare senza gravare eccessivamente sui propri bilanci. Tutti gli occhi dell’Ue sono puntati su di noi e sulla nostra capacità di realizzare queste benedette riforme. Perciò l’uso che faremo di questa opportunità avrà conseguenze enormi sul disegno futuro dell’Ue».

Gli sconvolgimenti dell’economia mondiale, causati dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina, porteranno a una rimodulazione di alcuni investimenti del PNRR?

«Non c’è solo la guerra. Anche il maggior costo dell’energia, le difficoltà ad avere accesso alle materie prime, i ritardi nelle forniture di determinati prodotti, come i microchip, hanno sicuramente un impatto. Dopo la grande crescita del 2021, già si intravedeva un rallentamento che l’Ufficio parlamentare per il bilancio aveva quantificato in uno 0,8% in meno rispetto al 4,7% stimato nel DEF. Non penso, però, che si vada verso una rimodulazione del piano di investimenti del PNRR. E, in ogni caso, tutto ciò non tocca le riforme che devono comunque essere adottate nei tempi scanditi dal cronoprogramma stabilito dal governo. Anzi: proprio in un quadro macroeconomico più freddo le riforme pro-crescita diventano ancora più importanti per sostenere lo sviluppo del Paese».

Che cosa potrà cambiare in concreto nei prossimi anni?

«Questo è un momento fatale, come l’avrebbe definito Stefan Zweig: l’Europa esce da una grave crisi pandemica più forte, perché ha ritrovato una solidarietà che non conosceva da tempo e una diversa narrazione che consente di contrastare il forte sentiment antieuropeo che aveva messo a rischio la costruzione della casa comune. In questo mutato contesto, il nostro auspicio è che l’attuale governo, pur avendo poco tempo a disposizione, riesca a cambiare i termini del discorso politico generando un circolo virtuoso suscettibile di perdurare. Abbiamo bisogno di un ampio dibattito politico che torni a mettere le idee e i valori al centro, che ci dia un progetto, un sogno. Che spieghi cioè che le riforme non sono solo una questione tecnica, ma un mezzo per raggiungere un obiettivo: trasformare l’Italia. E che espliciti che tipo di Italia vogliamo e come intendiamo raggiungerla: solo così gli italiani potranno fare una scelta consapevole quando esprimeranno il loro voto».

Tra tutte le riforme di cui parlate nel vostro libro, quale o quali, ritiene più importanti per il futuro del Paese?

«Direi senz’altro la pubblica amministrazione, senza la quale è impossibile realizzare anche le altre riforme, e la giustizia civile che è una sorta di biglietto da visita del Paese: come si fa ad attrarre investitori stranieri se il nostro sistema giudiziario funziona poco e male e la tutela dei diritti è resa inefficace dalle eccessive lungaggini dei processi? Non a caso, nel PNRR queste riforme sono definite orizzontali, ovvero consistenti in innovazioni strutturali dell’ordinamento, idonee a migliorare l’equità, l’efficienza e la competitività e, con esse, il clima economico del Paese».

Che ruolo giocheranno le nuove generazioni?

«La controstoria che raccontiamo nel libro è, in realtà, la storia del fallimento di una generazione, la mia principalmente. Siamo entrati nella Seconda Repubblica pieni di speranze e ci siamo rassegnati a vivacchiare chiedendo all’Europa un po’ di flessibilità. Tocca ai giovani, che oggi spesso sono costretti a emigrare per cercare nuove opportunità, capirlo e farsi sentire. Difendendo lo status quo, abbiamo bloccato l’ascensore sociale. Stiamo sottraendo risorse e privando del futuro i nostri eredi».       ©

crediti: Alberto Saravalle